ELEGIA
DELL'ESILIO COMPIUTO*
Amara Lakhous
Perché ha pianto Julio Cesar Monteiro Martins?
Elegia dell'esilio compiuto.
Vorrei dipingere un quadro dove poter vivere
Paul Delvaux
Ha pianto Julio Cesar Monteiro Martins dall'angoscia della mancanza e della nostalgia, ha pianto come un qualsiasi bambino brasiliano a cui è stato impedito di partecipare al carnevale, perché il carnevale è un gioco pazzo, e solo gli adulti conoscono le sue leggi, o almeno
così si racconta ai piccoli. Ha pianto il mio amico scrittore quando la sua memoria ha sorvolato i cieli di San Paolo e Rio de Janeiro, si è ricordato con un pizzico di sadismo gli ultimi istanti prima della partenza, anzi si è messo a torturare la sua memoria per ottenere tutti i dettagli: le fotografie degli amati infilate nella tasca, il profumo dell' ultima amante, la danza della samba, gli alberi dell'Amazzonia… ecc. Smettila Julio, abbi pietà della tua povera memoria, e piangi finché …
Ha pianto Julio Cesar, le sue lacrime calde sono scivolate lungo i peli bianchi della barba, ha pianto e ha fatto piangere i presenti. E' triste come tristi sono maledizione e follia. La terra di Dante per grande e leggera che sia gli pesa, ecco che si identifica nel fiume che Hölderlin ha eternizzato, e il fiume non torna alla sorgente e il suo destino è spostarsi continuamente fino a raggiungere l' oceano/fine, l'oceano alla fine dei conti è la tomba del fiume.
La notte dello stesso giorno Julio Cesar mi ha informato della sua nuova avventura: ha cominciato da poco a scrivere nella lingua di Italo Calvino e fra qualche mese sarà pubblicato un libro di racconti in italiano, gli ho chiesto con esitazione e perplessità cosa sia successo al suo Portoghese mi ha risposto: non lo so.
Abbiamo consumato quella notte a discutere sul ruolo del linguaggio nella scrittura creativa, sulla responsabilità della lingua nell'elaborazione del pensiero, su Malek Hadad …
Alla fine, prima di salutarci, gli ho detto: Adesso ho capito, il tuo esilio, caro Julio, è compiuto, la differenza fra me e te e che tu vivi un esilio concluso (la separazione dal Brasile e dal Portoghese) mentre io vivo in un esilio incompiuto, sto combattendo la tentazione della lingua italiana, scrivo in Arabo e traduco quello che scrivo per uscire dall'isolamento, scrivo nella mia lingua d'origine perché è il ponte che mi lega alla mia memoria, al mondo di ieri, come diceva Stefan Zweig, e la lingua/ponte/sale che salvaguarda il prolungamento della ferita, che la ferita rimanga aperta, testimone del nostro scandalo, lo scandalo dell' upupa che fa i suoi bisogni nel proprio nido.
Nel salutarmi Julio mi ha detto: godi del tuo esilio incompiuto, amico mio, però cosa ti accadrà se le corde del tuo ponte si spezzeranno?
Gli ho risposto senza esitazione: quel giorno piangerò come una volta ha pianto
Julio Cesar Monteiro Martins.
Questa volta Julio ha riso ed io ho riso con lui.
Roma, 8 agosto 2000
* Il testo è stato tradotto dall'arabo dall'autore.
Biografia dell'Autore
NON VIVIAMO IN UN PAESE, MA IN UNA LINGUA
Il mio nome è Amara
Lakhous, un nome che in Italiano sembra femminile, così che
spesso mi chiamano "Amaro" come molti nomi maschili
italiani che finiscono per "o", Paolo o Marco, nomi che
io ho sempre amato. Non credo tuttavia di essere un uomo amaro perché oggi come oggi mi considero il primo oppositore ad ogni
forma di amarezza.
Il mio cognome,
invece, sembra esser appena arrivato da un registro dell’Anagrafe
di Atena, ma io non sono greco, sono nato in Algeria nel 1970 da
una famiglia numerosa di origine Berbere. Da bambino frequentavo
le lezioni del Corano, perché all’inizio degli anni ’70 non c’erano
ancora gli asili-nido nel mio paese. E in seguito ho frequentato
tutti i corsi, dalle medie alle superiori ad Algeri, nella mia
"Algeria bianca". Mi sono laureato in Filosofia nel
1994, scoprendo subito che le mie grandi curiosità non potevano
essere soddisfatte. Questa è forse la ragione per cui ho
cominciato a pubblicare in riviste e in giornali nazionali, e per
cui ho collaborato con la Radio di Algeri ad una trasmissione di
informazioni culturali che era tra le più significative degli
ultimi anni. Nel 1995 però il terrorismo fece dei giornalisti e
degli intellettuali il suo principale bersaglio, con il pretesto
che essi erano complici dello Stato. Io non ho avuto scelta: come
potrei continuare a portare avanti la mia missione di
intellettuale critico e fautore del libero pensiero in tale
situazione? Questa è stata la ragione per cui, alla fine di quell’anno,
ho deciso di lasciare l’Algeria e venire a vivere in Italia.
