THONON LES BAINS
Orlanda Amarilis
Era contenta. La lettera spiegava tutto per filo e per segno.
Tutto tutto. La mattina aveva sentito un tonfo al cuore e,
appoggiata alo stipite della porta di casa, aveva aspettato che
quel suo cuore impazzito si calmasse. Antoninho Coxinho l’aveva
trovata ancora bianca in volto e aveva cercato di tirarla un po’
su.
– Eh, nh’Ana, che faccia lunga che avete. Su, rallegratevi, ho
qui una lettera che viene dalla Francia. Guardate, guardate, il
francobollo è francese, è un francobollo estero.
Nh’Ana era rimasta turbata. Oh mio Dio, adesso capisco perché
il mio cuore salta come un cavallo impaurito fin dalla prima
mattina.
– Dammi quella lettera Antoninho. La stai girando da una parte e
dall’altra, si direbbe che non hai mai visto un francobollo
straniero. Tante lettere dall’America, tante lettere
dall’estero, perché questa faccia per una semplice lettera?
– No nh’Ana, è che le lettere dell’America non hanno mica
dei francobolli così belli. Gli Americani mica li sanno fare dei
francobolli belli in questo modo.
Nh’Ana chiuse la porta e si diresse direttamente in camera sua.
Avvicinò una sedia al comodino, si sedette, osservò la lettera e
cercò poi nel cassetto qualcosa per aprirla. Mentre l’apriva
con molta attenzione, contemplava il francobollo. Antoninho
Coxinho aveva detto una cosa proprio giusta. Gli Americani non
hanno gusto per niente. Quando mandano i loro pacchi ci sono
dentro dei vestiti strampalati, della roba senza gusto. Ma hanno
una cosa buona: i profumi. Ah, i profumi americani, non c’è
paragone.
Finì di aprire la busta e ne estrasse la lettera con cura.
L’aprì e cominciò a leggerla.
Benedetto sia il Signore. Si strinse la lettera in seno e con gli
occhi cercò l’angoliera dall’altra parte del letto.
All’interno di una nicchia, che era una scatola da scarpe, un’immaginetta
con dei fiorellini di cera tutt’attorno mostrava un volto
abbassato con due pieghe agli angoli della bocca. A un lato della
nicchia c’era una raffigurazione di Santa Teresa, dall’altro
una della Nostra Signora del Rosario.
– Oh Sacro Cuore di Gesù, hai udito le mie preghiere e anche tu
Santa Teresa e anche tu Nostra Signora del Rosario.
Si fece il segno della croce e si alzò, costeggiò il letto e andò
a baciare quelle immagini sacre.
– Grande è il potere del Signore!
Si sedette per finire di leggere la lettera. La lesse di nuovo. E
la rilesse ancora una volta.
Da quel giorno in avanti fu un continuo andirivieni in quella
casa. Nh’Ana entrava e
usciva per fare delle compere. Tela di pelle d’uovo per la
biancheria intima, una corsa per prendere le misure per delle
scarpe di vernice nera, comprare polvere di riso e acqua di
colonia da mettere sul fondo della valigia della figlia. Tanto
tempo ad aspettare quella notizia. Un’eternità in attesa della
lettera di chiamata. Gabriel aveva tenuto fede alla parola data.
Gabriel, figlio adottivo di nh’Ana, aveva promesso di portare la
sua mezza sorella in Francia e non se n’era dimenticato.
“Gabriel è proprio come se fosse figlio mio davvero. Lui non si
dimentica di tutte le difficoltà che ho avuto per crescere questi
quattro figli che il padre mi ha lasciato”.
Giunse le mani e alzò gli occhi al cielo. “Dio abbia l’anima
di Chico in gloria”. Fece un lieve sospiro. “Questo figlio che
il padre ha fatto con un’altra è diventato il mio angelo
custode. Mi manda dei soldi, mi manda dei pacchi, è come se fosse
proprio mio”.
– Ma, comare Ana, voi non avete paura di mandare vostra figlia
lontano tutta da sola?
