GLI APPUNTI (1942 - 1972)
Elias Canetti
Ci
vogliono anni per distruggere l’amore di un uomo; ma nessuna
vita è lunga abbastanza per
piangere questo assassinio, che è più di un assassinio.
Non serve a niente, possiamo cantarci dei cori, ammirare i
cannibali, possiamo arrampicarci su un albero genealogico di
duecento anni, possiamo impedire a un pazzo di andare sulla luna,
andar pellegrini in Palestina in crociate innocenti con addosso il
cilicio, ascoltare Buddha, rabbonire Maometto, credere a Cristo,
sorvegliare un bocciolo, dare dietro al sole appena si sdoppia,
addestrare i cani a miagolare, i gatti ad abbaiare, restituire a
un centenario tutti i denti, raccogliere foreste, annaffiare
calvizie, castrare vacche, mungere buoi, si può, se tutto questo
è troppo facile (si riesce così in fretta a venire a capo di
tutto), imparare la lingua dei neanderthaliani, mozzare le braccia
a shiva, vuotare i Veda
antiquati dalle teste di Brahma, vestire i Vedda nudi, ostacolare
il coro degli angeli nei cieli di Dio, spronare Lao Tzu, sobillare
Confucio al parricidio, far cadere di mano a Socrate la coppa
della cicuta, togliergli dalla bocca l’immortalità, lo possiamo
fare, - ma non serve a niente, non serve a niente; non c’è
altra azione, altro pensiero al di fuori di questo: quando si sarà finito di uccidere?
Il romanzo non deve avere alcuna fretta. In passato anche la
fretta poteva rientrare nella sua sfera, oggi è passata al film;
confrontato ad esso, il romanzo frettoloso è destinato a restare
sempre inadeguato, Il romanzo, creatura di tempi più calmi, può
portare qualcosa dell’antica calma nella nostra attuale
precipitazione, per molte persone potrebbe servire come un
rallentatore; potrebbe incitare a perseverare; potrebbe
rimpiazzare le vuote meditazioni dei loro culti.
La storia conserva qualcosa di diverso da ciò che conservavano
tutte le forme precedenti di tradizione. E’ difficile dire che
cosa; la storia si presenta innanzitutto come una vendetta cruenta
e prestabilita delle masse, ma di tutte le masse, ed è proprio a
questo che mira. La storia provvede a eternare tutte le religioni,
le nazioni, le classi. Perfino le più pacifiche hanno talvolta
fatto sprizzare il sangue di qualcuno, e la storia, fedelmente, ne
grida vendetta. Molto è stato tentato contro di essa, ma non le
si sfugge. E’ il serpente gigantesco che tiene prigioniero il
mondo. Vampiro antichissimo, succhia sangue dal cervello di ogni
giovane. Ed è insopportabile come essa comandi esattamente la
medesima cosa in molte lingue diverse. Mantiene in vita,
dimostrandone l’antichità, le forme di fede più ignobili, di cui ognuno dovrebbe vergognarsi. Nessuno le deve
nulla, salvo alcuni sacerdoti scarni, che sarebbero diventati tali
ancora più facilmente senza di lei, Si obietterà che essa ha
portato la terra assai vicino all’unificazione; ma qual è il
prezzo? E poi la
terra si è davvero unita? Mi sembra che la storia, in passato,
fosse migliore o, se non altro, meno pericolosa: prima, per lo
meno, di tanto in tanto si perdeva. Oggi invece è incatenata a sé
per sempre dalla scrittura. Offre ai secoli futuri i documenti più
falsi, più bugiardi, più vili. Oggi non si può stipulare un
contratto, senza che fra mille anni lo si sappia ancora. Né si può
passare inosservati per il mondo; quanto meno si sarà inclusi in
una statistica. Nessuno può pensare, nessuno può respirare,
senza che la storia gli impesti l’alito e gli rigiri le parole
nel cervello. Quanto dovrebbe essere forte l’Eracle capace di
strangolarla! Sarà più facile perfino vincere la morte che la
storia, e unica beneficiaria di quella vittoria sarà ancora una
volta la storia stessa.
La musica è la migliore consolazione già per il fatto che non
crea nuove parole. Anche quando accompagna delle parole, la sua
magia prevale ed elimina il pericolo delle parole. Ma il suo stato
più puro è quando risuona da sola. Le si crede senza riserve,
poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti. Il suo fluire è
più libero di qualsiasi altra cosa che sembri umanamente
possibile, e questa libertà redime. Quanto più fittamente la
terra si popola, e quanto più meccanico diventa il modo di
vivere, tanto più indispensabile deve diventare la musica. Verrà
un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle
strette maglie delle funzioni, e
conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà
dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale
futura. La musica è la vera storia vivente dell’umanità, di
cui altrimenti possediamo solo parti morte. Non c’è bisogno di
attingervi, poiché esiste già da sempre in noi, e basta
semplicemente ascoltare, perché altrimenti si studia invano.
Ogni lingua ha un suo silenzio.
