IL PORTOGALLO È VICINO

 

Sandro Bartolini

 

Santiago do Cacém, Rua da Estação, aprimmo la porta d’ingresso. Salii le scale, la Signora Maria Fernanda ci presentò l’appartamento. Una dolce, sonnolenta casa portoghese. Eravamo veramente stanchi, sfiniti, non scaricammo nemmeno la macchina. Le ragazze si misero a chiacchierare nella loro camera, io e mia moglie Marina ci infilammo nel letto. Capimmo subito che eravamo arrivati nella nostra casa .
Dall’Italia avevamo raggiunto Bayonne. Un giorno di sosta, un albergo da dimenticare, una cena dimenticata. Un’aria frizzante che ricordava ottobre e non l’estate, acqua e verde dappertutto. Anche il giorno successivo rimanemmo nei Paesi Baschi francesi. Biarritz ci accolse con signorilità. Le ville, le case, i tetti, le travi di legno sulle facciate ci dicevano che il Mediterraneo era lontano. Facemmo il nostro primo bagno nell’acqua dell’Atlantico. Facemmo subito confidenza con l’efficienza francese. Viva la Francia. Onde atlantiche arrivavano e dietro bagnini con i binocoli e fischietti ci rassicuravano.
Nel tardo pomeriggio incominciammo la traversata notturna della penisola iberica. Paesi Baschi spagnoli, mucche, prati sul mare, costa alta e rocciosa, Bilbao, Burgos. La notte ci veniva incontro. Marina dormicchiava al mio fianco, le ragazze, Paola e Sandra, dietro a chiacchierare. Burgos, Palencia, Valladolid, Ourense, Vigo. Viaggiammo tutta la notte ascoltando canali spagnoli. Ci fermammo ad un distributore di benzina e dormii due ore. Dormii scomodo, con i piedi sul volante ma sicuro. Nel piazzale ero circondato da camion di ogni tipo. Loro dormivano tranquilli e noi pure. Il buio della Castiglia si strinse intorno.
Arrivammo sulla costa atlantica spagnola, albeggiava, e una fitta nebbia ci obbligava a procedere a velocità moderata. Attraversammo il confine portoghese, entrando nella regione del Minho. Un’aria triste, umida, fredda ci avvolse. Luglio, a noi, pareva novembre, la stagione dei morti, quando la tramontana annuncia l’arrivo dell’inverno. Raggiungemmo Esposende, centro di villeggiatura sul mare. Freddo, solitario e vuoto. Avrebbe dovuto essere la nostra base per visitare il nord del Portogallo. Ci sentimmo persi. Via ! Via! Ci fu un breve consulto familiare. Con l’incertezza di cambiare programma dopo un viaggio di duemila chilometri decidemmo di andare verso il sud del Portogallo, nell’Alentejo, alla ricerca del sole, del caldo, di una stagione che ci ricordasse che eravamo in piena estate, in uno dei primi anni del nuovo secolo, circa duemila anni dopo la nascita di Cristo .
Passai la guida a Marina e mi addormentai. Passammo il traffico caotico di Porto, sfiorammo Lisbona guardandola da lontano, oltrepassammo il Tago e puntammo ancora verso sud, verso Santiago do Cacém, a circa 120 km da Lisbona, a 15 km dal mare. Nel programma di partenza era la nostra seconda tappa.
Arrivammo a Santiago nel pomeriggio. Il sole e un bel paesaggio. Querce da sughero, ulivi, frutteti e vigneti. Entrando in paese vidi un uomo che stava uscendo di casa, era Diogo Antonio dos Santos Cavalinhos. Gli chiesi se sapeva indicarmi l’ufficio del turismo, gli spiegai che cercavamo un alloggio, una casa. Lui parlava in portoghese ed io in italiano. Mi spiegò che l’Ufficio del Turismo era chiuso perché era la festa del patrono però lui poteva sentire un suo amico che aveva una Agenzia Immobiliare. Lo seguimmo, in macchina arrivammo ad un bar, nella piazza accanto al mercato ortofrutticolo. L’amico di Diogo disse che non poteva essere utile. Diogo non si perse d’animo e ci accompagnò in un hotel ma quella non era la sistemazione che cercavamo.
Ci salutammo con cordialità. Diogo doveva andare a lavorare a Sines. Uscito da Santiago mi fermai a parlare con Marina per decidere il da farsi. Dopo alcuni minuti sentii suonare un clacson, un auto stava arrivando a velocità sostenuta e due portoghesi ci stavano sorridendo . Era Diogo con un suo amico. Avevano trovato una casa per noi. La zia di Francisco Rodrigo Nunes Costa Nozes, l’amico e collega di lavoro di Diogo , aveva una casa vuota ed era disposta ad affittarcela, anche ad un buon prezzo.
Da lì incominciò la nostra vacanza portoghese, da lì incominciai a darmi un sacco d’arie dicendo qualche parola in portoghese, capii quanto il Portogallo fosse vicino, talmente vicino che mi sembrava di essere a casa, a casa mia.