– Che dite, comare, paura di che? Paura per niente. Gabriel ha
tutto molto ben spiegato. Ora va Piedade, poi, fra due anni parte
Juquinha, poi Maria Antonieta e poi io con Chiquinho.
– Ah, comare Ana, il Signore accompagnerà tutti voi.
Così si lasciarono le due comari e allo stesso modo si rividero
alcuni giorni dopo. Piedade si trovava già oltre l’Isolotto
degli Uccelli, quasi in mezzo al canale. Nh’Ana, in lacrime, non
aveva mai pensato che avrebbe sofferto tanto per la mancanza della
figlia.
– Sapete, comare, la vita qui non poteva continuare a quel modo.
Sette anni senza pioggia sono tanti. Io non ho nemmeno un briciolo
di pensione della buon’anima. Abbiamo vissuto grazie
all’affitto di quei pezzetti di terra e di qualche altra cosina,
degli aiuti dei nostri mezzadri, un casco di banane ogni tanto,
delle uova, qualche mango quando capita, alcune manciate di mongolom,
due misure di mais ed è tutto.
– Anch’io non ho nulla, comare Ana. Se non fosse per i fiori
delle corone da morto o per qualche ricamo sulle lenzuola, come
farei a tirare avanti, eh comare?
Nh’Ana annuì con la testa.
– Sapete, comare, se mia figlia mi dovesse mandare qualche
soldo, potrei aprire un chiosco, fare della catchupa con lardo e manioca da vendere la sera, un po’ di grog
o del pontche da berci insieme, e via.
– Ah, comare Ana, io ho una ricetta speciale speciale per il pontche.
In una grande caraffa, sui tre litri suppergiù, con
l’imboccatura ben larga, ci avete presente?, faccio un pontche
da leccarsi i baffi. Un litro e mezzo di grog,
o addirittura due litri, tre quarti di miele, due limoni tagliati
a fettine e poi ci aggiungo acqua fino a riempirlo.
Nh’Ana non era d’accordo.
– No, comare, tanta acqua no. Basta solo un goccio per
sciogliersi il miele. Eh no, comare, tanta acqua così no. Così
non è né pontche né
niente.
– Ma comare Ana, sennò come si fa? Se ci volete guadagnare
qualche cosa ci dovete mettere l’acqua nel pontche. Sapete a quant’è il miele al litro? E i limoni? Sapete a
quanto sono i limoni? E poi ora non si trovano nemmeno più.
Avvolta nei suoi sogni, nella speranza di aprire il suo chiosco,
nh’Ana trascorreva le sue giornate e aspettava notizie della
figlia. Ultimamente le lettere avevano cominciato a scarseggiare.
Gabriel ne spiegò il motivo in un post
scriptum di due righe. Piedade usciva con un francese. Era un
po’ più grande di lei ma non c’erano problemi, mamma Ana.
Piedade si sistemerà bene.
Nh’Ana rimase tanto alleviata dalle notizie sulla figlia come ne
fu contrariata. Sperava di avere con sé Piedade per un altro paio
di anni, così da darle alcuni consigli per incamminarla al
matrimonio, preparare insieme il corredo, tutto nella calma del
giorno dopo giorno. Così non era bello, ma, insomma...
La comare, non si sa bene come, le si presentò in casa che era già
al corrente delle novità francesi. Nh’Ana, un po’ seccata per
tutto questo spettegolare, finse di essere contenta di condividere
con la sua comare una notizia così bella e, come se si trattasse
di una grande amicizia, la fece passare dentro casa per stare più
comode.
– Prendiamoci un caffè, comare. Ho un po’ di acidità di
stomaco. Non devo aver digerito bene oggi.
– Mah, comare Ana, a una tazzina di caffè non dico certo di no,
ma non prendo altro. Sono venuta solo a farti gli auguri. È
arrivata una letterina dalla Francia, non è vero?
– Ma, come, ti hanno detto qualcosa? Io ancora non ne ho fatto
parola con nessuno.
