LIBRI NECESSARI

Armando Gnisci
In un discorso tenuto a Accra, nel Ghana, in occasione di una conferenza dell'Associazione panafricana degli scrittori nel novembre del 1997, la sud-africana Nadine Gordimer, Premio Nobel nel 1991, sostenne che "Al di là della questione suprema della libertà umana, il nostro diritto alla libertà di scrivere implica per la società un significato, un beneficio che le può derivare soltanto dagli scrittori. I nostri libri sono necessari: giacché, per usare le parole del grande scrittore russo ottocentesco Nikolaj Gogol', mostrano sia allo scrittore sia al suo popolo ciò che essi sono. Lo scrittore è al tempo stesso il depositario dell'ethos del proprio popolo e la rivelazione al popolo di ciò che il popolo è. È di questa rivelazione compiuta dai loro scrittori che hanno paura i regimi. Ma se la nostra condizione di scrittori ha un senso, quella paura è la prova della nostra integrità...e della nostra forza. [...] Il termine griot indica genericamente la persona segnata con "il cerchio di gesso bianco intorno all'occhio" dal vecchio di Abazon nel romanzo di Chinua Achebe Viandanti della storia, per contraddistinguere l'immaginazione creativa [...] Non è proprio il cerchio di gesso intorno all'occhio il segno della nostra vera vocazione?" [da "La condizione dello scrittore nel mondo odierno: quale mondo? Il mondo di chi?" in Vivere nella speranza e nella storia. Note del nostro secolo, tr.it., Milano, Feltrinelli 1999, pp. 25-26, 28].
In Europa, e in modo particolare in Italia, i letterati da tempo non scrivono più libri necessari, nel senso sostenuto da Gordimer. Li scrivono, invece, a volte, quando sono particolarmente illuminati, gli uomini della politica; molto mediocri (uomini e libri) rispetto a quelli definiti dalla scrittrice australe, e soprattutto senza alcuna particella di gesso intorno all'occhio.
Perché li chiamo necessari, allora? E in che modo lo sono, proprio in quanto non sono prodotti da "scrittori"(quelli dei quali dovrebbero aver paura i regimi politici), ma da componenti-rappresentanti degli stessi regimi?
In Europa le cose stanno in maniera molto diversa che in Africa, indubbiamente. E alcuni libri dei politici europei possono apparire come necessari perché sembrano svolgere proprio la funzione gordimeriana. Essi, infatti, quando ci riescono, ci consegnano la faccia pubblica e universale (significa: visibile da tutte le parti come la stessa) del potere e ci avvisano, al contempo, della quota raggiunta dalla civiltà di un popolo, segnata proprio dalla loro tacca - e da chi e da cosa, altrimenti? - al misuratore sull'argine della nostra storia.
Due libri recenti, scritti da rappresentanti di primissimo piano del circolo del principe collettivo che ci governa, hanno questa funzione e questa portata. Essi, cioè, sembra che dicano cosa si pensa, e come ciò vada pensato nel loco più alto, lì dove siamo rappresentati per ciò che siamo: i potenti e noialtri, i cittadini (possiamo chiamarci ancora "popolo"?). Costoro scandagliano e assicurano di poter dire (di avere il potere di dire) la verità del fortunato regime di cui siamo gli abitanti. Non ci sono scandali e timori di ribellioni, né c'è la possibilità della protesta da parte di una opposizione che la pensi in maniera radicalmente diversa, tenuto conto che stiamo parlando di uomini e libri appartenenti alla maggioranza di governo, democratica e progressista, alla quale fanno opposizione uomini come Berlusconi, Bossi e Fini.
I libri intorno ai quali intendo fare qualche notazione critica sono: Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei. Saggio sulla società multietnica (Milano, Rizzoli agosto 2000) del "più eminente e più noto politologo italiano", Giovanni Sartori, e Forse Dio è malato. Diario di un viaggio africano (sempre Milano, Rizzoli agosto 2000) del leader della coalizione di maggioranza che sorregge l'attuale governo, Walter Veltroni.
