FERENCZI E LE PAROLE OSCENE

 

J. Amati Mehler, S. Argenteri e J. Canestri

(...) Un posto a parte merita invece Sándor Ferenczi, al quale dobbiamo uno scritto fondamentale sul tema delle lingue in psicoanalisi che, non a caso, verrà sistematicamente citato da molti degli autori che nel corso del tempo interverranno nel dibattito.
Lo scritto, pubblicato nel 1910-1911, si intitola: "Le parole oscene: saggio sulla psicologia della fase di latenza".
L'ipotesi di Ferenczi è che "la rimozione [è] legata al suono verbale dei pensieri sessuali". Per primo Ferenczi cita l'esempio di un giovane omosessuale che adopera circonlocuzioni, parole straniere ecc. per evitare di dire "peto". Le parole oscene potrebbero provenire dal dialogo tra i genitori. La pubertà provocherebbe una "riedizione" delle impressioni riportate dall'ascolto infantile di veri e propri atti sessuali.
Secondo Ferenczi ci troviamo in presenza di un problema tecnico: dobbiamo o no pronunciare parole oscene con i nostri pazienti? Dobbiamo costringerli ad adoperarle? Tali quesiti ci interessano soprattutto per quel che riguarda il versante delle difese che si strutturano contro i contenuti veicolati da queste parole. La parola oscena, da questo punto di vista, è un "sottoinsieme" linguistico.
Il tema acquista ancora maggior interesse se si tiene conto del fatto che nei pazienti polilingui — come cercheremo di illustrar più avanti — può essersi organizzato un sottoinsieme proveniente, da lingue diverse. In tal modo alcune parole possono arrivare facilmente alla coscienza, senza essere considerate oscene, mentre altre rimangono più significative. Inoltre, un paziente polilingue potrà benissimo pronunciare parole oscene in una lingua recentemente acquisita — magari quella stessa nella quale fa l'analisi —, poiché esse non portano con sé la carica emotiva della lingua madre.
Ferenczi sostiene che, oltre al problema tecnico, le parole oscene pongono allo psicoanalista un problema psicologico. Si domanda: "come mai comporta indubbiamente un diverso grado di difficoltà il fatto di chiamare una cosa con un nome piuttosto che con un altro?".

Se, all'interno di una lingua, vi sono difficoltà di accedere a un sottoinsieme qual è quello delle parole oscene, è facile prevedere che, come l'omosessuale citato innanzi che faceva ricorso a circonlocuzioni e parole straniere, i nostri pazienti polilingui avranno a disposizione una difesa che consente loro di evitare un'area problematica della loro vita psichica. Cambiando lingua, potranno evitare non solo il sottoinsieme, ma tutta quanta la lingua della sessualità infantile, negandosi e negandoci l'ingresso a un'area tanto intimamente legata a specifici suoni verbali e nomi particolari.
Ferenczi si propone di "rendere ragione del modo particolare in cui si attuano queste rappresentazioni verbali".
Seguendo Freud, egli attribuisce alla parola oscena un potere singolare, quello di "costringere chi l'ascolta a immaginare concretamente l'oggetto, l'organo o l'atto sessuale che essa definisce".
Ferenczi insiste:

Vorrei limitarmi a integrare questo giudizio rilevando che le velate allusioni ai processi sessuali o le denominazioni scientifiche degli stessi, come pure le espressioni straniere, non hanno questo potere, o, perlomeno, non nella stessa misura delle parole appartenenti al lessico erotico popolare, originario della lingua materna.
Si potrebbe quindi supporre che queste parole abbiano, in quanto tali, la proprietà di costringere chi le ascolta a rievocare in modo regressivo-allucinatorio le immagini della memoria.