– Per carità, comare Ana, io non so niente. Ho sentito solo
alcune voci su Piedade e ho subito pensato: vado a casa della mia
comare Ana. Ci vado, non per altro, ci vado per avvisarla su
Teodoro.
Qui nh’Ana ebbe un sobbalzo. Lei ben sapeva degli abusi delle
Poste. Aprivano le lettere dei compaesani, le leggevano,
prendevano i soldi che c’erano dentro, poi le richiudevano e
nessuno si presentava per protestare per questo o per altri
soprusi. Ma lei ci sarebbe andata, eccome se ci sarebbe andata.
Sospettava di un certo Gilberto, figlio di benestanti, non aveva
neanche finito il quarto anno di liceo che l’avevano subito
piazzato alle poste ed era lui di sicuro che aveva l’abitudine
di aprire le lettere di tutti. Era lui, tanto più che andava
sempre al bar di Herculano a bere birra tutte le sere. Quando mai
si è visto un impiegato delle poste che beve tanta birra in quel
modo, tutti i giorni tutti i giorni. Sua madre, vedova da quasi un
anno, senza alcuna pensione di sopravvivenza, aveva cominciato a
tenere in casa degli studenti del liceo provenienti dalle altre
isole, vitto, alloggio e lavaggio della biancheria compresi. Ma
lei aveva la puzza sotto il naso, voleva ospitare solo figli di
gente di buona famiglia come la sua. Quando gli zii di Armando,
quel bambino della voce d’oro – ah, cantava proprio come un
usignolo –, quando le scrissero per chiederle di ospitare
Armando, lei fece delle scene, alzando gli occhi da una parte,
rigirandoli dall’altra, sfregandosi il mento, per poi dire che
non aveva neanche una stanza libera, a meno che non lo mettesse a
dormire nell’andito. Era tutta una messinscena perché per
Arlindo del dottor Filisberto lo trovò subito il posto, ci
mancava solo che gli desse un letto col baldacchino. Quella gente
della classe alta di Soncente! Lei non aveva ospitato Armando
perché era figlio di un carpentiere, non è così? Nh’Ana
ancora a rimuginare, scocciata per il fatto che tutti sapevano
tutto di tutti, riempì le tazzine e si sedette di fronte alla
comare.
– Perché questi discorsi su Teodoro, eh comare?
– Ah, comare Ana, non è per niente ma Teodoro voleva molto bene
a vostra figlia e
sembra che erano fidanzati, non è così?
– Scusatemi, comare, ma Piedade non è mai stata fidanzata con
Teodoro.
– Mi dispiace, comare Ana, ma loro erano fidanzati, sissignore.
Fidanzati, tant’è che la
madre di lui era stata a farsi leggere le carte per sapere
qualcosa sulla vita e sul destino
di suo figlio e di Piedade.
– Ma che mi dite, davvero?
– Davvero, davvero. Ha fatto le carte ed è uscito un re di
cuori tra Piedade e Teodoro. Poi, è uscito il tre di fiori e il
quattro di fiori, e poi il due di picche. Vuol dire: dopo tre
mesi, per mare, in una notte che è il due di picche, lei sarebbe
partita per andare lontano da questa terra. Ed è stato così, o
non è stato così?
Nh’Ana era rimasta con la bocca aperta, tremava quasi, e la
comare si sentiva soddisfatta. Soddisfatta per aver avuto ragione
su nh’Ana con una prova così schiacciante come quella delle
carte. Però non le disse niente su tutte quelle carte nere
attorno a Piedade, in un modo così strano che nemmeno la
cartomante aveva saputo spiegare come e per quale diavolo Piedade
appariva in mezzo a tante carte di picche, sette di picche, sei di
picche, tre di picche e, infine, un quattro di picche sulla
ragazza raffigurata dalla donna di denari.