Il nostro mare era quello di Santo André. Mare freddo, tempestoso e bellissimo. Arrivammo alla spiaggia de Santo André . Una rena grossa e dorata , un arenile modellato dalla forza del mare . Una prima spiaggia prossima alla battigia che saliva con una forte pendenza e a seguire un arenile più distante, in alto , dove si disponevano gli ombrelloni e i bagnanti.
Soltanto perché c’erano dei portoghesi in acqua trovai il coraggio di entrarci, e della famiglia fui l’unico coraggioso. Posso dire senza timore di smentita che mia moglie e le mie figlie nel mare di Santo André si bagnarono le ginocchia , ma non di più, lo posso dire sul mio onore.
Alcune regole fondamentali andavano rispettate. Quando si entrava si doveva prendere l’onda giusta. Mai farsi prendere contro tempo, poteva essere doloroso. Si doveva aspettare il cavallone, puntarlo, un tuffo e via dentro l’onda. Non mi sono mai divertito così tanto, con quei cavalloni incredibili che ti portavano su, in alto. L’acqua fredda ti tonificava, uscivo quando mi prendeva freddo alla testa. L’altra regola fondamentale era quella di non allontanarsi mai dalla riva. I nuotatori coraggiosi stavano a pochi metri dalla riva, sballottati da cavalloni impetuosi, in quattro o cinque metri d’acqua senza allontanarsi mai. Oltre, più in là, c’era l’Atlantico e non ti avrebbe ritrovato più nessuno, nemmeno il bagnino che ci guardava sornione da sotto l’ombrellone.
Una mattina dall’alto arenile vidi dei branchi enormi di pesci, a pochi metri dalla riva. Erano muggini. Per tutta la mattina si nuotò nel mezzo ai pesci, che saltavano spaventati ma che non si allontanavano dalla riva. Avevo quasi intenzione di tirare fuori la rete da pesca che mi ero portato dall’Italia, ancora nel bagagliaio della macchina. Il rezzaglio. Retiaculum. Come un antico gladiatore romano, con la rete in spalla, avrei guardato in faccia il mare e l’avrei lanciata. Un rezzaglio con la maglia del 20, filo di cotone ritorto a tre capi, 20 metri di perimetro, cinque chili di peso. Una rete figlia di secoli di prove, esperimenti, una rete fatta da Alberto Callai, pisano di Nodica. Lasciai perdere, l’Atlantico non è il Mediterraneo, non eravamo a Marina di Vecchiano. Quel mare mi avrebbe portato via con la mia rete.
Una mattina, davanti ad una commessa di un piccolo supermercato, pronunciai la mia prima parola in portoghese. Queijo. Formaggio in portoghese. Pronunciai la parola come si legge in italiano. Al di là del banco la commessa mi guardò perplessa, allora indicai con un dito cosa volessi e lei soddisfatta mi disse “chesciu”. Cacio, cacio, cacio. Si! Si! perbacco! Prendendo il formaggio che mi allungava la commessa sorridevo, pensai a mio nonno Bartolo che mi diceva, a me in calzoni corti e alto mezzo soldo, di andargli a prendere il cacio nella moscaiola.
In Portogallo mangiammo bene. Maiale all’alentejana, riso con molluschi e pesce in un brodino da rimettere in piedi un moribondo. Certo le differenze c’erano tutte. Un giorno parlando con Francisco mi spiegò che una volta aveva cotto la pasta ad un suo nipote, gliela aveva preparata come contorno col pollo!
Francisco e la sua famiglia abitavano accanto a noi e sin dai primi giorni si capiva che volevano fare amicizia. Ci incontravamo nel cortile sul retro della casa, le prime volte quando stendevamo i panni ad asciugare. Le conversazioni che provammo furono prima in inglese, poi in francese, poi capimmo che non era il caso. Bastava lasciarsi andare, un po’ di pazienza, e la vicinanza piano piano piano sarebbe venuta su, a galla. Su attraverso i secoli, gli scambi, i commerci, le guerre. Duemila anni fa parlavamo la stessa lingua e ancora ci saremmo capiti. Adottammo questa tecnica . All’inizio parlavamo di cose concrete, il nome dei vari tipi di frutta, buongiorno , buonanotte, mattino, pomeriggio, sera, domani, domani mattina, che lavoro fai, che lavoro fa tua moglie Manuela, che scuola fanno i tuoi figli Antonio e Isabel. Dalle cose concrete passavamo agli argomenti più complessi. Se non capivamo una parola l’uno dell’altro ci giravamo intorno con pazienza finché anche quella casamatta non saltava. Uno dei primi giorni la casamatta era “falar”. Falar… falar… favella… parola… falar... parlare. La sera io e Francisco, pescando così anche fra parole antiche andavamo avanti ore e ore. Mi parlava del suo allevamento