Che cosa pensano e dicono per noi questi libri? Ciò che la società-civiltà italiana deve (essere portata a) pensare di due problemi di importanza storica e mondiale: la grande mutazione sociale e culturale che si annuncia nella ricca Europa occidentale, nelle cui arterie arrivano sempre più e inarrestabilmente a circolare genti di tutti i mondi che ne vanno trasformando il sangue, le lingue, le identità e l'avvenire. Anche se stiamo ancora soggiornando nella ridda primordiale di questo fenomeno di confusione, meticciato e creolizzazione. E comunque, non succedeva dai tempi lontani della venuta in occidente dei popoli germanici, caucasici e nomadi esterni delle steppe asiatiche (turchi, tartari), a partire dal declino dell'impero romano, di essere invasi in maniera così massiccia. I nuovi "estranei" si e ci adattano a una società del "multiculturalismo" o "multietnica". Il secondo problema è intimamente collegato al primo: riguarda ciò che la civiltà italiana deve pensare proprio dei mondi della miseria (l'88% della specie umana) dai quali si muovono i migranti. Tra di essi è proprio l'Africa che rappresenta la terra più desolata.

Il grande politologo Sartori, nel suo breve saggio scritto contro la società multiculturale intende convincerci che il pluralismo politico della "buona convivenza" inventato e praticato dalle democrazie-maestre dell'Europa occidentale mal sopporta la recente ideologia inglese e nord-americana di ispirazione marxista del multiculturalismo. In Europa stanno arrivando troppi "'estranei', persone che non sono 'come noi'" (p. 10), nel senso che sono "alieni" e "allogeni" (p. 93: la trattazione linguistica che Sartori svolge in questa pagina è esilarante e tenebrosa allo stesso tempo).
Ma Sartori, in fondo, vestito da perfetto teorico accademico, se la prende...con un libro di teoria multiculturalista, una specie di vangelo di questa corrente di pensiero (accademica anch'essa): il volume collettaneo Multiculturalism del 1994. Al suo interno il bersaglio preferito sono le tesi dello studioso Charles Taylor (pp. 65 e sgg.; in Italia il saggio di Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, fu pubblicato da Anabasi, Milano, nel 1993).
Secondo Sartori, Taylor sostiene che le minoranze etniche che formano una società multiculturale come quella degli Stati Uniti d'America, vanno innanzitutto riconosciute: come oppresse e diverse e, quindi, trattate in maniera preferenziale, sia per risarcire il loro handicap che per difendere la loro diversità. Questo fa la politica della affirmative action: "il trattamento preferenziale è concepito come una politica correttiva e compensativa atta a creare, o ricreare, "eguali opportunità", e cioè eguali posizioni di partenza per tutti [...] il trattamento preferenziale si applica, ufficialmente, ai neri, messicani, portoricani, indiani (nativi), filippini, cinesi, giapponesi [...] Ma in prosieguo di tempo è accaduto che il principio delle discriminazioni compensanti si è esteso alle donne, agli omosessuali e persino ai malati di Aids [...]i multiculturalisti fabbricano (rendono visibili e rilevanti) le culture che poi gestiscono a fini di separazione e/o di ribellione [...] in questo modo la comunità pluralistica viene sfasciata" (pp. 73-78). È per questo motivo che, secondo Sartori, la società multiculturale statunitense (il famoso melting pot) ha cessato di funzionare: le etnie migratorie sono diventate corporazioni separate, clientele intoccabili e tra loro in conflitto (neri e latinos, sopra tutti gli altri), oltre che in conflitto con l'eterno establishment di discendenza anglo-sassone.
Se il modello del melting pot è fallito, dopo duecento anni di sperimentazione e di integrazione di intere nazioni migranti nei territori sterminati e "vuoti" del nuovo continente (i "nativi" indians hanno rappresentato solo una selvaggia pietraia di inciampo, rimossa radicalmente, secondo la più ammirevole "soluzione finale" mai attuata da una parte della nostra specie sulla specie); se il modello del melting pot è fallito, quindi, nelle praterie e nelle megalopoli yankee (il nome viene, paradossalmente, dalla pronuncia indiana della parola "english"), figuriamoci in Europa: terra ricca, ma stretta e piena di gente nativa doc e super, pluralistica in senso giusto ed equilibrato. Noialtri possiamo accettare solo migranti per bene, integrabili trascendentali - cioè alla nascita, ok? - e disposti a integrarsi perfettamente nella nostra civiltà-società superiore e democratica, accettando volentieri lo scalino più basso della dignità lavorativa e umana. Soprattutto è necessario tenere lontani tutti gli islamici - come sosteneva già alcuni anni fa l'antropologa Ida Magli, passata dal pensiero critico a quello berlusconiano, e come sostiene oggi con grande efficacia il cardinal Biffi - : le genti più infide e nemiche del pluralismo, della democrazia, del pensiero liberale e laico dell'Europa occidentale, che resta la luce e la sede del progresso umano.