Nh’Ana si calmò e finì per non dare più molta importanza alla
cosa. Sua figlia si sarebbe sposata con un francese, così
avrebbero avuto dei bambini con i capelli sottili sottili e con
gli occhi azzurri o verdi. Teodoro, chi era Teodoro per pensare di
sposarsi con la sua figlia femmina, eh? Troppo superba (si batteva
dei colpetti sulle guance) troppo superba, ma la sua figlia
femmina si sarebbe sposata e bene.
Gabriel dava notizie del freddo della Francia, a Thonon-les-Bains,
vicino alla frontiera con la Svizzera.
“In Francia fa molto freddo, mamma, ma ci mettiamo le scarpe
imbottite, i guanti e il cappotto. Piedade mi ha fatto un berretto
e una sciarpa rossi. Avantieri era domenica e, per caso, ho
incontrato Mochinho, un ragazzo badio
di Ribeira da Barca. Lui ha toccato la mia sciarpa e si è provato
il mio berretto e ha riso molto, mamma. Ha detto che io ero un
vero elegantone, potevo già conquistare le signorine ricche di
Thonon”.
Il suo lavoro al tornio in una fabbrica di sci gli piaceva da
morire. Descriveva nei dettagli come stringeva le viti, rigirava
quei legni informi, li smussava, li levigava con la forza delle
macchine, allentava nuovamente le viti e poi li passava ad altre
mani forti che li lucidavano, poi altre ancora vi collocavano i
ferri e così via. La sorella era addetta al servizio di
incollaggio delle etichette e a dare una pulitura finale a ogni
sci.
“Non essere preoccupata per via dei discorsi sul freddo di
Thonon, mamma, perché Piedade la mattina molto presto fa anche le
pulizie dell’albergo e il padrone ci lascia dormire nel vano
delle scale, nel corridoio, dove fa un bel calduccio giorno e
notte”.
Piedade cercava di rassicurare la madre, doveva stare tranquilla
perché qui in Francia non c’è bisogno di preparare il corredo.
Qui si va ai grandi magazzini e si compra tutto quello che serve
per la casa, la biancheria, tutto quanto. Lei e Gabriel si
sarebbero arrangiati per andare a vivere insieme a certi amici,
dei compaesani, di Santanton, che avevano una casa grande, lei
sarebbe rimasta ad abitare lì dopo sposata. Jean era un po’
geloso, aveva quarantadue anni, era separato da un’altra donna,
ma era molto buono con lei. Le portava dei cioccolatini quando
veniva a trovarla, tutto sotto gli occhi di Gabriel e dei suoi
amici. Non restava mai da sola con lui perché Gabriel non la
lasciava un attimo, sempre a sorvegliarla, e anche i due amici
erano capaci di andarglielo a raccontare se avesse fatto qualcosa
di male.
Nh’Ana era più tranquilla. Sua figlia non aveva ancora
dimenticato i buoni insegnamenti della madre. Questa, però,
evitava di parlare delle lettere con la comare. Era una brava
persona, ma sotto le sue buone intenzioni era anche capace di
gettare il malocchio nella vita di sua figlia. Il malocchio può
colpire qualsiasi persona a qualsiasi età. Per questo mettiamo
dei nastrini, neri e bianchi, tutto intorno alla pancina dei
bambini piccoli, al di sotto dell’ombelico. I grandi non hanno
bisogno di nastrini, ma quando si ha paura della iella che viene
quasi sempre attraverso un elogio (invidia), o attraverso uno
sguardo intenso (malocchio), bisogna fare le fiche con la mano
sinistra nascosta tra le pieghe delle sottane, o anche con la mano
direttamente dietro la schiena. Fica mancina, scaccia via, mare di
Spagna. E così la forza maligna dello sguardo e delle parole è
scongiurata.
Conservava le lettere sotto un centrino del comò o anche sotto il
portagioie. A volte le rileggeva per assaporare le belle cose
della Francia, terra dove tutti i bambini parlavano francese fin
da piccoli. Così passavano i giorni, nh’Ana continuava a
pensare al suo chiosco, al suo lavoro dopo il matrimonio di
Piedade.
