TANGO DELLA DISTANZA
Antonello Piana
Arriviamo sul posto in ritardo e abbiamo ancora da individuare il
luogo preciso senza dare troppo nell'occhio. Entriamo in quel che
ha l'aria di un cortile interno, adibito a parcheggio, tra
facciate scrostate da decenni da una parte e dall'altra il campo
adiacente ai binari della ferrovia; le precauzioni che Fabius ci
ha raccomandato mi appaiono ingiustificate, le case intorno
sembrano abbandonate irrimediabilmente.
Le indicazioni che abbiamo avuto ci guidano agevolmente fino a un
portone nascosto dal buio; tirandola per mano, la guido nell'ombra
dell'edificio fino al portone. Intorno non si vede nessuno, è
probabile che ciò sia dovuto alla riservatezza delle
disposizioni. Il portone doveva dare a suo tempo su un ampio
cortile in cui non doveva mancare del verde, anche se oggi non si
scorge l'ombra di una pianta nemmeno nel campo adiacente ai
binari; accanto al portone una breve schiera di bottiglie vuote,
attendiamo in silenzio nell'ombra dell'edificio, ogni cinque
minuti passa un treno, e il fragore intermittente fa risaltare la
sua chiusura nell'insensibile, la sordità elettiva che nelle
ultime ore le ha fatto pronunciare, credo, non più di una decina
di parole.
A
un tratto il portone si apre e la testa di Fabius compare dal
buio, siamo qui, dico io, lui sorride senza affacciarsi troppo, un
invito ad entrare senza ulteriori cerimonie, c'è anche
l'ascensore, è di quelli di servizio, funziona solo con una
chiave che Fabius in qualche modo è evidentemente riuscito a
trafugare.
Dopo le presentazioni gli chiedo se ha lavorato in questo posto;
tanto tempo fa, dice, ha lavorato come guardia notturna, a quel
tempo era ancora studente, mi ricordo in effetti di quando
lavorava saltuariamente in un'agenzia di sicurezza, evidentemente
quella volta aveva in affidamento le chiavi di tutto l’edificio,
che madornale leggerezza da parte del suo datore di lavoro, doveva
avere preso con se uno stampo, aveva calcato le chiavi per ogni
evenienza, era un gesto nel suo stile, come suol dirsi, Fabius è
sempre stato un tipo imprevedibile e pieno di atti gratuiti di cui
non era facile comprendere, o condividere, il senso.
E
ora entriamo nella fabbrica, non mi è possibile indovinare cosa
un tempo venisse prodotto, né mi interessa saperlo, resta solo un
grosso serbatoio da una parte, e un vecchio forno dall'altra, ma
lontano, e in mezzo più di mille metri quadri di superficie, il
vuoto rende lo spazio spropositato, quel che resta sono dense
tubature sulle nostre teste, il resto è solo vuoto, avanzo di
moderno ammantato dal buio. Non si può fumare, dice Fabius, il
serbatoio è pieno di combustibile e gocciola da più punti, chi
accende una sigaretta in breve ci uccide tutti, ride come un vero
amante del rischio, o un bambino incosciente, a preferenza; per
fumare si sale in terrazza, dice, per di qua, indica una scala a
pioli e una botola aperta, da cui calano echi di voci e risatine.
Ci sono molte persone nella sala, diverse decine, riunite quasi
tutte intorno a qualche tavolaccio ricoperto di viveri e
bottiglie; ci avviciniamo, Lara posa sulla tavola il dolce
che ha portato, io una bottiglia di vino, mi verso un bicchiere e
taglio una fetta di crostata; Lara di norma non mangia quasi
nulla, le dico, mangia qualcosa, e non ottengo risposta, dopo
breve si versa un bicchiere di rosso, ne beve un sorso e poi si
dirige verso la terrazza a fumare. Su e giù dalla terrazza un
continuo andirivieni, il vizio contro il freddo - anche il più
impenitente fumatore non può resistere a lungo all'umidità della
notte autunnale.
In un angolo c'è un impianto stereo che sembra funzionare
perfettamente, inserito nelle vecchie spine della fabbrica, si
apre davanti a uno spiazzo, delimitato per tre lati dai tavolacci,
che dovrebbe fungere da pista da ballo, ma che in un primo momento
resta tristemente spopolato. Fabius scende giù nuovamente con
l'ascensore a raccogliere eventuali ritardatari, prima di scendere
mi raccomanda di fare attenzione affinché nessuno accenda una
sigaretta, io mi verso un altro bicchiere e mi accingo ad
osservare la fauna cicalante, sebbene ben presto la mia attenzione
venga attratta da un singolo esemplare, una brunetta non molto
alta dall'aria mediterranea, i capelli corti e lisci, vestita
succintamente come si conviene a una donna di forme in
un'occasione mondana, ma con un tocco di infantilitá dovuta a un
paio di calze di lana rosse sotto la gonna corta.