I morti hanno paura dei vivi. Ma i vivi, che non lo sanno, temono
i morti.
Gli adulatori appassionati sono i più infelici degli uomini. Di
tanto in tanto li coglie un odio selvaggio e imprevedibile per la
creatura che hanno a lungo adulato. Quest’odio, non possono
padroneggiarlo; a nessun prezzo riescono a domarlo; vi
cedono come la tigre alla sete di sangue. E’ uno
spettacolo sconcertante: l’uomo che prima aveva per la sua
vittima solo parole della più cieca adorazione revoca
ciascuna di esse con altrettanto esagerate ingiurie. Non dimentica
nulla di quanto potrebbe aver
fatto piacere all’altro. Nella sua collera frenetica ripercorre
l’elenco delle sue precedenti dolcezze e le traduce con
precisione nella lingua dell’odio.
Ci sono libri che si posseggono da vent’anni senza leggerli, che
si tengono sempre vicini, che uno si porta con sé di città in
città, di paese in paese, imballati con cura, anche se abbiamo
pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento di toglierli dal
baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per intero anche
una sola frase. Poi, dopo vent’anni, viene un momento in cui
d’improvviso quasi per una fortissima coercizione, non si può
fare a meno di leggere uno di questi libri d’un fiato, da capo a
fondo: è come una rivelazione. Ora sappiamo perché lo abbiamo
trattato con tante cerimonie. Doveva stare a lungo vicino a noi;
doveva viaggiare; doveva occupare posto; doveva essere un peso; e
adesso ha raggiunto lo scopo del suo viaggio, adesso si svela,
adesso illumina i vent’anni trascorsi in cui è vissuto, muto,
con noi. Non potrebbe dire tanto se per tutto quel tempo non fosse
rimasto muto, e solo un idiota si azzarderebbe a credere che
dentro ci siano state sempre le medesime cose.
Non ci si può immaginare come sarà pericoloso il mondo senza
animali.
La storia dei romani è la più importante fra le ragioni del
perpetuarsi delle guerre. Le loro guerre sono semplicemente
divenute il precedente esemplare di quanto è seguito. Per le
civiltà sono l’esempio degli imperi, per i barbari l’esempio
del bottino. Poiché però in ciascuno di noi vi sono entrambe,
civiltà e barbarie, la terra forse andrà in rovina grazie
all’eredità dei romani. Che disgrazia che la città di Roma
abbia continuato a vivere mentre il suo impero si è infranto! Che
il papa l’abbia fatta proseguire! Che boriosi imperatori abbiano
potuto impadronirsi delle sue vuote rovine e con esse del nome di
Roma! Roma ha vinto il cristianesimo in quanto esso è diventato
la cristianità. Ogni conversione
a Roma non fu che una nuova grande guerra. Ogni conversione
a Roma non fu che una nuova grande guerra. Ogni conversione a
Roma, agli estremi confini del mondo, un proseguimento dei
saccheggi classici. L’America scoperta per ravvivare la schiavitù!
La Spagna, provincia romana, come nuovo signore del mondo. Poi, il
rinnovarsi delle razzie germaniche nel ventesimo secolo.
Null’altro che un gigantesco accrescersi delle proporzioni, la
terra intera invece che il Mediterraneo, e un numero cento volte
più grande di uomini colpiti dalla distruzione. Così, ci sono
voluti venti secoli cristiani per fornire all’antica idea romana
una veste che ne coprisse la vergogna e una coscienza per i
momenti di debolezza. Ora sta lì perfetta ed equipaggiata con
tutte le forze dell’anima. Chi la distruggerà? E’
indistruttibile? L’umanità è davvero riuscita a conquistarsi,
con mille fatiche, proprio il suo naufragio?
Ci si augura che, fra tutti i popoli, gli italiani siano quelli
che si occupino di meno dell’antica Roma. Loro se la sono
cavata.
Non sarà che sopravvaluti le metamorfosi degli altri? Ce ne sono
tanti che hanno sempre la stessa maschera, e quando gliela si
vuole strappare ci si accorge che è il loro volto.
C’è un’antica sicurezza nella lingua che osa dare nomi. Il
poeta in esilio, e in particolare l’autore drammatico, è
gravemente indebolito in più di un senso. Allontanato dalla sua
aria linguistica, sente la mancanza del familiare nutrimento di
nomi. Prima poteva anche non badare ai nomi che udiva ogni giorno;
ma essi badavano a lui e lo chiamavano, netti e sicuri. Quando
ideava i suoi personaggi, attingeva dalla certezza di un immenso
stormo di nomi, e anche se poi ne usava uno che nella chiarezza
del ricordo non significava più nulla, tuttavia quell’uno una
volta o l’altra era esistito e risuonato. Ora per l’emigrato
non è andata perduta la memoria dei suoi nomi, ma non c’è più
alcun vento vivo che li spinga verso di lui, egli li custodisce
come un tesoro morto e, quanto più a lungo deve restare lontano
da suo vecchio lima, tanto più avare divengono le dita attraverso
le quali scivolano i vecchi nomi. Così, al poeta in esilio, se
non si arrende completamente, resta una sola cosa: respirare la
nuova aria finché essa stessa lo chiami. Per molto tempo essa non
vuole, comincia e ammutolisce. Il poeta se ne accorge e ne è
ferito; può darsi che si turi le orecchie, e allora nessun nome
può giungergli più. L’estraneità cresce e, quando egli si
risveglia, quel che
si trova accanto è il vecchio mucchio inaridito, e quieta la sua
fame con il grano che proviene dalla sua gioventù.