Tuttavia, o perché era molto indaffarata o per un po’ di
pigrizia, le lettere della figlia cominciarono a farsi più rare.
Ogni tanto, quando dava notizie, arrivavano dei fogli di carta da
lettera azzurri o rosa con dei fiori stampati sopra, roba proprio
francese. Non sembrava più molto entusiasta della prospettiva del
matrimonio, ma continuava a parlare bene del fidanzato, lui la
trattava bene, le faceva molti regali, l’aveva già portata due
volte in Svizzera, era molto vicino a Thonon, bisognava solo
attraversare la frontiera. Gabriel si apriva di più con la
matrigna. “Mamma Ana, l’altro giorno ho comprato un televisore
a colori. Sapete com’è? Se le persone sono vestite di rosso e
blu, le vediamo proprio come sono, di rosso, di blu o di verde. Il
mio televisore si trova di fronte al mio letto e quando lo voglio
spegnere ho come una scatolina dove schiaccio un bottone ed è
fatto. È come avere una pistola, mamma Ana. Punto verso il
televisore e schiaccio il bottone e lui si spegne. Non è una
bella cosa, mamma Ana?”.
Un motivo c’era per la mancanza di notizie della figlia. Piedade
era stata molto presa dall’idea di sposarsi, ma ultimamente
l’idea si era un po’ affievolita. Jean era buono, la trattava
bene, ma lei aveva cominciato a pensare alla propria età e a
quella di lui, aveva cominciato a pensare alla serietà di Jean,
al suo modo di prendere tutto troppo sul serio. Jean aveva già
calcolato tutto per la vita, contava tutti i suoi franchi per
questo e per quello e lei aveva cominciato a stancarsi di quei
discorsi. Un po’ indomita, ribelle quasi, voleva giocare,
ridere, fumarsi la sua sigaretta e invece eccola a sopportare i
discorsi da vecchio di Jean. E poi quel ragazzo di Ribeira da
Barca, quel drittone di un badio,
veniva tutte le sera con la radio a transistor e lì loro due
cominciavano a ballare, a giocherellare, a dondolarsi da una parte
e dall’altra, a girare e a muovere i fianchi. Jean restava sulla
punta del letto, sorrideva. Non gli piaceva ballare preferiva
osservare le moine di Piedade quando Mochinho la conduceva in
mezze volte inaspettate, sembrava a un giunco sfiorato dalla
brezza.
In quei passi e in quei giri, Mochinho la stringeva e le diceva
delle paroline sussurrate, poi la allontanava, lei ricadeva
all’indietro e faceva altri passetti come figure di tango e di
rumba negra. Jean sorrideva, sorrideva sempre, abbassava e alzava
la testa per marcare il ritmo.
Il giorno del compleanno di Gabriel decisero di fare una festa in
casa dei due amici, quei ragazzi di Santanton che si
pavoneggiavano con il giradischi nuovo. Avevano invitato gli amici
di Gabriel, venne anche una cognata di Mochinho sposata da poco
con uno svizzero, un ragazzo di ventiquattro anni operaio in una
fattoria e poi due sampadjudas,
anche loro avevano trovato lavoro in un bar della Svizzera.
Piedade preparò dei cocktail con gin, vermut e spruzzatine di
bitter e un altro con vodka, granitina e sciroppo d’amarena.
Non si sa come diavolo fecero a procurasi delle banane verdi, ma
c’era brodo di pesce con patate dolci e banane verdi, bello
carico di peperoncino. Jean si sentiva demoralizzato, per niente
abituato al sapore forte di aglio e di cipolla. mangiò il pesce
come poté, sorbì il brodo piccante e rimase con il piatto in
mano a osservare l’andirivieni della fidanzata e delle amiche
che ora servivano questo e ora riportavano via il piatto di
quell’altro.
Mochinho era allegro come non mai e si avvicinò a Jean.
– C’est bon, Jean?
– Ehi, gente, allungatemi un altro piatto di brodo per questo
brother.