Apriamo una parentesi per accennare al fatto che è necessario demarcare i limiti di questa affermazione di Ferenczi. Si corre infatti il rischio di cadere in una certa concezione magica della parola, presente in diverse concettualizzazioni della tecnica psicoanalitica.
E frequente leggere nei protocolli delle sedute parole come seno, pene, capezzolo ecc., adoperate come se contenessero in sé i valori emozionali o i vissuti legati alle relazioni oggettuali primitive e alle corrispondenti rappresentazioni. Altrettanto si intravede nella fede cieca posta da alcuni lacaniani nel valore dei significanti "primordiali". Tale non è il caso di Ferenczi. Come vedremo, egli attribuisce una caratteristica specifica alle parole oscene, in quanto esse sono legate a un periodo particolare dello sviluppo psichico e conservano tratti che a quel periodo appartengono. Bisogna tuttavia ammodernare le sue teorie su questo tema.
L'ipotesi di Ferenczi, nella linea freudiana, è che se lo sviluppo dell'apparato psichico va da "centro reattivo-motorio-allucinatorio a organo del pensiero" ... "le parole oscene possiedono qualità che in uno stadio precedente dello sviluppo psichico devono aver posseduto tutte le parole". Dal punto di vista di Ferenczi, esistono vari stadi intermedi prima di arrivare al pensiero astratto (che egli definisce privo di elementi percettivi allucinatori).
Ciò gli consente di credere che "esistano fasi psichiche in cui la capacità già acquisita di pensare [...] mediante simboli linguistici si associa alla tendenza [...] a rianimare in modo regressivo quanto viene immaginato". Cita poi Freud, che in Il motto di spirito (1905), in rapporto all'inclinazione infantile a giocare con le parole, afferma: "I bambini trattano le parole come oggetti".