Como sono entrato
in Italia? Le difficoltà per ottenere un visto per entrare nel
paese erano tante che esse hanno contribuito fortemente all’illusione
che io stavo lasciando l’inferno dietro di me per entrare in un
paradiso che era così lontano e allo stesso tempo così vicino...
Ma è stato grazie ad un amico che ho ottenuto il visto per
partecipare ad un seminario sullo scambio interculturale all’Università
di Roma. In questo modo ho potuto risparmiare la sofferenza e l’umiliazione
di dover presentare un’infinità di documenti al Consolato
Italiano ad Algeri per ottenere un visto di ingresso. Sono
riuscito ad evitare, almeno parzialmente, che le scadenze
burocratiche mi assorbissero completamente. Ma la fortuna era con
me, e infatti nel ’95 il Presidente Dini ha promulgato un atto
che ha permesso la regolarizzazione di tutti gli immigranti
arrivati in Italia prima del 18 Novembre 1995.
Il mio amico
Roberto, professore di Antropologia, cercò sin dall' inizio di
mettermi in allerta contro le illusioni, e cioè, contro l’idea
che l’Italia era un paese dove era facile trovare un
appartamento e un lavoro, in modo da avere una vita sicura e
soddisfacente. Con questa consapevolezza della realtà, mi sono
veramente impegnato ad imparare la vostra lingua, uno strumento
indispensabile per l’integrazione. Per una persona che conosce
il Francese come me non è stato tanto difficile, nonostante
qualche difficoltà con la pronuncia di certe parole. L’associazione
di volontariato laico (Casa dei Diritti Sociali di Roma) dove ho
seguito il corso d’Italiano mi ha proposto di lavorare in un
centro per immigranti. Ed è allora che la mia nuova vita è
cominciata. Non ho perso di vista che il mio scopo centrale è
quello di studiare. Mi sono iscritto all’Università di Roma
nella Facoltà di Arti e Filosofia per studiare più profondamente
gli argomenti che avevo studiato in Algeria.
Dopo i primi
contatti più approfonditi con studenti italiani e con immigrati
ho cominciato a capire che le nozioni che loro avevano del mondo
arabo, ed in particolar modo della regione del Maghreb, era scarsa
e superficiale. A questo punto mi sono convinto che avevo il
dovere di dare un contributo presentando in un modo moderno e
diverso il mondo da dove ero venuto. Ho dovuto usare tutto il mio
potenziale intellettuale e soprattutto ho dovuto scrivere –
mezzo che considero una forma di espressione immediata e
democratica per gli intellettuali. Così ho dato avvio alla mia
"missione" insieme a due amici, un palestinese e un
marocchino. Abbiamo creato un programma nella radio italiana, una trasmissione di informazione culturale e di dibattiti
(chiamata "Kalimat", che significa "parole")
che affronta i problemi del mondo arabo. Questa esperienza nuova e
complessa mi ha fatto cercare un’altra volta le note e gli
appunti che avevo portato con me dall’Algeria, un breve romanzo
scritto nel ’93 nel quale io descrivevo la società algerina che
avevo lasciato, con i suoi limiti e le sue speranze. Questa
collezione di sentimenti e di dati storici dovrebbe trasformarsi
in un libro. La scelta più difficile non è stata quella di pubblicare o meno, ma quella che riguardava la traduzione. Per
questa ragione ho scelto un’edizione bilingue, Italiana e Araba.
L’Italiano è per me una seconda madrelingua, e come ha detto
Cioran "non viviamo in un paese, ma in una lingua". La
pubblicazione del mio romanzo "Le cimici e il pirata"
nel Maggio del ’99 portava avanti il principio di un grande
progetto interculturale con lo scopo di promuovere la conoscenza
della lingua Araba in Italia e della lingua italiana nei paesi
arabi.
Una vera
conoscenza reciproca è l’unico cammino verso una coesistenza
umana degna e civile, e ognuno di noi può dare un contributo per
la creazione di un "ponte" attraverso l’utilizzo delle
proprie risorse culturali con l’obbiettivo di unire elementi
variegati e diversi in un’unica nuova ed aperta società civile.
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