Con la bocca che bruciava per il peperoncino, Jean portava spesso
il tovagliolo al naso.
Mochinho spinse il letto verso il muro. Portò il pick-up e lo
sistemò sul comodino.
– Dai, facciamo quattro salti.
Alternarono musica americana con samba e coladeira.
Fu un turbinio inarrestabile.
Quando dovette fermarsi per riposare, il ragazzo badio se sedette sul letto, si mise un
cuscino tra le gambe e con le mani cominciò a batterci sopra con
suoni secchi e vuoti
segnando il ritmo della danza.
Piedade, con un’euforia mai vista, afferrò un asciugamano, se
lo legò in vita e prese a
ondeggiare le anche.
– Ahi, gente, forza con il torno –, gemeva lei.
– Ehi, ragazzi, con la sedia non vale!
La follia si fece largo nella notte. Mochinho non si staccava da
Piedade. Sorseggiava una
bottiglia di acquavite per riscaldarsi. Non la lasciava un attimo
e perse il controllo.
– Ehi, Dadinha, molla questo palloso di un Jean. Sarai la mia
ciccina, piccola. Non vuoi
essere la mia ciccina?
Lei lo lasciò solo in mezzo alla stanza e andò a sedersi accanto
al fidanzato. – Sei
scocciato, Jean? Non ti piace la festa?
Lui si alzò. – Je m’en vais.
– Perché, Jean? Dai, vengo con te.
In fondo al corridoio c’era il bagno. Sentì il cuore pesante e
si accostò a Jean.
Camminava, cocciuto, non diceva una parola.
– Ti annoi, Jean? Sei arrabbiato con me?
La porta d’ingresso era accanto al bagno. Si avvicinò ancor più
a Jean e lo abbracciò.
– Che cos’hai, Jean?
Jean, a sua volta, l’abbracciò, la cinse e la condusse così,
con fare mansueto. Quando
giunsero vicino alla porta, tenendola sempre per la vita, la
spinse dentro il bagno e con il
piede chiuse la porta e poi girò la chiave. Piedade era attonita.
Lui non era mai stato
molto espansivo. La baciava molto in bocca ma non era mai andato
oltre. Forse sarebbe diventata donna lì, per terra, in quel
gabinetto. In ogni modo si sarebbe sposata. Che succedesse ora il
giorno del matrimonio non aveva importanza. Si lasciò scivolare
sotto il peso dell’uomo e si vide stesa sul pavimento freddo. La
musica giungeva fino a loro e ritornava verso la piccola stanza
dove c’era la festa. Nell’oscurità non si scorgeva nulla.
Qualcosa la fece raggelare e supplicò “Jean, Jean!”.
Lui aveva qualcosa che brillava in una mano, ma lei non poteva
gridare perché lui le aveva tappato la bocca con quell’altra.
Nell’oscurità quel luccichio e i suoi occhi sgranati che
cercavano di vedere qualcosa. Una sensazione di freddo sul collo e
subito dopo un bruciore.
Dal bagno un grugnito sottile acquistò intensità e percorse
tutta la casa. Gli occhi di Piedade si spalancarono ancora di più,
il collo si irrigidì, lasciò cadere le braccia. Il sangue scorse
sotto la porta verso il corridoio.
Jean si alzò, chiuse il coltello e aprì la finestrella.
Da fuori cominciarono a battere forte contro la porta. Gabriel
diceva solo “apri la porta, Piedade, apri!”
Lo svizzero dette vari spintoni alla porta e riuscì a forzarla.
Neanche così però riuscirono a entrare perché il corpo di
Piedade occupava tutta la stanza. Fecero il giro della casa e
scorsero la finestra divelta. Quando riuscirono a entrare e ad
accendere la luce, lo spettacolo li fece inorridire. Piedade era
stata sgozzata, sgozzata come un maiale.
