L'IDENTITÀ MANGIATA
Considerazioni sull'Antropofagia

 

 

Ettore Finazzi-Agrò

 

Senza badare alla apparente accessorietà e futilità della domanda e alla inevitabile genericità e inadeguatezza delle eventuali risposte, bisogna forse chiedersi, in via preliminare, da che prospettiva, venendo da quali orizzonti di senso e stando (qui ed ora) in quale situazione culturale, si può affrontare il tema della antropofagia. Bisogna chiederselo anche e soprattutto per orientare lo sguardo, per capire cosa si intende e a cosa si tende riproponendo, a tanti anni di distanza, alcuni testi che nascono in un contesto storico-sociale peculiare, di esso si alimentano e ad esso restano legati in modo indissolubile 1. Bisogna chiederselo, insomma, anche per tentare di andare oltre tali testi, o almeno per riflettere sulla loro significanza, sulla loro "lunga durata" che li fa sporgere al di là dei significati storici, circostanziali, di cui essi paiono incrostati, arrivando fino a noi da uno spazio "esotico" e attraversando un tempo incommensurabile di cinismo e violenza.
In effetti, l'antropofagia (e la sua forma peculiarmente americana che va sotto il nome di "cannibalismo") costituisce uno di quei grovigli simbolici che, per la loro sovrabbondanza di senso e, insieme, per la loro opacità e essenzialità, stanno alla base, non tanto di ogni eventuale categorizzazione culturale, quanto soprattutto di ogni possibile fenomenologia esistenziale, di ogni ipotetica comprensione dell'Umano. È accaduto, di fatto, che taluni l'abbiano definita un mito – che è un modo per disperderla nella aleatorietà dell'inesplicabile, nella nebulosità del "non-provato" – e che altri l'abbiano trattata come un tabù – allontanandola in una rimozione di cui si possono solo constatare gli effetti "di ritorno. 2
Ora: se l'antropofagia è certamente entrambe le cose, è cioè un mito e un tabù, essa è anche e soprattutto un evento umano preliminare che si attualizza continuamente in un'infinità di avvenimenti di cui possiamo e dobbiamo valutare, senza stancarci, la portata culturale e cultuale, storica e religiosa, ideologica e etica, metaforica e reale.
E dunque, riproponendo il quesito iniziale, come si manifesta e cosa ci dice oggi l'antropofagia? Cosa ci può spiegare di noi stessi e del nostro rapportarci con il fuori-da-noi? Domande, ripeto, che rischiano di travalicare i limiti di quel "fatto" particolare che è la stesura del Manifesto da parte di Oswald de Andrade; domande che possono, cioè, far dimenticare le motivazioni peculiari e le condizioni storiche e materiali che dettero luogo al Movimento Antropofago in quel Brasile (e, soprattutto, in quella San Paolo) della fine degli anni '20, orgoglioso del suo affacciarsi, finalmente da protagonista, sulla scena mondiale, fiero della impura evidenza della sua identità, consapevole della sconveniente, "sgrammaticata" riconoscibilità della sua voce. Ma se questo rischio è da correre, se dobbiamo continuare a porci tali domande, ciò significa, d'altra parte, che la portata e il senso di quella esplosione di euforia "cannibalica" sono ancora da decifrare pienamente, che la questione sollevata da Oswald investe il nostro presente indurito, ripiegato su se stesso, rassegnato al suo stare oltre quella modernità da cui perviene il Manifesto antropófago.