A un certo punto sceglie un disco e lo mette a suonare. Si tratta
di una raccolta di tanghi, lei scivola tra le braccia conosciute
del suo accompagnatore, evidentemente sono soliti ballare insieme,
perchè si intendono discretamente, lui ha la rigidità tipica dei
tedeschi che ballano, ma tecnicamente è piuttosto bravo. Dal modo
in cui ballano, ma soprattutto da come si guardano, riesco a
dedurre che non stanno affatto insieme, che lui è innamorato di
lei, che lei non è granché interessata a lui e che probabilmente
hanno già dormito insieme. A un osservatore di talento queste
deduzioni non sono difficili, da bambino avevo letto almeno dieci
volte "Uno studio in rosso", era per un certo tempo il
mio libro preferito, forse a causa dei primi capitoli, quelli in
cui vengono presentati i personaggi per la prima volta, forse a
causa del flashback tra le montagne rocciose, che stempera
l'asciutta matematica dell'indagine con un'iniezione di
sentimentalismo, nessun libro di Sherlock Holmes mi ha poi
interessato a quel punto, nemmeno "Il mastino dei Baskerville",
che pure tecnicamente è anche migliore; in seguito a quella
lettura ero diventato un fedele proselito di Holmes, e mi
esercitavo a sviluppare il mio spirito d'osservazione cercando,
non senza successo, di scoprire il mestiere dei passanti durante
le mie lunghe passeggiate.
I tanghi si susseguono senza soste, nessuno balla ad eccezione
della brunetta e del suo compagno, la sua gonna corta mi rapisce,
le sue calzette rosse da bambina mi ricordano la Agnes di Fontane,
infondono all'eleganza sensuale dei suoi passi un accento di
innocenza che contrasta con il balenare infuocato degli occhi, i
quali, sporgendosi dalle scapole del suo accompagnatore, si posano
sui miei per la durata di un istante con regolare intermittenza.
Lara è sempre in terrazza, ma
forse sarebbe meglio dire sul tetto, chiacchiera con un
barbuto e brizzolato cinquantenne intento a fumare una pipa
pregiata, mi intendo abbastanza di pipe per riconoscerne una
pregiata - Holmes aveva scritto una monografia sui tabacchi, io,
più modestamente, fumo dall'età di nove anni, e ho acquisito una
conoscenza generale ma salda in ogni ambito del tabagismo,
oppiacee comprese. Fumata una sigaretta in solitudine, non oso
disturbare la sostenuta conversazione di Lara, da tempo non l'ho
più sentita parlare in modo tanto animato, con un fraseggiare
consequenziale e articolato; resto fermo per alcuni minuti alle
sue spalle, a fumare e ad ascoltarla. Quando finisce, scendiamo
insieme in sala, le riempio il bicchiere, Fabius ci raggiunge, si
forma intorno a noi un capannolo di voci che tendono a sopraffarsi
a vicenda, a concorrere con la modulazione delle risa, in un acuto
ininterrotto e frastornante.
Col
tempo la gente si dirada, ma le bottiglie continuano a gocciolare,
Lara si allontana dal gruppo, mentre io continuo a parlare con
Fabius, lei si siede da sola su una panca defilata con una
bottiglia e un bicchiere. La tanguera si avvicina verso di noi con
passo sicuro e chiede una sigaretta. Si presenta senza che io
riesca ad afferrarne il nome, d'altronde il suo nome mi interessa
relativamente, è una giovane maestrina francese in trasferta, per
un anno lavorerà qui, poi tornerà da dove è venuta, da Nantes,
è "institutrice", così si dice in francese, una parola
che in italiano si può scrivere allo stesso modo ma suona demodé,
mi fa pensare ai racconti di Maupassant, anche se non saprei
spiegarne esattamente il motivo.
A
un tratto Fabius mi fa un cenno, Lara esce dalla festa a passo di
marcia, senza salutare, ha recuperato il piatto su cui aveva
portato il suo dolce, la sua solerte contribuzione al prodigo
banchetto, è già fuori e devo correre per raggiungerla, scende
per le scale al buio - l'ascensore si può usare solo con la
chiave - col rischio di rompersi il collo, col buio fitto fatico a
raggiungerla, in silenzio, senza chiamarla o intimarle di
arrestarsi, è già uscita dall'edificio quando infine la
raggiungo, dico, non si saluta più, ma non voleva disturbare,
continua a camminare nel cortile spoglio, ma debolmente, non è
riuscita a trattenere la sua gelosia; non riesce a dominarsi e
contemporaneamente si vergogna di non potermi dare quella serenità
di cui ho nostalgia; ma il suo silenzio sa di vuoto, quel che
Baudelaire definiva il male oscuro, e i suoi contemporanei, più
dolcemente, melancolìa; non riesce a dominarsi e quando beve
diventa peggio, vorrebbe nascondersi e per questo scappa, e mentre
beve è consapevole che bevendo peggiora la sua posizione, salvo
poi pentirsene e macerare complessi di colpa che mi tormentano più
del suo silenzio, nelle ore e nei giorni successivi.