Queste sono le verità rivelate, in maniera chiara e forte, dall'unico pensiero in circolazione propriamente liberale e laico: amen!
E, invece, continua Sartori, una parte della classe politica e di governo italiana sta cedendo ai richiami sconsiderati del multiculturalismo, se non addirittura del meticciato interculturale (Sartori non lo nomina nemmeno, [se sapesse...!]): e via, allora, con gli ingressi facili e indiscriminati di immigrati di tutti i colori, e cittadinanza in vista per tutti. Così, sanziona il saggio, si provoca veramente del razzismo nella popolazione italiana. 
Sentite, infine, come chiude il suo panfletto il politologo eminente: "Nel Nuovo Mondo (Usa e Canada) si tratta di riconoscere l'identità di minoranze interne; in Europa il problema è invece di salvare l'identità dello Stato-nazione da una minaccia culturale esterna, e cioè posta dall'arrivo in casa di culture profondamente estranee"(p. 113) [chissà cosa avevano in comune i "padri pellegrini" con i Comanche o i Lakota]. Insomma, "in Europa [...] l'identità da salvare diventa, o diventerà quella degli europei". Sono, a distanza di un secolo e più, le stesse preoccupazioni di Geronimo e di Capo Giuseppe - per non parlare di Montezuma e Atahualpa -, gli stessi discorsi che si facevano nei Consigli degli anziani dei popoli Navajo e Cheyenne.
L'illustre filosofo e consigliere della politica italiana marcia sulla tratta longitudinale, accademica e massmediatica: Roma-Columbia University di NewYork. La migliore? Non direi. Manca a Sartori il lobo storico del cervello critico: dalla considerazione incancellabile della colonizzazione europea dei mondi alla denuncia delle infamie del post-colonialismo governato dall'Occidente, fino alla lettura dell'attuale globalizzazione che devasta civiltà e dignità umane (Sartori non ne parla mai, fa solo un accenno nella nota a p. 88 ad attuali e imprecisabili "processi globalizzanti"). 
Per rendere visibile la globalizzazione - che non è una moda intellettuale o una fissazione linguistica, come il "postmoderno" - cito lo scrittore Gore Vidal che così definisce la società del suo paese, gli USA: l'1% della popolazione detiene il dominio della ricchezza e governa attraverso il 20% di benestanti sull'80% di...di chi? di non-benestanti, di pericolanti, di oppressi, di squilibrati, di strani, mezzipoveri e poveri, meticci, immigrati, zombi, di estranei, alieni. Oppure, citiamo lo scrittore Frei Betto (che riprende dati ufficiali fissati sui parametri della Banca Mondiale) per quanto riguarda il Brasile: "I miserabili, 24 milioni di persone; 2) i poveri, 30 milioni; 3) quelli che si arrangiano, 60 milioni; 4) la classe media, 50 milioni; 5) i ricchi, 2 milioni". Nel mondo intero il rapporto squilibrato tra ricchi e poveri, non è più ormai di 20 a 80, ma di 12 a 88 e cresce, come il deserto, come la temperatura del pianeta, come il livello delle acque salate. Questa è la globalizzazione (secondo l'ONU, secondo Riccardo Petrella, le ONG, Alex Zanotelli, Susan George, Noam Chomsky, Frei Betto, Marcos, il movimento di Seattle, me che scrivo, e tanti altri).
Ma Sartori a noi nemmeno ci vede. Egli intende dire cosa pensare e fare agli europei benestanti e democratici dall'alto della sua cattedra transatlantica. In effetti gli sfugge il mondo di mano: anche se la prende con un libro di teorici del multiculturalismo yankee. Ma è tutta una finta, direte, per indottrinarci meglio. Okkay! Sostengo che continui a sfuggirgli tutto: la storia mondiale degli ultimi 500 anni, il pensiero meticcio e la civiltà nuova nata nell'America Latina da più di un secolo: ha mai letto José Martí e Darcy Ribeiro, Paulo Freire e Eduardo Galeano? Ha mai visto le fotografie di Sebastiano Salgado, ha riflettutto su Seattle e sui movimenti della rete contro la globalizzazione? Sfoglia Le Monde diplomatique? Sa cos'è la Rete di Lilliput e ATTAC e la People Global Action?