Del resto, dopo averlo scritto, il suo autore lo glossò incessantemente per il resto della vita, consapevole (forse, solo a posteriori) della portata non occasionale e non puramente antagonica e iconoclasta di quel suo giovanile e apparentemente goliardico incitamento alla divorazione; e cosciente, peraltro, della necessità di spiegarlo e metterlo in rapporto con altro, anche per eludere la sua sbandierata "eccezionalità" che ne segnava fatalmente i limiti e ne sottolineava le incongruenze. Così anche noi, in questa sede, anche se ci interroghiamo prevalentemente sul Movimento Antropofago brasiliano e sul suo mentore, non possiamo né dobbiamo ignorare come esso non rappresenti certamente un evento unico e irripetibile – la riproposizione particolare di un mito, l'infrazione individuale di un tabù – nell'ambito della cultura novecentesca. Basterà additare, per restare nei paraggi del Brasile, l'immagine "intestinale" dell'identità latino-americana prospettata dall'argentino Oliverio Girondo, il quale, nel 1922 (sei anni prima, dunque, della stesura del Manifesto), aveva già parlato di uno stomaco continentale “capaz de digerir e de digerir bien, tanto unos arenques septentrionales o un kouskous oriental, como una becasina cocinada en la llama o uno de esos chorizos épicos de Castilla” 3. Quanto alla cultura europea, è sufficiente ricordare il Manifesto e la Rivista Cannibale redatti o curati da Francis Picabia nel 1920, all'interno del movimento dadaista 4: manifesto e rivista che forse Oswald conosceva – o forse no, visto che ciò che veramente importa è, da un lato, la specificità dell'Antropofagia brasiliana e dall'altro, per paradosso, la sua carica metaforica, il suo senso generale che si rispecchia, senza esaurirsi, anche in quella possibile fonte.
Di fatto, ciò che si deve continuare a fare, per non relegare l'Antropofagia nel suo senso letterale, nella sua funzione occasionale e, addirittura, ludica, è interrogarsi sulle connotazioni ideologiche, etiche, sociali che insistono su di essa – in quanto movimento che si origina in una cultura colonizzata che aspira a definirsi in senso autonomo rispetto alla cultura colonizzatrice – e che la mettono, poi, di traverso sulle nostre certezze, prospettando problemi tuttora irrisolti, disegnando, qui ed ora, scenari che siamo ancora lontani dal pensare in tutta la loro pregnanza e la loro articolazione. Quello che, in effetti, ci viene incontro nell'antropofagia è un paradosso su cui il rapporto fra le culture e/o fra tradizioni diverse all'interno di ciascuna cultura nazionale continua ancor'oggi ad incagliarsi.
In questa prospettiva, si dovrà preliminarmente valutare come l'ingestione dell'altro abbia a che fare, da sempre, con una ben strana forma di potere – un potere che si rovescia paradossalmente nel suo contrario: in un de-potere che, infine, espone all'Altro e lo sacralizza (nella formulazione di Oswald: “Assorbimento del nemico sacro. Per trasformarlo in totem”). Atto che si origina nell'ostilità (per lo meno nella modalità esocannibalica), nell'aggressività e nella prevaricazione nei confronti di un nemico reale, la divorazione diviene quindi, per il fatto stesso di configurarsi come un eccesso, come un'uscita dal proprio, un modo – al tempo stesso simbolico-rituale e empirico, materiale – per aprirsi a quella stessa alterità che viene negata nel momento dell'assimilazione, della sua cancellazione nelle profondità intestinali. Si mangia, in altre parole, per assorbire le virtù del mangiato, per "incarnarne" il valore, così che l'incorporazione dell'altro finisce per configurarsi come un modo di dare corpo all'altro – al nemico come all'amico, si badi, visto che tale motivazione è sensibile anche nella modalità endocannibalica (divorazione di un parente o di un membro preminente della comunità).
Non voglio, ovviamente, addentrarmi in una trattazione antropologica (ne sono, in effetti, così lontano da trattare "antropofagia" e "cannibalismo" come termini sinonimi, cosa che farebbe giustamente insorgere gli studiosi di etnologia), ma sarà bene ricordare come l'ingestione dell'uomo da parte dell'uomo sia più volte ricordata dagli stessi antropologi come un elemento strutturalmente discriminante delle cosiddette società "primitive", divise e classificate non solo a partire dal loro modo di mangiare – il crudo o il cotto – ma anche, e forse soprattutto, a partire da ciò che viene mangiato. E anche se è chiaro che la carne umana non può essere considerata come un cibo fra gli altri, è altresì chiaro che la scelta di questo particolare "alimento" ha fatalmente e da sempre un valore culturale preminente.