Gabriel
si vide solo in mezzo alla sua disperazione. Dovette affrontare
gli interrogatori della polizia, il seppellimento della sorella,
la ricerca di un posto dove andare. a Thonon nessuno voleva
affittare una stanza né a lui, né a Mochinho, né agli altri due
di Santanton sbattuti fuori dalla casa dove abitavano, né a
qualsiasi altro loro compaesano.
Un mese dopo a lui e ai compagni venne intimato di lasciare Thonon
entro tre giorni. Se li avessero beccati in qualche altro
pasticcio li avrebbero espulsi dall’intero paese. Gabriel ne
approfittò per prendersi un periodo di ferie e andare a Capo
Verde a consolare mamma e Ana.
Nh’Ana, Chiquinho, Antonieta, zie, cugine, tutta la famiglia si
recò al posto ad aspettare Gabriel. Avevano un lutto pesante.
Nella lettera non aveva nemmeno avuto il coraggio di raccontare
com’era andata per bene la faccenda. Il sangue ancora caldo,
schiumoso, che scorreva in rivoli sul corridoio gli aveva lasciato
una sensazione di disgusto per giorni. Gli occhi spalancati della
sorella, il collo tagliato con malvagità da parte a parte. Tutta
scomposta, l’immagine di quella notte lo perseguitava in tal
modo che non sapeva come fosse riuscito a sopportare tutto sino
alla fine.
Quando attraversarono la soglia di casa, nh’Ana non si
trattenne più. Cominciò a piangere, a singhiozzare. Le sedie
erano disperse lungo la parete tutte intorno alla sala. Su un
tavolo accostato al muro c’era un crocifisso e un piccolo lumino
acceso. Era passato il periodo del lutto, ma nh’Ana aveva voluto
aspettare Gabriel prima di disfare l’altare. Anche le zie e le
cugine piangevano. Poi si zittirono e solo un singhiozzo qua e là
si udiva nell’aria. Gabriel cominciò allora a raccontare tutto.
– Ma perché, Gabriel, perché non avete detto alla polizia che
era stato quell’uomo ad accoltellare la buon’anima di Piedade.
Ma perché? – chiedeva nh’Ana tra le lacrime.
Gabriel ebbe difficoltà a farglielo capire.
– Non sarebbe servito a niente. Loro lo sapevano, mamma Ana, lo
sapevano, cioè, se lo immaginavano, ma io sono emigrante.
Emigrante è spazzatura, mamma, spazzatura, questo è!
Non sapeva cos’altro dire di quei giorni di incubo, non avrebbe
certo raccontato come lui e i suoi compagni erano stati trattati
dalla polizia.
Cominciò a parlare del funerale.
– È stato tutto molto bello, mamma Ana. Abbiamo affittato una
camera ardente. Io e Mochinho ne abbiamo viste quattro e ne
abbiamo scelta una tutta rivestita di panno bianco e dorato. Non
abbiamo dovuto fare nulla noi, solo parlare con l’agenzia. Ci
hanno pensato loro a mettere i fiori, a mettere la musica e tutto
il resto. Piedade, buon’anima, è stata due giorni nella camera
ardente. Abbiamo pagato tutto, tutto, rinfresco, tè e pasticcini
per gli invitati, tutto, tutto. È stato tutto molto bello.
Avevamo delle sedie imbottite per tutti quanti e brandy per chi lo
voleva.
Mamma Ana si sentì più confortata. Per lo meno sua figlia aveva
avuto un funerale dignitoso. ma non mandava giù il fatto che
Gabriel non avesse denunciato quell’uomo solo per il timore di
essere espulso dalla Francia. Anche così non poteva comunque
lavorare a Thonon. Una volta tornato avrebbe dovuto nuovamente
ricominciare tutto daccapo. Cercare lavoro, permesso di soggiorno,
foglio di assunzione, informazioni.
– Non ti preoccupare, mamma Ana. Ho un amico che ha già trovato
una persona chi mi aspetta in Svizzera. Vado in Svizzera, vado a
lavorare in un bar.
– E chi è questa persona? –. Nhâ Ana non si trattenne più
ed esplose. – Stai attento agli amici, Gabriel! Sono stati gli
amici a provocare questa disgrazia alla buon’anima di mia
figlia. Metti giudizio!