Lo so: a Sartori di tutto questo non gliene importa niente: il suo scopo è di nutrire il "suo" popolo benestante euro-italiano di ottime dosi di identità e di verità politica. La rivista Polizia e Democrazia lo ha ben capito e subito glielo ha riconosciuto (VI, n. 10, ottobre 2000): nelle sue pagine spese per una giusta integrazione degli immigrati, lucidamente allineate contro Bossi e perfino distanti da Berlusconi, il libro di Sartori (pp. 6-7) è salutato e citato come libro necessario.

Se il volumetto di Sartori piace ai moderati, alla classe media di qualsiasi tendenza partitica, e ai poliziotti il libriccino di Veltroni penso che possa avere un grande futuro come lettura scolastica (già ha un presente di best-seller in libreria e nei mass media).
Si tratta del diario - non in forma "letteraria" di diario, ma di un mediocre impasto di discorsetti, aneddotti, pistolotti economico-politici, riflessioni commosse e...basta, con fotografie - di un viaggio "buono" (di uno che è buono) in Africa: l'inferno dei mondi al mondo, dove i bimbi nascono e muoiono nella falce rugginosa (l'immagine è mia, okkay?) dell'Aids, la grande maggioranza delle popolazioni è povera e muore di fame e di sete, le genti si ammazzano tra di loro con le armi comprate dall'Occidente, i politici sono in grandissima parte dei corrotti. Insomma: "la più grande tragedia del nostro mondo [...]un inferno senza redenzione, se non fosse per l'opera dei volontari, laici e religiosi, missionari e membri di associazioni non governative, che tengono viva, contro ogni logica, la luce della speranza." (primo risvolto di copertina). 
Due notazioni sbrigative, tanto per cominciare: sono ancora gli europei l'unica luce e speranza (civilizzazione e fede nel vero dio, sono stati i capisaldi ideologici della colonizzazione dei mondi da parte degli europei, o no?) dell'Africa; e poi: gente buona, missionari cattolici e volontari laici, bravi ragazzi, vecchiette generose, persone altruiste ecc., sono un elettorato da attrarre definitivamente alla sinistra non più comunista, ma di buona volontà, di persone per bene, non razziste, altruiste, solidali ecc.
Veltroni passa come un santino sorridente, o corrucciato (ma il suo viso anche quando si corruccia resta affidabile, tenero e rassicurante) per tutto il continente: parte da Korogocho, il sotterraneo della storia (la definizione non è sua, ma di Alex), la discarica di Nairobi dove vivono centomila persone e dove abita e opera appunto Alex Zanotelli, il comboniano, poi va a Conacry e Abidjan, si sposta in Sud-Africa e parla con la Gordimer, arriva in Mozambico e si interessa ai problemi dell'Aids, e in Angola, dove riflette sulla prostituzione infantile, infine si ferma in Sierra Leone, qui è colpito dalla feroce piaga dei bambini-soldato (a proposito: se leggete in francese e desiderate un romanzo veramente necessario - alla Gordimer - che narri una storia "vera" sui bambini-soldato in Sierra Leone, in Liberia e nell'Africa occidentale - ma l'autore ha confessato di essere stato invitato a scrivere una storia sugli small-soldiers quando partecipò ad una conferenza in Etiopia sugli enfants soldats nel Corno d'Africa, proprio da quei ragazzi somali, eritrei, etiopici - leggete Allah n'est pas obligé, Paris, Éd. Du Seuil, 2000, del grande scrittore ivoiriano Ahmadou Kourouma; se no, aspettate, ben all'erta, che esca in italiano).
Un viaggio attento e sensibile nel dolore dei dannati della Terra, insomma, quello del nostro Veltroni. Semplice, intenso, pulito, commosso e commovente; un viaggio che "ha dato un nuovo senso alla mia vita" (p. 131). Eppure, un viaggio accorto, lucido e ragionevole, sempre teso a portare saggi consigli e formule politiche mirate, provvide, comprensibili e generose, spesso coraggiose: "Società civile e abbattimento del debito. Riconversione delle risorse in due direzioni: politica sociale (istruzione, scuola, sanità), infrastrutture (strade, ferrovie, elettricità, acqua) e sostegno al microcredito o alla piccola impresa" (p. 61); "E l'Occidente farebbe bene a togliere quelle misure di embargo che finiscono con il penalizzare solo i più deboli. Farebbe bene, invece, a estendere e generalizzare l'embargo alla vendita delle armi ai paesi poveri. Perché spesso i soldi degli aiuti internazionali finiscono in Kalashnikov o Beretta. E non in mais, riso o vaccini. (p. 125).