Non è un caso che una delle prime marche della diversità americana sia individuata proprio nelle usanze cannibaliche: a partire da Cristoforo Colombo (cui si deve, com'è noto, l'invenzione della parola "cannibale", strana commistione fra un termine ascoltato – "caribi" – e la reminiscenza dei fantastici cinocefali, uomini con la testa di cane – "canibi" – che non solo, secondo i libri monstrorum e i vari livres des merveilles medievali, erano appunto antropofagi, ma che soprattutto potevano essere una delle tribù sottomesse al favoloso Gran Cane descritto da Marco Polo, al cui territorio il grande navigatore sperava di essere prossimo), fino allo shakespeariano Caliban della Tempesta, emblema vivente di una diversità culturale che si anagramma nel tratto "cannibale" del suo nome. Il terrore per le usanze antropofaghe (vere o presunte) delle genti americane accompagna, in effetti, per secoli il viaggiatore europeo che si addentra in un territorio enorme e ignorato: la paura di essere completamente assorbito da questa spaventevole wilderness, di venire "divorato" da questo smisurato spazio selvatico, di essere spogliato non solo del corpo ma anche dell'anima, si sostanzia metaforicamente e materialmente nella figura del cannibale e da essa è duplicata 5.
È noto, peraltro, come sia soprattutto il Brasile (e non, curiosamente, la vera patria dei caribi-canibi, ossia i Caraibi) ad essere identificato quale paese d'elezione degli antropofagi: "Terra dei camballi" o definizioni consimili si leggono, infatti, nelle varie mappe cinquecentesche che disegnano il profilo incerto di quella zona del continente americano.
E a rafforzare tale credenza contribuiscono, poi, le cronache di quei viaggiatori che incappano nelle tribù antropofaghe, prima fra tutte quella del tedesco Hans Staden, prigioniero per quasi un anno dei Tupinambás, sempre sul punto di essere da essi divorato e che racconterà questa terribile esperienza nel suo celeberrimo libro di memorie (Storia vera e descrizione di un paese di selvaggi, nudi, feroci, cannibali...), pubblicato per la prima volta nel 1557 con un corredo di raffigurazioni spaventevoli, varie volte rieditato in Germania, quindi tradotto e pubblicato in molti paesi europei fino alle soglie di questo secolo 6.
Il Brasile diviene insomma, nell'immaginario europeo, una sorta di enorme “bocca infernale” (per usare l’incisiva espressione del gesuita Manuel da Nóbrega, giunto a Bahia nel 1549 e primo Provinciale della Compagnia di Gesù nell'America portoghese 7): una specie di abisso intestinale che divora la civiltà europea e i suoi rappresentanti nel Nuovo Mondo. Equazione, questa, che può anche rovesciarsi nel suo contrario, a seconda del variare di prospettiva in rapporto al cosiddetto "stato di natura", che si materializza in effetti – soprattutto da Montaigne in poi – nell'immagine del buon selvaggio, ma che comunque resta come un marchio indelebile sul rovescio di ogni buona intenzione, come un contraltare demoniaco di ogni concezione edenica del Brasile. È, perciò, quasi ovvio che, allorché la cultura brasiliana inizia a pensarsi e a progettarsi nella sua identità e nella sua specificità, ricorra dapprima alla figura benevolente ed eroica dell'indigeno buono (come avviene, nella prima metà dell'Ottocento, all'interno dell'Indianismo romantico, con opere che esaltano il carattere autoctono della razza brasiliana o, almeno, la sua origine meticcia, frutto della fortunata mescolanza tra portoghesi e indios), per poi ripristinare quell'ancestrale immagine del selvaggio cattivo e "vorace" che il Romanticismo aveva cercato di rimuovere o, almeno, di nascondere sotto il tappeto della storia.