Rappresentare la
morte come se non ci fosse. Una comunità in cui tutto si svolge
come se nessuno avesse cognizione della morte. Nella lingua di
quella gente non c’è neppure alcuna parola per dire
“morte”; ma non c’è neppure alcuna consapevole
circonlocuzione. Anche se uno di loro avesse l’intenzione di
infrangere la legge e in particolare questo primo comandamento non
scritto, inespresso, e volesse parlare della morte, non
riuscirebbe a farlo, perché non troverebbe alcuna parola
comprensibile agli altri. Nessuno viene seppellito, nessuno
cremato. Nessuno ha mai visto un cadavere. Gli uomini spariscono,
nessuno sa dove; un senso di pudore li induce improvvisamente ad
allontanarsi; poiché è ritenuto peccaminoso essere soli, non si
fa mai menzione degli assenti. Spesso ritornano, ci si rallegra
quando qualcuno è di nuovo presente. Ogni periodo di
allontanamento e di solitudine viene considerato alla stregua di
un brutto sogno, e non si è tenuti a riferirne. Le donne gravide
tornano da questi viaggi con i bambini che hanno partorito, si
sgravano in solitudine, a casa potrebbero morire durante il parto.
Perfino bambini piccolissimi d’improvviso si allontanano.
Si vorrebbe scrivere quanto basta perché le parole si diano vita
l’una con l’altra, e tanto poco da poterle ancora prendere sul
serio.
I cattivi scrittori cancellano le tracce della metamorfosi; i
buoni le mettono in evidenza.
Quella donna che disse, mentre era in società, di non aver mai
fatto un sogno; ed ecco che agli occhi di tutti si trasformò in
una scimmia.
Fra due opposti giudizi di fondo sugli uomini si muove oggi tutto
ciò che accade nel mondo:
1.
Ognuno è pur sempre troppo buono per morire.
2.
Ognuno è buono precisamente quanto basta per morire.
Fra
queste due opinioni non c’è alcuna conciliazione. Vincerà
l’una oppure l’altra. Non è deciso in alcun modo quale delle
due vincerà.
Andrà meglio? Quando? Quando governeranno i cani?
Il falso straniero: qualcuno si ripromette di vivere travestito da
straniero nel proprio paese, finché non lo riconoscano. Muore,
profondamente amareggiato, da straniero.
Vorrei diventare tollerante, senza trascurare nulla: vorrei non
perseguitare nessuno, anche se tutti mi perseguitano; diventare
migliore, senza accorgermene, diventare più triste, ma vivere
volentieri; diventare più sereno, essere felice negli altri; non
appartenere a nessuno, crescere in tutti; amare il meglio,
consolare il peggio: non odiare più, neppure me stesso.
A ogni qualità dell’uomo corrisponde una specie particolare di
disperazione.
Il sazio.- si
sazia prima ancora di avere fame. Ha paura della sua fame. Gli
hanno raccontato storie di affamati che lo hanno riempito di
profondo orrore. Quando passa dinanzi a persone cenciose e
scarnite, si precipita a mangiare nel ristorante più vicino e più
caro, tanto ha paura, e là tranquillizza il suo intestino
tremebondo. Prova moltissima compassione e in ogni affamato vede
se stesso. Prova più compassione
della maggior parte degli uomini: per questo non riesce a
sopportare la vista di un affamato. In genere evita quelle
immagini di miseria, ma vi sono momenti in cui per colpa della
sazietà non riesce più a orientarsi, e allora deve andare a
cercare da qualche parte un affamato. L’idea che quello abbia la
pancia vuota gli dà la nausea. Non riesce a concepire perché ci
siano degli affamati. Un colloquio durante il quale si cerca di
spiegargli le ragioni per cui gli affamati esistono termina un
gran pranzo. Egli, del resto, dispone anche di argomenti. Perché
– chiede – gli affamati non rubano? Perché non uccidono? Lui
farebbe qualsiasi cosa pur di non provare la fame; per non dire:
figurarsi poi se dovesse essere affamato per un giorno intero.
Giustifica i suoi pasti incessanti col fatto che in caso di fame
non potrebbe garantire di sé. Trova ridicoli gli amanti. Li
deride, loro che sono disposti a dividersi tutto fino all’ultima
cosa. “L’ultima cosa” è per lui il pensiero più tremendo.