Le
dico che mi rifiuto di considerarla malata, sono sempre freddo e
distaccato con lei, non cedo alla commiserazione, a costo di farla
sentire immensamente sola, mi dice lei, io ho tutto il diritto di
restare, che io torni pure dentro, lei va a casa, domani deve
lavorare, é sempre colpa sua, e cade nella sua maledetta
autocommiserazione; sento nostalgia della festa e vorrei che
andasse davvero a casa, ma sono schiavo della sua melancolia, come
un servo che tacitamente continua a servire il suo padrone anche
dopo essere stato affrancato.
E
se fosse davvero malata, dice, la abbandonerei davvero? Resto in
silenzio per non fare concessioni e la sospingo, per mano, verso
la stazione più vicina, ci inerpichiamo per una bella via del
quartiere, una di quelle traverse strette e alberate, fatte di
case un tempo signorili e oggi ancora incantevoli, una delle
ultime straduzze che conservano con orgoglio quel loro ciottolato
antico, dissestato e incongruo avanzo di moderno.
Quando
rientro nella sala, mi attacco nuovamente e con maggior piacere
alla bottiglia, perdo ogni inibizione, stappo un vino bianco
aromatizzato alla resina d'abete, verso un bicchiere a Fabius, il
resto lo bevo io, in pochi minuti; la sbronza non è cattiva, da
bevitore consumato ho imparato a valorizzare la residua lucidità
sopra l'ubriachezza; oltretutto ho molto mangiato, in precedenza,
e in tal caso le mie qualità di bevitore si rigenerano in modo
esponenziale; il nuovo senso di leggerezza sopravvenuto alla
partenza di Lara fa il resto.
La maestrina è di nuovo in pista, sempre col suo accompagnatore,
sempre alle prese con un tango; mi osserva nuovamente ad
intervalli; ha assistito alla scenata di gelosia di Lara, e
probabilmente ne è restata lusingata. Il suo fascino ai miei
occhi per questo cala, e la festa si avvicina al suo termine,
siamo ormai circa una decina, le luci sono state accese da Fabius,
sono luci forti che dolgono agli occhi, come quelle di un cinema,
la proiezione è finita, bisogna andar via, e Fabius ormai sbronzo
si disinteressa di ogni precauzione, ha acceso proprio le luci
principali, presumibilmente visibili dall'esterno, se ora qualcuno
le notasse avremmo i nostri guai con la legge.
La maestrina si riavvicina al nostro gruppo, dice, una volta ha
avuto un italiano come partner, durante un corso di tango, io la
sto ad ascoltare, aveva una presa violenta, era molto impetuoso,
dice; molti italiani fanno una pessima pubblicità alla categoria,
replico, in definitiva intendo frenarne l'entusiasmo, la magia di
un incontro si guasta nell'evidenza del desiderio, non so se lei
lo capisca.
Arriva
presto il momento del commiato, il suo accompagnatore
evidentemente la incalza, se mi inserisco tempestivamente però
potremmo passare una notte impetuosa, ripenso nel mio intimo al
suo vocabolario, alla sua intraprendenza carnale, alla sua gioventù
alla sua bellezza alla sua impetuosità, una donna gaia e
spregiudicata con cui chiunque trascorrerebbe volentieri una notte
di piacere dissennato e impetuoso, di quelle che restano impresse
nella memoria e leniscono, nel ricordo, i dispiaceri del
contingente.
Basterebbe
forse una parola, una iniziativa forse solo accennata; mi verrebbe
voglia di dire, andiamo a bere qualcosa da un'altra parte, e la
compagnia si sarebbe certamente assottigliata, potrei sfinire una
parte dei restanti, soprattutto il suo appiccicoso cavaliere, e
lei ne sarebbe certamente lieta, certe cose si leggono sul viso di
una donna come una pagina stampata, potrei accompagnarla a casa
senza che opponga resistenza, l'ebbrezza ha indebolito le mie
remore e probabilmente anche le sue - sebbene non sia affatto
certo che lei abbia effettivamente bevuto.