di maiali che era la sua seconda attività, della fecondazione artificiale e delle naturali prestazioni del verro. La sera, passeggiando per le strade di Santiago, parlavamo di tutto, della scuola, della politica in Italia e in Portogallo, del suo lavoro di chimico in una azienda di Sines e dello stress del mio lavoro. Camminavamo per le strade acciottolate e antiche di Santiago col castello moresco e la cattedrale, o per i quartieri in costruzione vicino all’antica città romana di Mirobriga. Il paese, Santiago do Cacém, ascoltava un portoghese ed un italiano che chiacchieravano, fianco a fianco, nelle sue strade strette e silenziose mentre la notte scendeva paziente giù per l’Alentejo .
Nel cortile di casa, con la famiglia di Francisco mangiammo all’italiana, spaghetti al pomodoro e parmigiano e pesce arrosto. Mangiammo alla portoghese, carne di porco, antipasti di verdure e dolci. Robusto vino rosso dell’Alentejo .
Rimanendo di casa a Santiago visitammo l’Algarve, Tavira e Cabo de São Vicente, la punta più occidentale del continente europeo. Visitammo l’antica e splendida città di Évora, e i menhir delle zone circostanti. Visitammo Batalha, Alcobaça e Obidos. Visitammo Sintra, Cascais e Estoril. Visitammo Lisbona.
Da Barreiro, città operaia al di là del Tago, raggiungemmo Piazza del Commercio, col traghetto. Evitammo il traffico asfissiante e la metropolitana. Il traghetto sbuffava nelle placide acque del Tago. Eravamo circondati da operai, impiegati, studenti, neri, bianchi, gente di Capo Verde, del Mozambico, dell’Angola. Eravamo a Lisbona. Prendemmo l’elevador, visitammo il Bairro Alto. Ci addentrammo per i vicoli dell’Alfama, visitammo la Sé e il castello di São Jorge. Mangiammo in una trattoria dai tavoli lunghi, accanto a degli sconosciuti che conoscevamo benissimo. Da una parte avevamo una squadra di imbianchini che non stavano mai zitti e dall’altra due idraulici taciturni, presi dai loro pensieri. Mangiammo del baccalà lesso.
A Lisbona comprai il primo quotidiano italiano da quando eravamo in Portogallo. Erano passati sette giorni, il quotidiano era del giorno prima. A Santiago do Cacém non arrivavano giornali italiani. Un giorno incrociai una famiglia fiorentina col camper, mi regalarono un giornale italiano di tre giorni prima.
A Sines, patria natale del grande Vasco da Gama, in una serata stellata , assistemmo ad uno struggente spettacolo. Violini, flauti, xilofoni, fisarmoniche. Zigani della Romania, con le loro camicie e giacche sgualcite, uomini e ragazzi di ogni età. Vecchi secchi panciuti sdentati baffuti che si appoggiavano al loro violino per stare in piedi, uomini che la vita li aveva passati, da parte a parte, che guardavano , ridevano e sfidavano, coi loro strumenti in mano, come se in quelle note ci fosse tutto il segreto della vita. Feste, banchetti, funerali, matrimoni , battesimi , gli zigani suonavano , come tante cicale intonate ci dicevano questa è la vita. Tutta la piazza, una immensa folla era frastornata da tanta forza, da tanta vitalità che ci arrivava addosso. La statua di Vasco da Gama e il mare in lontananza. Dodici gradi di temperatura .
Ad Alcacer do Sal incontrammo i campi di riso e le cicogne. Sui pali, sui campanili, sui tetti delle chiese. Cicogne austere nei loro nidi irsuti. Il Rio Sado ci accompagnò fino a Carvalhal. Una spiaggia ben tenuta. Parcheggio, portoghesi coi loro piccoli ombrelloni, i teli para vento e le borse portavivande.
Le ragazze, Paola e Sandra, conobbero un gruppo di ragazzi di Carvalhal, guasconi, esibizionisti, strafottenti. Ragazzi. I tuffatori di Carvalhal. Rincorsa e tuffi in mare, Non avevano pazienza di parlare nelle loro lingue i maschi e le femmine, avevano tante cose da dirsi e avevano poco tempo. Presero la scorciatoia dell’inglese, avevano fretta di capirsi. Ci accompagnarono al ritorno. In pineta le cicogne sui pali della luce ed i ragazzi di Carvalhal sulle loro biciclette ci scortavano. Come i pavoni che fanno la ruota così loro si impennavano sulle loro biciclette. João studente, Rodrigo imbianchino, Batista imbianchino, Manuel studente, Cândido studente.
Arrivederci ragazzi, arrivederci cicogne, arrivederci amici di Santiago do Cacém. Ritornerò a tuffarmi nel gelido mare de Santo André. Ritornerò , ritornerò, prima che il grande sonno mi porti via.






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