Quando sente qualcuno che dice “l’ultimo pezzo di pane”, non
può far a meno di piangere. Nei sogni vede gente che entra ed
esce mangiando. Conosce le case dalle cucine. Quando cammina per
strada, sente dove si trova la cucina in ogni casa, e guai alla
casa che lo induce in errore. Lo si invita volentieri perché il
suo modo di mangiare non si dimentica. Vuole concludere la sua
vita senza avere mai provato la fame; a questo alto scopo
subordina tutto. Se non avesse denaro, l’attuazione di questa
sua vita sarebbe degna di ammirazione; ma sembra che abbia molto
denaro. Una volta invita a pranzo un affamato e gli spiega perché
non dovrà esserlo mai più. E’ capace di far derivare dalla
fame tutti i mali del mondo. Si considera un uomo buono,
esemplare. La tavola non deve mai rimanere vuota. I cibi a mano a
mano che scompaiono, devono essere sostituiti, bisogna badare che
ci sia gran copia di tutto. Gli affamati gli servono, ma agli
amanti va il suo odio. Li rispetterebbe se usassero il loro amore
per arrostirsi a vicenda. Ma quando mai accade?
Il sazio ha una famiglia che lo stimola al pasto e alla sua
delimitazione. Ognuno si spartisce ciò che gli spetta, e sulla
tavola, come condimenti separati vicino alle pietanze per tutti ci
sono vasetti e tegamini simili a un armamentario da toilette. Il
servizio cambia a seconda dei cibi. Quando compare un certo
cameriere con una certa livrea, egli sa subito che cosa ci sarà
oggi da mangiare e può rallegrarsene a poco a poco, senza essere
colto alla sprovvista. Il sazio qualche volta va a fare la spesa.
I negozi sono i suoi bordelli, egli sceglie lungamente; quanto più
grande è il negozio, tanto meno egli vi compra. Per ogni singola
componente del suo pasto egli vorrebbe uno specifico grande
negozio, a molti piani, con innumerevoli persone. Rovistando alla
ricerca di quanto gli serve, parla molto, ma soprattutto gli piace
che parlino con lui. Gli fa piacere essere persuaso delle
meravigliose qualità di una merce, vuole essere trattato con
speciale amabilità, con cura e con amore: è facile in questi
casi far breccia nel suo cuore. I suoi prediletti sono quelli che
tengono in serbo per lui dei bocconi speciali. Il sazio non è né
uomo né donna. A seconda dell’umore e del bisogno, si avvale
delle qualità dell’uno o dell’altro sesso.
Una disposizione in base alla quale gli avari
debbano pagare prezzo doppio per ogni cosa.
L’avarizia viene considerata una malattia morale, e chi ne è
affetto è pubblicamente dichiarato tale e deve portare un segno
di riconoscimento. Invece chi in base alla loro origine, gli
uomini vengono suddivisi in base alle loro qualità sociali. La
stella di David dell’avarizia non può essere mai tolta. Gli
avari la portano addosso quando camminano per la strada; a questo
si abituano: la cosa cui non si abituano è il modo in cui vengono
trattati nei negozi. Quando entrano in un negozio, il proprietario
non deve poter avere alcun dubbio sulla loro avarizia. Devono
constatare che gli avventori al loro fianco pagano solo la metà
del prezzo per gli stessi articoli. Non possono brontolare,
altrimenti a norma di legge viene loro applicato un ulteriore
aumento. Queste rigorose misure contro l’avarizia hanno i più
strani effetti. Alcuni avari si sforzano di diventare prodighi, e
innanzitutto di farlo vedere. I loro sforzi acquistano carattere
atletico: quando tirano fuori il loro denaro, sembra che debbano
sollevare pesanti manubri di ferro, che poi tirano sulla testa
agli altri. Alcuni sono disperati per l’aumento dei prezzi che
li riguarda, sicché la loro avarizia gli appare sempre più
giustificata, e giorno dopo giorno comperano sempre di meno.
Costoro ben presto se ne vanno in giro come misere ombre; prendono
il posto dei poveri, ma questi poveri vengono disprezzati con
ragione.
Per me i miti contano più delle parole, ed è questo ciò che mi
distingue nel modo più profondo da Joice. Io però nutro anche un
altro tipo di rispetto per le parole. La loro integrità mi è
quasi sacra. Mi ripugna ferirle e lacerarle, e anche quando le
loro forme più antiquate, quelle che furono adoperate realmente ,
mi ispirano rispetto, non mi piace lasciarmi coinvolgere con esse
in avventure perverse. Quanto di inquietante è contenuto nelle
parole, il loro cuore, non voglio strapparglielo come se fossi un
sacrificatore messicano; questi modo sanguinari mi sono odiosi.
Bisogna chela rappresentazione sia fatta solo con figure, che sia
sempre e soltanto riferita a figure, mai a rapporti fra parole. Le
parole sono da sole, senza la bocca che le ha pronunciate, hanno
per me qualcosa di fraudolento. Come scrittore, io vivo ancora
nell’epoca che precede la scrittura, nell’epoca delle grida.