Infine arriva il momento dei baci, come è d'uso tra i giovani
francesi in ogni occasione - i francesi si baciano costantemente
anche in caso di effimera conoscenza, sia nel momento
dell'incontro che del commiato, ogni volta tre baci leggeri a
guance alterne, la cerimonia non mi sorprende affatto, per quanto
continui a meravigliarmi - a un italiano non verrebbe mai in mente
di baciare un altro uomo che non sia un buon amico o un parente
che non vede da anni.
Mi accontento della soddisfazione del suo malcelato disappunto
camuffato da rimpianto per la scadenza dell'effimero, dell'addio
incontrovertibile e perciò piú repentino. Mentre si avvicina al
suo accompagnatore, lui evidentemente soddisfatto - aveva con ogni
probabilità intuito quel che si svolgeva - e mi regala un ultimo
sguardo con la coda degli occhi, io provo la soddisfazione
meschina dovuta alla sua delusione, una soddisfazione della
rinuncia da dongiovanni rincoglionito, o da eroe del nostro tempo,
talmente inconsistente che sarebbe sparita certo nel volgere di
pochi attimi, con la percezione dell'assenza.
Fabius
è assolutamente ubriaco, gli chiedo se l'impianto stereo è il
suo, mi risponde affermativamente, gridando senza che ci sia
bisogno, me lo regala, è cosa mia. Io me lo carico sulle spalle,
l'impianto stereo, non Fabius, che forse ne avrebbe più bisogno,
lo verrà a cercare a casa mia nei giorni successivi.
Sono l'ultimo a uscire, malgrado abbia bevuto probabilmente più
di tutti gli altri mi sembra di essere il più lucido, mi rigiro
ad osservare, prima di uscire, le rovine che il nostro corteo si
lascia alle spalle; nessuno si preoccupa delle conseguenze,
abbandoniamo i nostri resti con la leggerezza di tanti bambini
discoli e convinti di restare, in ogni caso, impuniti. Ancora più
ridicola sarebbe certo l'idea di trattenersi a rimettere ordine, a
reinstaurare la pulizia dell'abbandono, l'ideale sarebbe un
fiammifero lanciato nei pressi del serbatoio gocciolante,
prenderebbe fuoco o darebbe un botto?, la questione di un attimo,
una curiosità che per un istante desidererei appagare, l'ultimo
eccesso della serata, neanche Fabius avrebbe il coraggio di
covarlo, io sono in fondo più imprevedibile di lui, in fondo si
tratta di una vecchia fabbrica, nessuno vive nel palazzo. Devo
pensare alla mia incolumità, calcolare i tempi in modo da avere
il tempo di dileguarmi, occorrerebbe una miccia o qualcosa di
simile, di lunghezza comunque ragguardevole, la polizia si
precipiterà sul posto nel giro di pochi minuti, insieme ai
pompieri, per potersi dileguare occorrono invece parecchi minuti,
se si vuole essere sicuri, non è detto che il serbatoio esploda,
potrebbe limitarsi ad incendiare, in tal caso avrei comunque un
lasso di tempo più largo a mia disposizione. Ma non c'è niente
di simile a una miccia, naturalmente, occorrerebbe forse
dell'alcool etilico, che brucia piano come una miccia, ma una
normale bevanda alcolica dovrebbe bastare, dopotutto se brucia un
cocktail, un litro di wodka non dovrebbe spegnersi prima del
tempo, lo spargo accuratamente, compiendo un breve giro intorno al
piazzale, non é affatto un litro, la bottiglia era aperta e
semivuota, ma dovrebbe bastare, è wodka di un'ottima marca,
l'ultimo sorso lo bevo invece di versarlo, istintivamente mi
disturba l'atto di versarla per terra invece di berla. Accendo il
fiammifero, la wodka si accende come previsto, una fiammella
timida e bluastra che corre lenta, tremula, fino a spegnersi da
sola, dopo aver corso per venti centimetri. Senza provare a
riaccenderla, raccolgo lo stereo di Fabius, me lo metto sotto il
braccio e mi avvio verso le scale, di buon passo, malgrado
l'oscurità.
All'ingresso nell'aria ferma del cortile, mossa appena dal primo
treno della giornata, segue la nostalgia contemplativa delle sue
calze rosse che si sciolgono piano nella lontananza, unica nota di
colore nella bruma mattutina. Sulla strada del ritorno, percorsa
per un tratto insieme a una parte dei torpidi festanti, penso a
come Lara sarà contenta, al suo risveglio, di scoprirmi dormiente
al suo fianco.
Antonello Piana, nato ad Alghero, in Sardegna, il 17-06-1974, vive
attualmente a Berlino. È laureando in letteratura russa e tedesca
con una tesi su Paul Celan e si occupa in particolare di teoria
della traduzione letteraria.
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