Il Manifesto antropófago nasce, appunto, da qui: da quest'ansia di recuperare e imporre a tutti i costi un'identità antagonica in rapporto a quella europea; da questo desiderio di scrollarsi per sempre di dosso secoli di sudditanza culturale. E nasce, si badi, in un circolo intellettuale – e, soprattutto, dalla penna di uno scrittore – profondamente imbevuto della cultura del Vecchio Continente, attento alle manifestazioni più radicali delle avanguardie europee, ma, al tempo stesso, partecipe di un momento storico di grande euforia, sia sul piano economico-sociale che artistico (in particolare, nella fremente San Paolo di inizio secolo). Il primo grande tentativo di rispecchiare tale rovesciamento di prospettiva, di dichiarare la fine di una dipendenza culturale secolare, è non a caso effettuato da Oswald de Andrade con il manifesto e con la poesia Pau-brasil: modi per dire (o per gridare) che il Brasile era finalmente diventato paese esportatore di cultura. Ciò, tuttavia, non poteva bastare, visto che restava la questione irrisolta dell'origine di tale cultura, della sua natura più profonda e dei meccanismi che l'avevano innescata, portandola ad essere una cultura "a parte". L'Antropofagia, l'esaltazione dell'indio divoratore di europei è, appunto, la risposta in sé geniale, pur nella contraddittorietà della sua formulazione primitiva, che Oswald trova per descrivere l'originalità della cultura brasiliana.
L'ambiguità sta ovviamente, nel Manifesto antropófago come in molte altre euforiche espressioni del Modernismo brasiliano, nella riscoperta di sé attraverso lo sguardo altrui – che si manifesta, ad esempio, nell'affermazione: “Già avevamo il comunismo. Già avevamo la lingua surrealista. L'età dell'oro. Catiti Catiti / Imara Notiá / Notiá Imara / Ipejú”, con la quale la cultura indigena verrebbe a collocarsi in una sorta di paradossale "futuro del passato" rispetto all'arte e all'ideologia europee 8. Ma ciò nulla toglie alla originalità del Manifesto per quanto riguarda la sua capacità di riflettere ed interpretare la dinamica dei rapporti fra cultura egemone e cultura sottoposta o derivata: una innovazione prospettica che non cessa – come dichiaravo, all'inizio – di increspare anche il nostro presente, rendendo perfino inutile l'indagine sulle possibili fonti della ispirazione oswaldiana. Così che se, ad esempio, i cannibales dadaisti lanciano anch'essi, e prima di Oswald, la provocazione antropofagica, lo fanno, però, dall'interno di una cultura che non ha, come la brasiliana, il contrassegno storico e etnico della "infernale" usanza di mangiare il proprio simile: in questo senso, la pratica secolare di divorare l'altro per “trasformarlo in totem” legittima l'antropofagia brasiliana al di là (o al di qua) di ogni possibile modello europeo. La "prassi" fa, insomma, aggio sulla riproposizione ipotetica e provocatoria del mito, e la proposta antropofagica è mille volte amplificata – diviene, perciò, "clamorosa" – dal fatto di essere avanzata nella Terra stessa dei "camballi".
Del resto, il discrimine è subito segnato da Oswald de Andrade, sta inscritto sulla soglia del manifesto ed ha finito per divenire la frase in cui il testo intero del manifesto si rispecchia: “Tupy or not tupy”. Opzione radicale che significa, appunto, l'impossibilità di pensare e di dire il rapporto fra cultura dominante e cultura dominata se non all'interno della seconda, per quanto striata, corrotta o imbastardita essa sia dalla continua prevaricazione e sovrapposizione da parte della prima (contaminata o bastarda, in effetti, come lo è la citazione parodica del To be or not to be). Opzione irresolubile e apparentemente senza uscita, d'altronde, che ribadisce come qualunque identità possa rivelarsi ed esprimersi pienamente solo nel rapporto continuo con l'altro, nel "dimorare" presso di lui; o meglio, solo sostando in quello spazio intermedio e non localizzabile, in quella sorta di "terra di nessuno" che divide e collega l'identico dal diverso da sé e che trova nella corporeità, in quanto dimensione liminare e aperta, la sua metafora più consistente. E non è un caso, in quest'ottica, che Oswald de Andrade scelga di riproporre, parafrasandolo – ponendosi, cioè, ironicamente nella prospettiva dell'Altro –, il Dubbio per eccellenza (quello "amletico", appunto), uno degli interrogativi più radicali ed emblematici nei quali si rispecchia, da secoli, la cultura europea: è soltanto abitando nella Differenza o sul suo limite dubbioso, ancora una volta, che l'Identità culturale (anche quella brasiliana, pertanto) si può schiudere al senso, che è sempre e naturalmente un senso "in relazione".