Quando è rimasto molto tempo senza leggere, si allargano le
maglie nel setaccio del suo spirito, e tutto vi passa attraverso,
e tutto, salvo le cose più rozzamente evidenti, è come se non ci
fosse. Solo ciò che ha letto gli permette di captare il vissuto,
e senza ciò che ha letto egli non ha vissuto nulla.
Ogni generica asserzione sprezzante che incontro sul carattere dei
poeti mi soddisfa; così, di recente, le parole di Pascal: «Poète
et non hônnete homme». So benissimo quanto sia parziale e
ingiusto questo giudizio, già in Platone, ma c’è in me
qualcosa che dice: «Eh sì, puah, un poeta!». Probabilmente ciò
che provoca il mio disagio è la smania di piacere agli altri, la
frenesia di gloria, il pavoneggiarsi del poeta, sebbene io non
dispregi affatto la ricchezza delle sue possibilità di
metamorfosi. Per una ragione o per l’altra, buona parte dei dei
poeti viventi che ho conosciuto fino ad ora mi sono riusciti
sgradevoli; ma questo si potrebbe spiegare col fatto che, forse,
uno vorrebbe essere l’unico. Ciò che invece leggo intorno ai
poeti del passato non mi riesce quasi mai sgradevole; può
trattarsi degli aspetti e delle informazioni più diverse;
comunque mi appassionano; lo stesso Baudelaire, che aveva un modo
di vivere ben poco attraente, mi è diventato caro da quando so
qualcosa di più su di
lui. Già mi affascina quel certo andare a tastoni del poeta, la
sua insicurezza dinanzi a tutto ciò che è concreto. Ma quello
che poi mi conquista violentemente è l’abbondanza delle sue
illusioni su tutto quanto gli accade. Sulle cose che li riguardano
direttamente, i poeti pensano per lo più in modo sbagliato,
semplicemente per poter pensare molte cose diverse . Cosa c’è
di tanto bello, di tanto soggiogante, in questo? La sovrabbondanza
delle loro illusioni, o la loro erroneità? Mi è difficile
stabilirlo. So però che cosa nelle persone “normali”, nella
gente comune che si incontra tutti i giorni, trovo più penoso: il
modo in cui, ad ogni momento, per loro tutto si ingrana, tutto va
a posto a breve scadenza. Salgono su un tram e raggiungono la loro
meta. Sono impiegati, ed entrano veramente nel loro ufficio. Una
cosa ha un prezzo, e loro lo conoscono. Desiderano una donna e la
sposano. Hanno determinate strade, ma per arrivare in un certo
posto, non come uno di noi che
ama solo le strade che non lo hanno portato in nessun
luogo. Se i poeti fossero sempre soltanto “ quelli che sbagliano
strada”, non ci sarebbe niente da dire contro di loro. Ma il
fatto che poi da questo ricavino qualcosa di mirabilmente
perspicuo, sottrae alle strade sbagliate quella serietà che
altrimenti avrebbero. I poeti che muoiono giovani non sono ancora
sufficientemente esperti nel fare la ruota; per questo resta
gradevole quanto si sa su di loro. Gli altri, che si innalzano
fino a vedersi in prospettiva aerea, diventano di anno in anno
sempre più repulsivi e spregevoli. Si preferirebbe
togliergli di testa quel loro mestiere cui tengono tanto, e levare
dalla loro vita gli anni superflui.
Le parole che uno non riesce a trovare dinanzi a certe persone,
vengono poi più tardi, quando quelle persone le abbiamo lasciate.
Derivano dallo sgomento in cui uno è gettato dalla presenza
dell’altro. Senza quello sgomento non nascerebbero; ma è loro
peculiarità non poter essere subito disponibili. Credo che siano
queste parole veementi, ma ritardate, quelle che fanno lo
scrittore.
Baratto di abitudini: io ti do questa, tu mi dai quella; deve poi
risultarne un matrimonio.
Da quando lei è morta, lui distoglie lo sguardo da ogni bocciolo.
La sua immagine della felicità: per una vita intera leggere e
scrivere tranquillamente, senza mostrare mai una parola ad alcuno,
senza pubblicare mai una parola. Lasciare a matita tutto ciò che
uno ha annotato, non modificarvi nulla, come se non avesse alcuna
importanza; come lo scorrere naturale di una vita che non mira a
nessuno scopo restrittivo, ma è interamente se stessa e
si caratterizza da sé, come uno cammina e respira.
Lei abita ora nella vecchia camera di lui e la ama, come se lui
fosse morto. Le dà molto fastidio quando, poi, ci viene lui.
«Nel secolo XIII si diffuse in Egitto il desiderio morboso di
mangiare carne umana, di qualunque tipo; in particolare, però,
quella dei medici. Se uno aveva fame si dava malato e faceva
chiamare un medico, ma non per approfittare dei suoi consigli,
bensì per divorarlo.»(Humboldt)
Non vi è nessuna testimonianza di rispetto per l’umanità più
profonda della fame per i suoi miti, e se uno ha letto più di
quanto il cuore sopporti, può sperare nella forza segreta di
questo nutrimento.
L’uomo è grandissimo, quale che sia la sua paura, può
conoscerla e conservarla e vivere con essa, senza mai
dimenticarla.