Ferenczi introduce una differenza tra le parole in genere, che "contengono l'elemento motorio della rappresentazione verbale solo sotto forma di un ridotto impulso nervoso, la cosiddetta mimica rappresentativa", e le parole oscene. Queste ultime hanno una caratteristica tale che "pronunciando un'oscenità abbiamo ancora la precisa sensazione di cominciare ad agire". Ciò consente di fare, secondo l'autore, una diagnosi di disturbo dello sviluppo. "Quelle immagini verbali potrebbero esser restate a una fase dello sviluppo linguistico in cui le parole sono ancora frammiste a elementi motori."
La fase dello sviluppo che Ferenczi considera cardinale per spiegare queste peculiarità delle parole oscene in certi soggetti è compresa tra la fine del complesso edipico e la fase di latenza. In quel momento vi è un abbandono dei "modi di appagamento infantili", e la fase di latenza è caratterizzata dal bisogno di pronunciare, scrivere e ascoltare parole oscene. Ferenczi sostiene che mentre il restante lessico evolve con l'uso, e si manifesta una tendenza verso una progressiva astrazione, il materiale verbale rimosso durante la fase di latenza rimane fermo a una fase originaria dello sviluppo, che ha carattere allucinatorio e motorio. Inoltre, questo materiale rimosso "viene reso, dalla barriera associativa, un `corpo estraneo' nella vita psichica".
Processi di scissione, di rimozione e di inibizione si sovrappongono e si complementano: "La fase di latenza provoca effettivamente un'inibizione isolata dello sviluppo di singoli complessi rimossi, il che fa apparire abbastanza probabile un analogo processo nello sviluppo delle immagini verbali che divengono latenti".
Per chi conosca queste riflessioni acute e originali, che già nella prima decade del secolo Ferenczi ha dedicato al tema delle parole oscene, risulta ancora più interessante e – in una certa misura – sconcertante, la lettura del suo Diario clinico. Come è noto, egli lo scrisse nel 1932, ma nel 1933 morì, lasciando l'opera incompiuta.
La pubblicazione avverrà soltanto nel 1985, e questo dato rivela chiaramente quanta diffidenza e quanto timore il testo abbia suscitato negli ambienti psicoanalitici.
Michael Balint, che nel 1969 aveva scritto un'introduzione per una edizione che non riuscì poi a vedere la luce, ci fa capire quanta parte abbia avuto Ernest Jones – che pure, come d'altronde lo stesso Balint, era stato allievo di Ferenczi – nel bloccare la stampa del Diario clinico.
Non è chiaro quali siano stati i motivi della censura di Jones; anche se conosciamo la fastidiosa sollecitudine del biografo ufficiale di Freud nell'omettere e talvolta nel deformare i fatti, al fine di garantire la purezza "agiografica" della cronaca dei primordi della storia della psicoanalisi.
Certo, Ferenczi era personaggio bizzarro e singolare e si era attirato l'ostilità e l'ambivalenza di molti colleghi, compreso lo stesso Freud.
Tuttavia, indipendentemente dalle opinioni che gli psicoanalisti del passato e anche quelli odierni riservano alle – sicuramente più che discutibili – innovazioni "tecniche" di Ferenczi, è indubbia la straordinaria ricchezza di questo libro. Ricchezza di idee originali, di profondità di pensiero e di sensibilità clinica e umana, che non trova facile riscontro in altri testi coevi o successivi. A ciò va aggiunta l'enunciazione esplicita che Ferenczi offre senza falsi pudori dei propri condizionamenti, delle sue personali vicende, delle vicissitudini professionali, che vengono analizzate e messe generosamente al servizio della comprensione del lavoro con i pazienti.
Nella postfazione, Pierre Sabourin afferma giustamente che "molti autori considerati moderni hanno reinventato ciò che scriveva Ferenczi molto tempo prima di loro"; e menziona anche come Johannes Cremerius abbia recentemente annoverato tra gli autori che hanno attinto alla fonte ferencziana nomi prestigiosi come quelli di Winnicott, Masud Khan, Spitz, Nacht, Kohut, Searles, Sullivan, Fromm-Reichmann, Fairbairn, Guntrip, Lacan; e l'elenco, aggiungiamo noi in pieno accordo con Glauco Canoni (che a sua volta include A. Miller, B. Grunberger, J. Chasseguet-Smirgel, D. Meltzer e W.R. Bion, per non parlare di tutti i discepoli diretti: M. Klein, M. Balint, I. Hermann), potrebbe allungarsi notevolmente.
La storia della psicoanalisi, nell'accezione di storia delle idee e del loro evolversi e progredire all'interno della disciplina, dovrà analizzare accuratamente il destino di molti concetti di Ferenczi, a cominciare da quelli contenuti nel Diario clinico.