Il tutto è arrangiato in 136 paginotte stampate con caratteri belli grossi, e venduto a £ 22.000. Okkay! Il prezzo sembra giusto. Infatti, come già dissi, appena uscito è subito diventato un best-seller.
Vediamo di trovare, allora, qualche pecca anche in questo capolavoro popolare e necessario di ottimismo (ottimismo: superlativo di buonismo, che è la definizione della corrente filosofica alla quale appartiene Veltroni). Il nostro bravo leader ha evitato accuratamente di avvicinarsi all'Africa orientale (una volta italiana, detto così, tra noi, tanto per dire); le sue posizioni contro la globalizzazione e l'Africa sono ridicole: Alex glielo ha scritto pubblicamente e provocatoriamente, senza criticarlo in maniera estrema però [io, però, non sono un missionario e quindi ne suis pas obligé]; e Veltroni gli ha risposto con alcune frasi del suo libro.
E allora mi butto: per Veltroni, e per quelli come lui e anche per quelli che fanno politica contro di lui, l'Africa è il banco di prova per le "forze buone" della globalizzazione per dimostrare che la globalizzazione può essere, è, un beneficio per tutti i mondi. Per me: l'Africa è la prova vivente-morente della disumanizzazione di ciò che si compie nella globalizzazione: l'eccidio di una parte della specie, lasciato fare dalla parte della specie che possiede le ricchezze, la tecnica, il benessere, il potere, le armi. Lasciato fare a chi, a cosa? diciamo, alla Storia. La storia che non è utopia e futuro, e nemmeno speranza, ma solo dominio. Okkay?
Veltroni, infine, si riavvicina alle grandi fonti filosofiche, illuminate e liberali, del pensiero europeo occidentale: Giovanni Sartori (proprio lui, e chi se no?). Strappo due pagine del diario veltronico (le 58-59: 
"L'Europa dovrebbe portare il suo sguardo fin là. Possono non bastare le indignate ragioni morali, etiche, sociali, a far diventare l'Africa il problema numero uno del mondo. Ma ai cinici e agli egoisti si dovrebbero squadernare i problemi che, per le nostre floride economie, possono provocare flussi migratori eccezionali o il diffondersi in Europa di malattie mortali. L'Africa è dentro di noi, in ognuno dei due casi. Quando in Guinea mi hanno detto che ospitano, senza nessun aiuto internazionale, ottocentomila rifugiati della Liberia e della Sierra Leone, mi sono venute in mente le nostre sdegnate interrogazioni parlamentari sui gommoni sfuggiti, con dieci albanesi a bordo, alla Guardia di Finanza. In questo viaggio ho avuto la conferma che c'è sempre un Sud del Sud.- E che anche nei paesi poveri ci sono degli emigranti che fanno i lavori più duri, che vivono nei posti peggiori. Anche l'Africa ha i suoi zingari, i suoi albanesi. In Costa d'Avorio possono essere i Burkinabè, in Kenya i sudanesi e i somali, in Guinea i liberiani. Ma gli uni e gli altri attraverseranno disperatamente il mare e finiranno nella casa degli europei. Perché vogliono mangiare, non morire di malattie, educare i loro figli, non essere mutilati da ribelli sconosciuti. E gli Haider rischiano di moltiplicarsi, reazione di chiusura e rifiuto, a un tempo, della globalizzazione economica e del <<melting pot>>. Che poi è l'unica forma di convivenza possibile, in tutto il mondo. All'Africa manca un autentico <<melting pot>>. Etnie e tribù hanno attraversato i secoli, impenetrabili. Dove non convivono si massacrano."
A parte l'idea un po' confusa sul melting pot, i due libretti agostani 2000 di Rizzoli si riconoscono al fin gemelli, nella comune e attenta difesa che operano della fortezza di Eurolandia da esotiche e perniciose malattie e dall'invasione di masse di diseredati. 
E così, il pensiero civile italiano contemporaneo medio e giusto, perfino europrogressista, è rivelato a se stesso e al popolo da questi due "libri necessari".

Miei giudizi finali:
Sartori, scarso e infido
Veltroni, penoso e superfluo.
