CANDIDE O LA VELOCITA'
Italo Calvino
Personaggi
filiformi, animati da una guizzante mobilità, si allungano, si
contorcono in una sarabanda di leggerezza graffiante: così Paul
Klee nel 1911 illustrava Candide di Voltaire, dando forma visuale-
e quasi dire musicale- all’allegria energetica che questo libro-
al di là del fitto involucro di riferimenti a
un’epoca e a una cultura- continua a comunicare al
lettore del nostro secolo.
Nel
Candide oggi non è il
“ racconto filosofico” che più ci incanta, non è la satira,
non è il prender forma d’una morale e d’una visione del
mondo: è il ritmo. Con velocità e leggerezza, un susseguirsi di
disgrazie supplizi massacri corre sulla pagina, rimbalza di
capitolo in capitolo, si ramifica e moltiplica senza provocare
nell’emotività del lettore altro effetto che d’una vitalità
esilerante e primordiale. Se bastano le tre pagine del capitolo
VIII perché Cunègonde renda conto di come, avendo avuto padre
madre fratello fatti a pezzi dagli invasori, venga violentata,
sventrata, curata, ridotta a far da lavandaia, fatta oggetto di
contrattazione in Olanda e in Portogallo, divisa a giorni alterni
tra due protettori di diversa fede, e così le capiti
d’assistere all’autodafé che ha per vittime Pangloss e Candide e a ricongiungersi
con quest’ultimo, meno di due pagine del capitolo IX sono
sufficienti perché Candide si trovi con due cadaveri tra i piedi
e Cunégonde possa esclamare: “Come hai mai fatto, tu che sei
nato così mansueto, ad ammazzare in due minuti un giudeo e un
prelato?” E quando la vecchia servente deve spiegare perché ha
una natica sola, dopo aver cominciato a raccontare la sua vita da
quando figlia d’un papa, all’età di tredici anni, nello
spazio di tre mesi aveva provato la miseria, la schiavitù, era
stata violentata quasi tutti i giorni, aveva visto tagliare sua
madre in quattro pezzi, aveva sopportato la fame e la guerra, e
moriva appestata in Algeri, deve arrivare a dire dell’assedio
d’Azov e dell’insolita risorsa alimentare che i giannizzeri
affamati trovano nelle natiche femminili, ebbene, qui le cose
vanno più per le lunghe, ci vogliono due capitoli interi, diciamo
sei pagine e mezzo. La grande trovata del Voltaire umorista è
quella che diventerà
uno degli effetti più sicuri del cinema comico: l’accumularsi
di disastri a grande velocità. E non mancano le improvvise
accelerazioni di ritmo che portano al parossismo il senso
dell’assurdo: quando la serie delle disavventure già
velocemente narrate nella loro esposizione “ per disteso”
viene ripetuta in un riassunto a rotta di collo. E’ un
gran cinematografo mondiale che Voltaire proietta nei suoi
fulminei fotogrammi, è il giro del mondo in ottanta pagine, che
porta Candide dalla Vestfalia natia all'Olanda al Portogallo
all’America del Sud alla Francia all’Inghilterra a Venezia in
Turchia, e si dirama nei giri del mondo suppletivi dei personaggi
comprimari, maschi e soprattutto femmine, facili prede di pirati e
mercanti di schiavi tra Gibilterra e Bosforo. Un gran
cinematografo dell’attualità
mondiale, soprattutto: coi villaggi massacrati nella guerra dei
Sette Anni tra prussiani e francesi (i “bulgari” e gli “àvari”),
il terremoto di Lisbona del 1755, gli autodafé
dell’Inquisizione, i Gesuiti del Paraguay che rifiutano il
dominio spagnolo e portoghese, le mitiche ricchezze degli Incas, e
qualche flash più rapido sul protestantesimo in Olanda,
sull’espandersi della sifilide, sulla pirateria mediterranea e
atlantica, sulle guerre intestine del Marocco, sullo sfruttamento
degli schiavi negri nella Guiana, lasciando un certo margine per
le cronache letterarie e mondane parigine e per le interviste ai
molti re spodestati del momento, convenuti al carnevale di
Venezia.
Un
mondo che va a catafascio, in cui nessuno si salva in nessun
posto, se si eccettua l’unico paese saggio e felice, El Dorado.
La connessione tra felicità e ricchezza dovrebbe essere esclusa,
dato che gli Incas ignorano che la polvere d’oro delle loro
strade e i ciottoli di diamanti abbiano tanto valore per gli
uomini del Vecchio Mondo: eppure, vedi il caso, una società
saggia e felice Candide la trova proprio tra i giacimenti di
metalli preziosi. Là finalmente Pangloss potrebbe aver ragione,
il migliore dei mondi possibili potrebbe essere realtà: solo che
El Dorado è nascosto tra le più inaccessibili giogaie delle
Ande, forse in uno strappo della carta geografica: è un non
–luogo, un’utopia.