Non è tuttavia questo il motivo per cui attiriamo l'attenzione del lettore su quest'opera che, nella fattispecie, ci sollecita perché si tratta di un testo polilingue. Scritto prevalentemente in tedesco, è intercalato con parole e frasi in altre lingue. Lo spazio più rilevante è di gran lunga quello occupato dall'inglese, lingua nella quale Ferenczi analizzò molti pazienti, prevalentemente americani, dopo il viaggio da lui compiuto negli Stati Uniti (1926-1927). In inglese vengono spesso riportate le parole dirette dei pazienti, ma talvolta anche le riflessioni dell'autore e alcune citazioni frammiste al testo.
Alcuni esempi illustreranno al lettore, che non ha familiarità con il testo ferencziano, il suo modo di procedere, e offriranno a noi l'appiglio per qualche commento. Naturalmente Ferenczi sceglie gli esempi clinici che meglio si prestano a illustrare gli argomenti teorici o tecnici che vuole sviluppare. Così, a proposito di alcune riflessioni sull'incidenza che un trauma può avere in certi soggetti, provocando una "frammentazione" della vita psichica, l'autore menziona il caso di una paziente che, come un bambino sofferente, si rifugia in una "solitudine maestosa", in una "sofferenza muta e orgogliosa" o, viceversa, esplicita acutamente il suo bisogno di una contropartita, sotto forma di una domanda amorosa incondizionata. Questa donna, alla fine di una seduta drammatica, durante la quale è caduta in uno stato di trance accompagnato da numerosi sintomi fisici, proferirà la sua domanda – che Ferenczi riproduce verbatim – in questi termini: "You could at least tell me that I am a good girl" (Mi potrebbe almeno dire che sono una brava bambina!). Ci sembra chela forma verbale della richiesta della donna riesca a esprimere l'avvenuta trasposizione di livelli, dalla muta sintomatologia della sofferenza nella carne, alla parola rivolta all'altro nella relazione di analisi.
Essa sintetizza inoltre, nella sua forma linguistica infantile (che agevolmente riconosceremmo nella dizione "una brava bambina"), gli elementi genetici messi in evidenza da Ferenczi, l'antica richiesta di un risarcimento spostata sull'analista, e il rimprovero che veicola. Anche se, come dicevamo innanzi, l'esempio serve all'autore per poi elaborare il problema clinico e tecnico della risposta da dare alla domanda della paziente, ci sembra significativo che Ferenczi abbia avvertito la necessità di conservare la frase in inglese. Come se con questa lingua potesse restare meglio sintonizzato con i livelli regressivi, diretti, ai quali si muove la paziente.
Altrettanto accade quando, in un altro caso, l'attenzione dell'analista e del lettore viene convogliata su vissuti catastrofici, di "esplosione dell'universo", accompagnati, dice Ferenczi, da "parole di tipo allucinatorio". La frase che li esterna e li comunica è: "I am a universal egg", che Ferenczi decodifica spiegando che la paziente "è al centro del mondo e che ha introdotto dentro di sé l'intero universo". In questo caso si direbbe che l'autore, riportando la frase in lingua originale, abbia voluto conservare la sensazione della forza espressiva, a livello di equazione simbolica primitiva, della comunicazione: "Io sono un uovo universale".
Gli elementi culturali specifici, rappresentabili soltanto attraverso i termini originali, offrono un'altra giustificazione ancora alla citazione in lingua inglese.
Una paziente rifiuta una certa ragazza e la descrive priva di cultura, rozza nel parlare e di un'ottusità molto "New England". Il capitolo, che tratta l'argomento della paranoia e dell'olfatto, si chiude col detto inglese: "Nine pins. / Silly servant" (Nove birilli. / Stupida serva) dove "Nine pins" indica un gioco, antesignano del bowling, che si giocava appunto con nove birilli. Non conosciamo questa espressione idiomatica, e Ferenczi non ce la spiega. Ma è chiaro che ogni tentativo di traduzione ne avrebbe falsato il colore e spento la carica emotiva.
La medesima necessità spinge Ferenczi a riportare nella lingua originaria un'intera conversazione fra tre persone di lingua inglese. Il discorso della paziente si svolge ovviamente in inglese, ma in questo caso non è in gioco la necessità di illustrare un vissuto interno, bensì di trasmettere soprattutto un contesto socio, culturale.
La trascrizione integrale del brano renderà più chiaro questo intento:

A [la paziente], B, C: prendono insieme il sole. [...]
Tutte e tre insieme parlano a lungo; poi A si congeda. B + C, credendo che A sia già lontana, cominciano, soprattutto C, a sparlare di lei apertamente, e a voce alta. E common; "her language – low-scum of populace; no originality; boring; common, common, common. – Suddenly appears A who, after taking leave", si era seduta in una cabina attigua per sciogliersi i capelli. "Now I caught you" dice e si allontana con un'espressione adirata. "Anche questo comportamento è stato common" commenta C. Lei (C) avrebbe agito diversamente, con maggiore signorilità.

Il termine "common" esprime un senso di disprezzo classista del tutto specifico.
Non soltanto Ferenczi sceglie di non tradurre questo termine, ma prosegue scioltamente nella scrittura trascorrendo da inglese e tedesco, e viceversa, senza, apparentemente, farci caso.
Ci sembra che ognuna delle parole trascritte da Ferenczi in lingua originale abbia una sua specifica funzionalità: sia dal punto di vista della produzione di senso nella serie associativa, sia da quello della costruzione della corretta prospettiva culturale e comunicazionale, a partire dalla quale esso va letto.
In altri casi siamo di fronte alla descrizione di sintomi. Non tutti "meritano" di essere menzionati in inglese, e ciò rende ancora più evidente il bisogno di farlo con altri: e precisamente con quelli ai quali il soggetto in analisi riserva una dizione peculiare e speciale. Ad esempio, il discorso di una paziente sulla propria angoscia induce Ferenczi a identificare in essa un sentimento di dominio della pulsione di morte, e anche un inizio di morte. L'analizzanda si riferisce al proprio vissuto definendolo "starvation",cioè rischio di morte per inanizione.
L'ultimo esempio che proporremo riguarda un sogno ricorrente fatto da una paziente. In esso Ferenczi considera l'immagine riflessa e l'inversione "quali conseguenze psichiche della disintegrazione della personalità (e della perdita della capacità di convincersi e anche di sapere e ricordare)". La donna riceve nel sogno, da una persona che le è molto cara, un messaggio scritto: "Here I am. I am here" (Qui io sono. Io sono qui). Ella tenta di comunicare il messaggio a un uomo "attraverso una chiamata telefonica a lunga distanza, e tutta la conversazione con questa terza persona si svolge in maniera molto indistinta, come se giungesse da molto lontano. La difficoltà cresce fino a tramutarsi in uno sforzo disperato, angosciante, per il fatto che il testo del messaggio non può essere letto direttamente; la donna lo vede soltanto come una scrittura rovesciata...".
L'interpretazione verte sui fraintendimenti delle comunicazioni della paziente da parte dell'analista e sugli antecedenti delle modalità che ha acquisito il transfert.
Ma né in questo caso, né in tutti gli altri che s'incontrano durante la lettura del Diario si trova un solo accenno dell'autore al problema linguistico specifico!
Come spiegare il fenomeno? Non si tratta certamente della maggiore o minore padronanza che Ferenczi poteva avere delle lingue nelle quali svolgeva l'attività clinica. Questo perché, come avremo modo di specificare più avanti, a nostro parere il polilinguismo o il poliglottismo dell'analista non è condizione necessaria e sufficiente per un'adeguata comprensione del discorso di un paziente, sia che questi faccia l'analisi nella lingua madre, sia che ne parli un'altra.
Inoltre, il fatto che Ferenczi non accenni alla peculiarità di svolgere il lavoro di analista in lingue diverse fa supporre che egli non patisse gli stessi tormenti che affliggevano invece il suo maestro Sigmund Freud alle prese con l'inglese, come abbiamo appena riferito.
Se Freud soffriva e si stizziva per la fatica di trasporre pensieri e parole da una lingua all'altra, Ferenczi, invece, forse meno dominato dalle esigenze del Super-io e da un certo tipo di difese ossessive, poteva – senza nemmeno accorgersene – passare dall'inglese al tedesco, e viceversa, come quando stilava i commenti a margine dell'Enciclopedia Britannica.
Il caso di Ferenczi, messo a confronto con quello di Freud, ci aiuta a capire quanto l'organizzazione della struttura e della personalità di un individuo condizioni la modalità con cui si svolgono i processi di traduzione-commutazione endopsichici.
Queste spiegazioni sono tuttavia insufficienti a rendere ragione del fatto che la sua sensibilità lo induce a citare in lingua originale, senza tradurle automaticamente in tedesco, quelle espressioni dei suoi pazienti che rendono veritiero un ricordo, pieno di pathos un vissuto, saturo un senso.
Più insoddisfatti ancora si rimane se si tengono in mente le riflessioni da Ferenczi dedicate alle parole oscene, o l'insieme di considerazioni sparse nella sua opera sul significato e sul ruolo del linguaggio nello sviluppo dell'apparato psichico.
Queste considerazioni ci consentono di ribadire che anche chi, come Ferenczi, era squisitamente sensibile al valore della parola, poteva non soffermarsi a esplicitare e concettualizzare ciò che aveva sotto gli occhi; anche se gli era chiaro che la lingua adoperata nello scambio intersoggettivo dell'analisi non è un dato trascurabile, né opaco per nessuno dei due interlocutori, analista e paziente; che la lingua, oltre ad avere un valore comunicativo e a veicolare un messaggio, ha un valore espressivo, che Ferenczi per primo dimostra peraltro di ben conoscere; e, ancora. come egli stesso zelantemente fa capire, che a certi vissuti corrispondono parole particolari: nomi, espressioni, accenti, stili che hanno tracciato solchi profondi nella vita del soggetto.
Valga come prova un episodio personale dell'autore stesso, menzionato nella lettera a Groddeck del Natale 1921 (Ferenczi, Groddeck, 1982).
Ferenczi racconta all'amico un sogno,