Solo la nudità senza applausi è davvero nudità.
Quando i bakairi sono insoddisfatti del loro capo, abbandonano il
villaggio e lo pregano di continuare a governare, ma da solo. (Von
den Steinen)
La compassione, nell’amore è minima. E’ proprio dell’amore
che la cosa più piccola sia importante e niente venga
dimenticato: questa totalità e precisione addirittura lo
costituiscono. Quando si dice : io voglio tutto, si
intende tutto. Forse qui sarebbe coerente solo un cannibale.
Ma il cannibalismo spirituale è più complicato. Inoltre, si
aggiunga che qui si tratta di due cannibali, che contemporaneamente si mangiano l’un l’altro.
Parla in termini di prezzi. Su
questo c’è sempre qualcosa da dire. I prezzi salgono e
scendono, ci sono prezzi
anche in altri paesi. Viaggia molto e riferisce fedelmente come
sono i prezzi. Nei paesi stranieri può raccontare dei prezzi di
qui. Trova sempre gente che si interessa alla sua conversazione, e
se non conosce la lingua si aiuta con le dita. Indica una cosa, fa
una pausa a effetto e ne indica con le mani il prezzo
al suo paese.
Un uomo inesauribile. E’ terribile, quando tace. Ma si può star
sicuri che anche allora sta memorizzando una lista di prezzi.
Lo conoscevo già quando era piccolo e andava a rubare i prezzi.
Scappava via a gran velocità e nessuno poteva acchiapparlo. Era
un ragazzo furbo e si avvicinava furtivamente a tutti i prezzi.
Marinava la scuola, altrimenti non sarebbe diventato nessuno. Per
un certo periodo accarezzò il pensiero di emigrare
in America. Ma poi giunse all’idea che in Europa
c’erano più monete e più prezzi. Rimase, e non se ne è
pentito. Varie inflazioni gli vennero in aiuto, divenne un
grand’uomo. Ogni giorno si fa la sua passeggiatina nel quartiere
e si fischietta piano un po’ di prezzi.
Questa enigmatica vulnerabilità alla bellezza, anche in persone
molto rozze, - cos’altro è se non il residuo del politeismo
antico? E’ strano, con ciò, come persino l’essere più brutto
e più insignificante osi avvicinarsi al più bello, come se gli
spettasse, come se gli fosse promesso.
E’ probabile che, grazie alla mescolanza di tutte le culture,
oggi ci siano più persone belle di quante mai ve ne furono. Sono
le reliquie degli dei dispersi. Tutte le approssimazioni ad essi,
per lo più fallite, si sono conservate nelle persone belle.
Dieci o dodici persone giovanissime intorno a me, in una stanza
molto piccola, a diversi tavolini, in gruppi che sono molto
diversi fra loro. Assediato, continuo a scrivere ostinatamente. Ai
loro freddi sguardi sprezzanti io posso contrapporre soltanto la
curiosità e il calore della mia vecchiaia. Vogliono il mio
tavolo, lo occupano a poco a poco, lo urtano ritmicamente, forse
nemmeno per disturbarmi nello scrivere, ma soltanto per sentire il
loro ritmo in ogni oggetto, per trasmetterlo a tutto; il tavolo è
un oggetto del genere, e forse anch’io. Parlano sopra di me, mi
vociano nelle orecchie. Io resisto loro e cerco di non far notare
la mia irritazione.
Si meravigliano della mia pazienza, per la quale hanno soltanto
disprezzo. La rigidità di un corpo umano in cui si muove solo una
matita è per loro incomprensibile. Potrei tentare di cantare, ma
non sarebbe mai il loro canto. Potrei tentare di parlare, ma le
mie parole sarebbero per
loro cinese. In nessun caso potrei significare per loro qualche
cosa. La mia curiosità, che essi forse colgono, provoca in loro
ribrezzo. Mi sputerebbero volentieri in faccia; se uno di loro lo
facesse, gli altri lo seguirebbero.
Gli tengo testa soltanto perché li ascolto di nascosto. Non
riescono a immaginare che ci siano da ascoltare cose singole, qui
si sentono come un tutto. Le loro ragazze gli sono devote. Mi
piace forse una di loro? Non lo so, non so nulla. Vivo un mio
pensiero: la «muta».
Il miracolo della sopravvivenza umana: un miracolo ancora più
grande, se si pensa che di notte queste povere creature, russando,
rivelavano la loro presenza agli animali feroci. Gli unici animali
selvatici che russano come noi sono le scimmie antropomorfe.
Un adulatore al quale capita, con orrore, di vedere che tutti
diventano ciò che ha cercato di convincerli che fossero.
Elicotteri nani che atterrano sulle teste calve.
Libri che possono cercarsi i loro lettori e si chiudono ai più.
Un pensatore. Comincia così: egli scarta tutto. Qualsiasi
cosa gli venga detta, non va.
Qualcuno gli si presenta e dice il suo nome. ”Come dice?”.