Ma
se questo Bengodi ha quel tanto di vago e di poco convincente che
è proprio delle utopie, il resto del mondo, con le sue assillanti
tribolazioni, anche se raccontate alla svelta, non è affatto una
rappresentazione di maniera. “E’ a questo prezzo che voi
mangiate lo zucchero in Europa!” dice il negro della Guaiana
olandese, dopo aver informato dei suoi supplizi in poche righe; e
la cortigiana, a Venezia: “Ah, signore, se lei potesse
immaginare cos’è, dover carezzare indifferentemente un vecchio
mercante, un avvocato, un frate, un gondoliere, un abate; essere
esposta a tutti gli insulti, a tutti gli affronti; essere spesso
ridotta a chiedere in prestito una gonna per andare a farsela
togliere da un uomo ributtante; essere derubata da uno di quanto
s’è guadagnato con l’altro; essere taglieggiata dagli ufficiali
di giustizia, e non aver altra prospettiva che un’orrenda
vecchiaia, un ospedale, un letamaio…”
Certo
i personaggi del Candide
sembrano fatti di gomma: Pangloss marcisce dalla sifilide, lo
impiccano, lo legano al remo d’una galera, e lo ritroviamo
sempre vivo e vegeto. Ma sarebbe sbagliato dire che Voltaire
sorvoli sul costo delle sofferenze: quale altro romanziere ha il
coraggio di farci ritrovare l’eroina che all’inizio è “
vivace di colorito, fresca, grassa appetitosa “, trasformata in
una Cunégonde “inscurita, con gli occhi cisposi, il seno
piatto, le guance rugose, le braccia rosse e screpolate”?
Ci
accorgiamo a questo punto che la nostra lettura del Candide,
che voleva essere tutta esterna, tutta” in superficie”, ci ha
riportato al centro della “filosofia”, della visione del mondo
di Voltaire. Che non è di riconoscersi soltanto nella polemica
con l’ottimismo provvidenzialistico di Pangloss: a ben vedere,
il mentore che accompagna Candide più a lungo non è lo
sfortunato pedagogo leibniziano, ma il “manicheo” Martin, il
quale è portato a vedere nel mondo solo le vittorie del diavolo;
e se Martin sostiene la parte dell’anti-Pangloss, non si può
certo dire che sia lui ad avere partita vinta. Vano- dice Voltaire
– è cercare una spiegazione metafisica del male, come fanno
l’ottimista Pangloss e il pessimista Martin, perché questo male
è soggettivo, indefinibile e non misurabile; il credo di Voltaire
è antifinalistico, ossia, se il suo Dio ha un fine, sarà un fine
imperscrutabile; un disegno dell’universo non esiste o, se
esiste, spetta a Dio il conoscerlo e non all’uomo; il
“razionalismo” di Voltaire è un atteggiamento etico e
volontaristico che si campisce su uno sfondo teologico
incommensurabile all’uomo quanto quello di Pascal.
Se
questa giostra di disastri può essere contemplata col sorriso a
fior di labbra è perché la vita umana è rapida e limitata; c’è
sempre qualcuno che può dirsi più sfortunato di noi; e chi
putacaso non avesse nulla di cui lagnarsi, disponesse di tutto ciò
che la vita può dare di buono, finirebbe come il signor
Prococurante senatore veneziano, che se ne sta sempre con la puzza
sotto il naso, a trovare difetti dove non dovrebbe trovare che
motivi di soddisfazione e ammirazione. Il vero personaggio
negativo del libro è lui, l’annoiato Prococurante; in fondo
Pangloss e Martin, pur dando a domande vane risposte insensate, si
dibattono negli strazi e nei rischi che sono la sostanza della
vita.
La
sommessa vena di saggezza che affiora nel libro attraverso
marginali portavoce quali l’anabattista Jacques, il vegliardo
inca, e quel savant
parigino che somiglia molto all’autore, si dichiara alla fine
per bocca del derviscio nella famosa morale del “coltivare il
nostro orto”. Morale molto riduttiva, certo: che va intesa prima
di tutto nel suo significato intellettuale antimetafisico: non
devi porti altri problemi se non quelli che puoi risolvere con la
tua diretta applicazione pratica. E nel suo significato sociale:
prima affermazione del lavoro come sostanza d’ogni valore. Oggi
l’esortazione “ il faut cultiver
notre jardin” suona ai nostri orecchi carica di
connotazioni egoistiche e borghesi: quanto mai stonata se
confrontata alle nostre preoccupazioni e angosce. Non è un caso
che essa sia enunciata nell’ultima pagina, quasi già fuori da
questo libro in cui il lavoro appare solo come dannazione e in cui
i giardini vengono regolarmente devastati: è un’utopia
anch’essa, non meno del regno degli Incas; la voce della
“ragione “ nel Candide è
tutta utopica. Ma non è neppure un caso che sia la frase del Candide
che ha avuto più fortuna, tanto da divenire proverbiale. Non
dobbiamo dimenticare il radicale cambiamento epistemologico ed
etico che questa enunciazione segnava (siamo nel 1759, esattamente
trent’anni prima della presa della Bastiglia ): l’uomo
giudicato non più nel suo rapporto con un bene e un male
trascendenti ma in quel poco o tanto che può fare. E di lì
derivano tanto una morale del lavoro strettamente
“produttivistica” nel senso capitalistico della parola, quanto
una morale dell’impegno pratico responsabile concreto senza il
quale non ci sono problemi generali che possano risolversi. Le
vere scelte dell’uomo d’oggi, insomma, partono di lì.
Tratto da Perchè leggere i
classici Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991
Copertina
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