[...] un sogno difficile da raccontare perché è tipicamente "ungherese".
Dunque, in questo sogno, io canto con allegria un'aria popolare ungherese, di cui al risveglio ricordo in particolare due strofe: qualcosa come (traducendo rapidamente): "Mi dice il vecchio ebreo, Prendi, questa era della mia bottega, Io non ho bisogno di nulla della tua bottega, Io non ho più bisogno di te vecchio ebreo". "Allora mi dice Fay Gyula (nome di un bell'uomo distinto), carissimo io ti comprerò dei vestiti, dei nastri, Io non ho bisogno che tu mi doni vestiti, nastri, Fay, ho bisogno solo di te."

Le associazioni del sognatore conducono in cucina, dove le due cameriere giovanissime, di sedici e vent'anni, oltre a servire la famiglia, alimentano le fantasie erotiche di Ferenczi. La più piccola ha labbra "intensamente rosse" (il belletto di cui si parla nella strofa, ma che Ferenczi omette di riportare nella rapida traduzione). La più grande si è sottoposta a una visita medica ed egli ha potuto constatare che "ha dei seni estremamente sodi, duri, e degli enormi capezzoli, che durante la visita si sono inturgiditi". Ferenczi scrive: "Quella canzone popolare l'avevo imparata da bambino, dalle donne che lavoravano nella nostra vigna. Ho sentito anche mio padre e mia madre cantare quest'aria, l'avevano imparata anche loro da queste donne. Quando ero alla vigna, provavo spesso un desiderio ardente per le forme sode delle giovani contadine; in generale l'amor ancillaris ha avuto per me un ruolo molto importante. E lì che dovevo rifugiarmi con le mie passioni represse"... "Aggiunta: nel sogno questa canzone era in qualche modo bisessuale. Mi è venuto in mente che questo Fay Gyula fosse nello stesso tempo una qualche graziosa signora Fay. Fay è un cognome, ma oltre a ciò la parola `Fay' = fa male (Fay in ungherese si pronuncia come fày = fa male). Se il cuore mi faceva male – fisicamente o affettivamente – io non lo so."
La serie associativa si snoda attraverso i pensieri che da sempre occupano la mente di Ferenczi: i rapporti con la moglie, l'insincerità, il desiderio di non farle male (fày), il desiderio verso la figliastra Elma, l'amore insufficiente della madre. E conclude per l'amico: "Ora Lei ne sa abbastanza! ". Ne sa abbastanza anche il lettore, grazie al fatto che Ferenczi gli ha indicato, nella lingua in cui sono stati originariamente tracciati, i sentieri segreti del proprio desiderio. L'essere parlante, pur adoperando una lingua che condivide con tanti altri, ritaglia da essa un universo particolare: quello che lo abita, nonché quello in cui egli abita. Inoltre, nel discorso monolingue di un soggetto plurilingue, altre lingue sono in attesa, o come consente di dire felicemente il francese, "en souffrance", nel paziente, nell'analista, o in tutti e due
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(Tratto da La babele dell’inconscio – Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica. Raffaelo Cortina Editore, Milano, 2003)





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