Noialtri che la pensiamo così, operiamo nella necessità delle nostre poetiche dall'altra parte del mondo e dalla vista che si ha dall'altra parte. Dalla parte di Seattle. Dalla parte degli estranei, o alieni.



Narrazione e quotidianità


Io non so narrare, se non, a volte, oralmente e, preferibilmente all'interno del discorso che mi è proprio: l'orazione. Non quella cristiana, evidentemente, ma quella retorica e pagana, in qualche modo pre-cristiana, umanistica. L'orazione prende le forme della lezione, dell'intervento ad un convegno (quello che gli anglo-americani chiamano paper) o della così detta conferenza. Chiamo questo tipo di testo "orazione" perché mediante, durante e dopo di essa il mio scopo è quello di far pensare al pubblico cose nuove e, nel più fortunato dei casi, imprevedibili. Cerco di procurare qualche emozione alla razionalità: per farlo c'è bisogno di saper costruire un nesso forte tra stile della composizione e presenza performativa: e quindi un'alta quota di retorica. E cerco di far venire idee proprie agli ascoltatori: desideri, associazioni mentali, abbozzi di meditazioni, catene flussi trecce di immagini e verbi, fissazioni, onde alfa e poi, una volta andati via, nella propria solitudine quotidiana, sull'autobus, per strada, o dopo tre mesi arrivare a pensare e a credere che prima non si sapeva che si potevano avere quei pensieri e quelle vedute, e che adesso si pensa a quel prima come ad un buco dove non c'era nulla e invece c'era, c'era la cavità e l'attesa. E che solo ora appaiono: il buco e il suo ripieno.
Tutto questo scenario serve, in fine, a far sì che il pubblico condivida il più possibile con me le condizioni della produzione della conoscenza e della comunicazione oratoria: come io ho inventato, scritto e detto, così l'ascoltatore deve poter vivere (nel senso di fare esperienza) il suo ascolto di me. Non nella medesima forma, ovviamente, ma nella complementarità paritaria della corrispondenza. 
Nell'orazione l'intrusione di qualche passaggio narrativo ha la sua perenne funzione retorica dell'aneddoto esemplificativo, possibilmente divertente, tanto divertente quanto più appropriato: il contrario del divertente, insomma, se questo viene inteso come "diversivo", "distrazione" o "divagazione". Io uso molto detrarre pacchetti narrativi dal mio così detto vissuto e da quello che conosco delle mie figlie (dai loro racconti, cioè, o dalle nostre situazioni capitate in comune: direttamente dai loro vissuti sarebbe impossibile, proprio perché non sono un "narratore di vocazione e di professione").
Spero di aver mostrato perché non parlerò di "narrativa e quotidianità", ma di scrittura e quotidianità: questione che mi si addice. Anche in questo caso prendo il discorso del mio fare proprio, essendo la mia una poetica - è di poetica, infatti, che stiamo parlando tutti quanti - del parlare e dello scrivere, dell'ascoltare e del leggere, messi al servizio dell'arrivare a "muovere politicamente" le persone. Per politico intendo ciò che altri chiamerebbero più tranquillamente "filosofico": ma io sono allergico alla filosofia occidentale. Politico vuol dire: interrogarsi sul che farsene di sé alle condizioni dell'imparare sempre più in che mondo si vive e con chi altri. Interrogarsi e imparare che partono dal fatto, inaggirabile, che è proprio con gli altri, nell'insieme del con-vivere e del co-appartenere, che avvengono le crisi, le domande, le esperienze, le scoperte, i giudizi. Infine: l'interrogare e l'imparare, la capacità di fare esperienza e di produrre senso, il trasformare la conoscenza, l'esperienza e il senso in attitudine ben temperata, e problematica certamente, a giudicare: a tutto questo deve sopraggiungere una mossa ad agire. Una mossa non nel senso di una finta sur place, ma, esattamente all'opposto, di un cominciare a muoversi. Il mio pensare e scrivere - sembra il titolo di un libro delle scuole elementari della mia infanzia - e poi il presentare e proporre orazioni, qualche volta anche il mio stesso agire, si estendono sulla sponda, mobile e frattale, insicura e squilibrata che incrina il filo ventoso tra ciò che si può arrivare a dire e il fare. In un dire e in un fare che si inzuppano senza tregua e mai allo stesso modo, proprio come la linea di sponda al mare o di una duna. Nulla di meno è una poetica.

A questo punto viene la parte più ardua del discorso: parlare della "quotidianità": un mistero. 