“Così e così”. “Cosa vuol dire con questo?”. “Mi
chiamo così”. “Ma che significa?”.
Qualcuno dice da dove viene. “Questo non significa niente”.
“Sono nato là”. “Come lo sa?”. “L’ho sempre
saputo”. “Lei c’era?”. “Dovevo ben esserci!”. “Se lo
ricorda?”. “No”. “Come sa che è vero?”.
Qualcuno nomina il proprio padre. “Dove abita?”. “E’
morto”. “Allora non c’è”. “Ma era mio padre”. “ I
morti non esistono, perciò suo padre non esiste, perciò non era
suo padre”.
Qualcuno racconta dove era il giorno prima. “Come lo sa?”.
“C’ero”. “Quando?”. “Ieri”. “Ieri non è più.
Ieri non esiste. Quindi lei non era in nessun posto”.
Ogni vecchio si vede come una somma di astuzie riuscite.
Ogni giovane si sente l’origine del mondo.
Si soffoca in ogni famiglia che non sia la propria. Anche nella
propria si soffoca ma non lo si nota.
“Io posso respirare solo nelle regioni inferiori “. Questa
frase di Robert Walser potrebbe essere la parola d’ordine degli
scrittori. Ma i cortigiani, e quelli che hanno conquistato la
fama, non la dicono e non osano più pensarla.
“Non potrebbe dimenticare un po’ di essere famoso?” disse
Walser a Hofmannsthal, e nessuno ha definito con più efficacia ciò
che dà fastidio nelle persone eminenti.
La noia mortale che emana da quelli che hanno ragione e lo sanno.
Chi è veramente intelligente nasconde di aver ragione.
Voglio morire- ella
disse – e inghiottì dieci uomini.
Almeno due volte, nella storia della filosofia, immagini di masse
furono decisive per una nuova concezione del mondo. La prima volta
con Democrito: la molteplicità degli atomi; la seconda volta con
Giordano Bruno: la molteplicità dei mondi.
Ogni convinzione intellettuale, se è in grado di conquistare
altri, è come un’opera che si continua a scrivere
ininterrottamente e che non si completa mai.
Per ogni parola un francobollo. Impararono a conversare in
silenzio.
Finalmente mi è capitata tra le mani l’autobiografia di
Cardano.
E’ scritta male, divisa secondo il modello di Svetonio in
singoli argomenti, e perciò consiste esclusivamente
nell’enumerazione di cose affini. Comunque è interessante,
anche soltanto per i sogni che contiene, sogni che spesso sono
pieni di masse. Commuove perché è sorretta da un immenso dolore:
Cardano fu testimone dell’esecuzione capitale di suo figlio, che
aveva ucciso la moglie. Avrebbe potuto riscattarlo dai suoi
accusatori con molto denaro, ma non l’aveva. E’ convinto che
il figlio fu condannato a morte per colpire lui e sente pesare su
di sé tale colpa, da
cui non sente liberazione.
Enumera i suoi difetti così come i suoi pregi, ma sebbene si
prefigga di non nascondere nulla, può stancare come un vacuo
fanfarone. Ci fa capire com’è pericoloso, per un uomo,
prendersi sul serio in tutto, persino in ciò che uno deve
rimproverarsi. E’ troppo solenne, manca di ironia. La sua
attrazione per il gioco, che è fortemente sviluppata, si
esaurisce nei giochi d’azzardo e negli scacchi. Anche dai
modelli antichi non trae profitto. Va troppo apertamente in cerca
di mortalità, senza cioè riconoscere che, nello sforzo di
sopravvivere, si deve prendere
con sé tutto e tutti: è l’unica cosa che giustifica questa
dubbia passione. Nessuno può continuare a vivere soltanto per sé:
un nome in sé, qualunque cosa uno abbia fatto, è triste. E anche
quando si ottiene questa specie di immortalità, essa conterrà
sempre qualcosa di ripugnante e artificiale.
- Una enumerazione sistematica di tutte le peculiarità di una
persona in fondo è un’assurdità, a meno che non serva di
monito, come nel caso delle biografie degli imperatori di Svetonio.
In Plutarco, che vuole stabilire dei modelli, la scelta dei tratti
è marginale e meditata, non si ferma mai sui particolari per puro
amore del particolare.
Forse è anche impossibile scrivere una autobiografia quando si è
alla fine di un lunga vita.
Troppo c’è da dire, e si finisce per doversi accontentare di
enumerazioni opache.
Di che cosa ti vergogni
tanto, quando leggi Kafka? –Ti vergogni della tua forza.
Il giovane greco mi chiede cosa significhi essere vecchio.
Significa, gli dico, che posso abbracciare con lo sguardo la vita
di molte persone che ho conosciuto. Significa che auguro a loro
come a me una vita di trecento anni, per poter abbracciare ancora
di più la loro vita, poiché ogni palmo in più che si conosce la
rende più stupefacente, più problematica, più ricca di
speranze, più penetrante e più inspiegabile.
Spaccò in due il tavolo e si sedette, sdoppiato, a scrivere.