Piangeva di nuovo. Gabriel chinò il capo e aspettò un po’.
– Io non so chi è, mamma Ana. Non lo conosco. Ci metteremo
d’accordo il giorno del mio arrivo. Lui verrà ad aspettarmi e
starà nel giardino di fronte alla stazione del treno. Avrà un
giornale sotto il braccio, ma dobbiamo ancora stabilire la parola
d’ordine.
Nh’Ana non tornò più sull’argomento. Le zie e le cugine
occupavano le sedie e guardavano ora il soffitto di legno dipinto
a olio, ora mamma Ana.
Gabriel rimase a rimuginare sulla sua vita. Non aveva detto tutto
a mamma Ana. Sarebbe andato in Svizzera per poter rimanere vicino
a Thonon. Aveva un piano ma non lo doveva confidare a nessuno.
Doveva vendicare la morte della sorella. Anche se avesse dovuto
arrivare sino all’inferno dietro a Jean.
Le due cuginette più piccole parlottavano.
– Nostro cugino Gabriel è proprio un bel ragazzo, non è vero,
Luísa?
– Mi piacerebbe essere la sua ragazza e andare in Francia con
lui, a te no?
– Chiudi quella bocca, stupidina. Piantala con queste
fesserie...
Per strada battevano il tamburo. Era il giorno di Santa Croce.
Gabriel si alzò e andò verso la finestra. Una massa di gente
seguiva un uomo che si trovava in un piccolo recinto all’interno
di un’imbarcazione di legno. Sorreggevano la barca con la vita.
Saltellando a piccoli passi facevano dondolare l’imbarcazione,
tutta ricoperta di bandierine, da una parte e dall’altra. I
legni schioccavano con allegria e la barca ondeggiava tutta.
Gabriel aveva gli occhi colmi di lacrime. Perché adesso, perché
questo? Si asciugò gli occhi col dorso della mano e andò a
sedersi nuovamente accanto alla madre adottiva. Più tardi, la
sera, sarebbe andato allo Step. Da lì avrebbe avvistato
l’Isolotto, si sarebbe sentito più calmo. Allungare lo sguardo
fino all’Isolotto degli Uccelli, solitario a poco più di un
centinaio di metri dalla spiaggia, gli avrebbe dato quella
tranquillità di spirito di cui ora aveva tanto bisogno.
(Tratto dal libro “Capo Verde – Nove isole e un racconto
disabitato”, Le Lettere Editrice, Firenze, 2000; a cura di Lia
Ogno)
Orlanda Amarílis è nata a Santa Catarina, isola di Santiago, nel
1924. Si trasferirà poi nell’Isola di São Vicente dove fin da
giovanissima prenderà parte alla vita intellettuale di Mindelo.
Qui, nel 1945, conoscerà e sposerà lo scrittore portoghese
Manuel Ferreira e con lui si recherà prima a Panjim (Goa), dove
risiederà per circa sei anni, poi in Portogallo, a Lisbona, dove
tuttora risiede. È una delle più personali e rappresentative
scrittrici dell’arcipelago di Capo Verde, la cui opera ha
arricchito la letteratura capoverdiana apportandovi una visione
femminile della realtà. La sua carriera letteraria inizia nel
1944, con una collaborazione sulla rivista “Certeza”. Ha
finora pubblicato tre libri di racconti: Cais
do Sodré té Salamansa (1974), Ilhéu
dos pássaros (1983) e A
casa dos mastros (1989), oltre ad alcuni volumi di letteratura
per l’infanzia. In italiano è stata pubblicata un’antologia
dei suoi racconti dal titolo Soncente,
Racconti d’oltremare (Rimini – San Marino, Guaraldi-AIEP, 1995).
Suoi lavori appaiono inoltre su riviste e si raccolte antologiche
di vari paesi. Thonon-les-bains
è tratto da Ilhéu dos
pássaros.
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Copertina
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