Provo ad affrontare l'enigma del quotidiano con due manovre diverse. La prima ha a che vedere con la lingua. Si tratta di pensare e scrivere la lingua italiana guardandola scorrere davanti alla macchina da scrivere mentale, prima e dopo, nello star per scrivere e nell'aver scritto, per quel che si è abituati ad usarla "naturalmente", e contemporaneamente come una "traduzione", come se fosse un'altra lingua, o la propria lingua, ma così come viene parlata da altri. Sentendo e immaginando a torcere le preposizioni, di frantumare i verbi come vetri, da dissestare i sostantivi, fino a mollare le sintassi. L'importante, innanzitutto, è vedere questa strage silenziosa: arrivare a vederla. E riportarne qualche impressione, tracce, a volte uno scalpo. 
Se si praticano le traduzioni, in proprio e/o a rivederne quelle di altri, e se si frequentano da vicino scrittori stranieri che scrivono in italiano, come a me è d'uso e alla mano, questo proficuo straniamento del "quotidiano della propria lingua" - "quotidiano" che può essere anche raffinatissimo tanto quanto lo è, ad esempio, il saggismo letterario - diventa d'uso, alla mano, perfino quotidiano. E non ti lascia più stare.
La seconda manovra - che cerca di coordinarsi alla prima - riguarda il tempo della mia quotidianità e la sua organizzazione, per così dire. Io faccio molte cose e sono ora nell'età piena del farle: ho 54 anni. Mi dedico molto ai miei studenti (ne ho mille all'anno e ne laureo in media 7/8 all'anno, seguendo direttamente e continuamente il loro lavoro per la tesi). In più scrivo parecchio: in media pubblico due libri all'anno, dirigo due collane editoriali e una rivista, più altro: sono molto legato alla posta elettronica, ad esempio, e ogni giorno corrispondo con persone di ovunque. È scontato, quindi, che devo leggere moltissimo. E poi viaggio: sono invitato in tutto il mondo. E faccio sempre nuovi progetti, prendo tanti appunti sui foglietti, mi vengono idee fulminose mentre guido, cerco disperatamente di trattenerle e, senza accorgermene - che tragica fregatura che si dà a se stesso, la più atroce, direi - me le scordo ecc.
Starete pensando - [vi conosco…] -: Questa è la tua quotidianità, abbastanza normale, in fondo, per uno che fa seriamente e intensamente il tuo mestiere, okkay…e allora? 
Ho descritto solo una parte della mia quotidianità: quella che si vede, diciamo. Ce n'è un'altra che consiste in una sottrazione antica e ascetica: la sottrazione di me dal girone del potere: il potere degli altri e sugli altri e il potere dell'intreccio degli "affari" come circo massimo della così detta socialità. E così, nonostante io faccia tante cose, e tante altre che non dico, tanto che in certi periodi della mia esistenza mi sembra di portare avanti una massa di esperienze buona per più vite, nonostante tutto mi resta tanto tempo libero. 
È tutto il tempo che ho sottratto e che sottraggo alla deriva del potere al quale dovrei appartenere, alla sua ricaduta, alla sua natura, al suo destino, alla sua necessità, addirittura. 
In questo regime quotidiano opaco, non faccio nulla, mi ammeno e mi avvuoto con cura e passione al niente che avviene verso di me, in parole povere: mi annoio. Certo: e curo la mia noia. In due modi assolutamente opposti. Il primo è di lasciarmi andare allo scivolo nel sonno: dormo anche durante il giorno, anzi: ogni quando appena posso. Il secondo è di stare in attesa: attendo l'imprevedibile che tutto il lavoro accumulato e tutta la noia ascetica possono improvvisamente propormi. In più credo (quia absurdum) che questa sottrazione abbia un valore politico: mi sono reso indisponibile al potere, ad essere usato, ad essere all'erta e in allarme, ad essere strumentalizzato, ad essere manovrabile, ad essere produttivo per "loro" (quelli la cui quotidianità è circuita, attorcigliata e divorata dal pitone del potere e dalla tigre degli affari), ad essere sul mercato, in vendita. La sottrazione è riposo e ribellione. A volta serena, la ribellione; a volte inquieto, il riposo.
Partendo da questa invisibile stazione, prendo il treno per scrivere e agire.
Quando passa. Non ha orari.

Forse vi ho raccontato una storia.
Ma non c'è amore e non c'è compagnia.
Allora, non è una storia.




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