L'impossibilità di definirsi in positivo, che ogni cultura minoritaria o sottomessa ha sempre avvertito, trova perciò nella proposta antropofagica, se non un vero superamento, almeno un aggiramento, un meccanismo semplice, "primitivo" di rovesciamento o di rotazione del rapporto con la cultura dominante: se non si può recuperare l'identità primigenia, ormai perduta, si può, almeno, tentare di ribadirla nell'assimilazione, nell'incorporazione consapevole di ciò che viene da fuori o di ciò che abita ormai stabilmente dentro il nostro orizzonte identitario. Chi ha perso, insomma, chi è stato sconfitto sotto lo sguardo impassibile della storia, può e deve assumere la sua condizione di perdente come una ipotesi di rivincita storica: se non puoi sconfiggere l'altro che si è installato dentro di te, allora continua a masticarne la lingua, a sbocconcellarne i discorsi, a smozzicarne le ideologie, le filosofie, le manifestazioni artistiche e di pensiero. Dalla loro ingestione e digestione verrà fuori qualcosa di parzialmente nuovo e di parzialmente vecchio – qualcosa, comunque, di effettivamente diverso nel suo carattere insieme residuale e "di scarto" (che marca, cioè, anche uno scarto, una distanza rispetto al materiale ingerito e ai suoi valori); qualcosa, insomma, che il passaggio attraverso il tuo corpo ha fatalmente modificato, virandone il segno originario. La dimensione intestinale diviene, allora, la dimensione di un riscatto possibile nei confronti di ogni purezza conclamata ed imposta: ciò che viene attaccato e corrotto dai succhi gastrici, ritorna impuro e trionfante ad affacciarsi sulla superficie della storia; dà, meglio ancora, luogo ad una nuova storia, ad un dislocamento definitivo del senso.
Contro la mimesi o lo scimmiottamento dell'altro – della cultura e della lingua del "civilizzatore" –, l'antropofagia pronuncia, perciò, un verdetto incontrovertibile, facendo passare la inevitabile sudditanza o totemizzazione per la via stretta, ma percorribile, di una pratica coperta da tabù. E il rimosso torna, sì, ma torna rigenerato dal suo transito per la corporalità; torna, dunque, modificato: da istanza simbolica tutta da decifrare, si trasforma in prassi materiale e artistica, con un suo valore culturale specifico e con una evidenza che non ha bisogno di essere ulteriormente spiegata (basti pensare, del resto, alle molteplici forme in cui l'arte contemporanea ha ripensato e riproposto l'importanza del corpo come luogo non solo di assimilazione, ma di elaborazione del discorso poetico o plastico, ribadendo, in modo forse definitivo, l'equazione fra la ingestione/digestione e il processo creativo). Non è un caso, perciò, che Oswald de Andrade chiuda il suo manifesto attaccando la “realtà sociale, vestita e oppressiva, censita da Freud” e opponendole una “realtà senza complessi, senza follia, senza prostituzioni e senza carceri”; non è un caso proprio perché il tabù praticato ha divelto i vincoli e le articolazioni del senso culturale, ha cancellato ogni mediazione sociale nella immediatezza della divorazione.