A richiesta generale, decise
di scrivere ancora una volta la stessa cosa.
Ha bisogno di Dio per potergli dare un colpetto sulla spalla e
dirgli come avrebbe dovuto fare.
Se la gente fosse di vetro sarebbe migliore? Dovrebbe stare più
attenta agli altri? L’uomo non è abbastanza fragile. La sua
mortalità non basta. Dovrebbe essere fragile.
Parole come cimici, esauste
da quanto hanno succhiato.
Porsi completamente in dubbio e andare a cercarsi in paese
straniero.
La differenza consiste oggi nel fatto che tutto viene fotografato.
Non c’è più miseria che si possa celare. Tutta la miseria è
divenuta pubblica.
Ma questo significa soltanto che tutti vi si abituano più in
fretta.
Prima un uomo poteva pretendere di essere inerme, perché sa troppo.
Tutti i dialoghi, persino tra amici, sono diventati ipocriti.
L’indignazione può dilagare su troppe cose. Ogni giorno ognuno
viene a sapere parecchie cose atroci.
Ma anche chi trae da ciò la conclusione che nulla lo riguarda,
proprio perché le cose sono tante, sa
bene che cosa accade, neanche un sordomuto, neanche un cieco
potrebbe chiudersi completamente in sé davanti a questo: e
persino un cretino dovrebbe avvertire un motivo di paura, almeno
per se stesso.
Così ogni momento di
apparente tranquillità è abissale ipocrisia.
In Italia è morto ieri a 93 anni un uomo che viveva da
vent’anni sui treni. Passava ininterrottamente da un treno
all’altro e non aveva alcuna altra dimora. In quanto ex
deputato, aveva una tessera gratuita, il suo grande patrimonio si
era liquefatto e come unico avere gli era rimasta quella tessera.
E’ morto alla stazione centrale di Torino mentre stava prendendo
una coincidenza.
I prigionieri ammirano i loro sbirri perché vogliono rimanere
vivi. Più ne parlano con riconoscenza e rispetto, più speranza
hanno di sfuggire loro.
“ Sei meraviglioso! Lasciami andare!” diceva il topo al gatto
e gli leccava gli artigli.
Nel giornale si trova tutto. Basta leggerlo con sufficiente odio.
La tarda fama di Svevo: un regalo di Joice. L’insegnante
stipendiato, che si sentiva umiliato, inonda il “borghese” con
la sua improvvisa ricchezza: la fama.
Il collezionista di elogi si arrabbia per il silenzio delle
strade. Le percorre instancabilmente per costringerle all’elogio
e si amareggia per la loro resistenza. I giornali, per lui, sono
troppo quotidiani. Gli uomini poi li buttano via, anche con le sue
fotografie. Gli basterebbe se ogni giorno si trovasse nel giornale
qualcosa di nuovo su di lui? No! Eppure ha bisogno dei giornali:
li ha letti finché non è riuscito ad apparirvi, ma vuole molto
di più. Vuole soppiantare gli avvenimenti di importanza mondiale.
Vuole che ci si occupi di lui, non di terremoti e guerre. Trova
completamente assurdo occuparsi della luna. Se la prende con la
luna perché se ne parla tanto.
Il collezionista di elogi riempie una casa con il suo nome. Ogni
più piccolo, ma anche ogni più grande pezzo di carta su cui
compare il suo nome, viene conservato.
Qualche volta traversa tutta la casa, leggendo continuamente gli
stessi pezzi, sebbene siano già vecchi. Ma preferisce roba nuova.
Aspetta espressioni e frasi nuove, che ancora non ha mai udito,
un’intera lingua dell’elogio, inventata soltanto per lui.
Consente, a volte, che si elogino, insieme a lui, dei morti, si va
a prendere la loro benedizione.
Il collezionista di elogi non si disfa mai di nessun elogio, ha
sempre posto, anche per ciò che è stato già detto due volte,
tre volte, quattro volte. Diventa sempre più grasso, ma lo porta
volentieri. Trova sempre donne che lo amano per questo grasso.
Leccano i suoi elogi e sperano di staccarne qualche pezzetto per sé.
Il lettore che non può smettere, che continua sempre a
leggere, sempre di più, e sempre di più cose antiche, e così
diventa una figura non trascurabile, una specie di uomo di fiducia
degli altri, che si affidano a lui: troverà, purché non smetta
mai - essi pensano -, anche la cosa decisiva. Il cinismo visto
come un movimento di massa del nostro tempo. Un’enorme botte di
Diogene in cui si trovano riunite centinaia di migliaia di uomini.
Migliorare può significare soltanto sapere
meglio. Ma deve essere un sapere che non dà pace, un sapere
incalzante. Un sapere
che tranquillizza è mortale.
E’ molto importante che si riesca a rifiutare qualcosa del
sapere. Bisogna essere in grado di aspettare il momento in cui un
certo sapere diventa spina: per ogni intuizione uno specifico
dolore.
("Appunti" Tratto dal libro “La
provincia dell'uomo”, Tascabili Bompiani, Milano, 1989)
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Copertina.
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