Questo spazio di libertà che lo scrittore brasiliano rivendica ha, ovviamente, molti prezzi da pagare – e questo al di là o al di sotto della ostentata euforia del Manifesto. Prima fra tutte la condanna all'ironia, visto che il riuso di quanto viene imposto e assimilato non può che svolgersi, come detto, in un continuo stato di "scarto", di sovrappiù rispetto al senso letterale: bisogna, insomma, sempre insinuarsi nel discorso altrui con l'obbligo di dislocarlo. È ciò che, ad esempio, Oswald de Andrade aveva genialmente realizzato nelle poesie che fanno parte della raccolta História do Brasil: citazioni letterali di antichi testi di cronisti e viaggiatori europei sul Brasile, sforbiciati però arbitrariamente, riordinati in versi e fatti precedere da titoli incongruenti, che rinviano al presente, dischiudendo, appunto, la possibilità di un altro tempo e di uno spazio differente – dato che viene mutata anche la disposizione materiale del discorso nella pagina e che il passaggio dalla prosa al verso impone un diverso ritmo o "tempo" di lettura. Il rischio, evidentemente, è che la tecnica del pastiche o del collage, il ricorso al ready made, l'attitudine costante del bricoleur che scompone e ricompone incessantemente i discorsi altrui, essendo una scelta ideologica e culturale senza ritorno, tenda a trasformarsi in un limite estetico, in un "carcere" ulteriore, in un ulteriore "complesso" e in una "prostituzione" senza fine.
L'altro pericolo è ovviamente quello costituito dalla negazione di ogni tradizione: “Contro la Memoria fonte del costume. L'esperienza personale rinnovata”. Anche questa una scelta quasi obbligata, una volta imboccata la via dell'incorporazione dell'altro, dei suoi divieti e delle sue norme – ma una scelta certamente pericolosa e difficilmente sostenibile, sia sul piano pratico che su quello ideale, visto che trasforma ogni discorso in percorso senza inizio né fine, tramutando la storia in un puro processarsi di eventi singolari, non concatenati fra loro. Il rischio, in questo caso, è la perdita di ogni possibile orizzonte di senso, una specie di nuova "follia". E del resto, lo stesso Oswald de Andrade dovette successivamente rendersi conto dell'impasse, sottolineando da un lato, nel suo manifesto, l'effetto sacralizzante che la divorazione ha sulla cultura divorata, preservando così una sia pure inutilizzabile memoria storica – una pura "reliquia", in effetti –; additando, dall'altro, la carica utopica sottesa alle sue dichiarazioni del ‘28. Una proposta, dunque, tutta da realizzare, una "marcia" in direzione di una storia ancora futura o già interamente consumata (si veda il suo testo pubblicato postumo, nel 1966, e intitolato, appunto, A marcha das Utopias, sorta di glossa tardiva del suo Manifesto).
Ciò che si azzera in tal caso, è il valore di "pratica", anche culturale e artistica, assegnato originariamente all'antropofagia e che pretendeva, appunto, una "peristalsi" infinita: che imponeva, cioè, un sostare permanente nel dinamismo della ingestione e metabolizzazione del passato, un abitare definitivo nella perdita e nella continua reinvenzione memoriale. Questo "stare nel paradosso" dovette sembrare a Oswald privo di ogni stabilità e positività, tanto da spingerlo, in tarda età, a preservare, del suo antico manifesto, soprattutto l'illusoria, antistorica e anacronistica (e non produttivamente astorica o acronica), proposta di un ritorno al matriarcato, come antidoto al paternalismo coloniale o come alternativa socio-culturale rispetto alla norma europea. Sarebbe bastato per contro, per salvaguardare il ruolo essenziale della Memoria, che il cannibale brasiliano, anziché negarla, meditasse sulle implicazioni di un dubbio o di un'interrogazione che era stata prospettata da un cannibale dadaista come Georges Ribemont-Dessaignes: “posséder par le coeur ou posséder par le stomac?” 10. Questione che non va risolta, in effetti, risposta che si piega nella domanda, giacché l'alternativa, a ben vedere, non esiste, se è vero che il possesso, anche memoriale, è da sempre (almeno fin dal Medio Evo europeo) metaforizzato sotto forma corporea-alimentare, di "ruminazione" intestinale, e se è vero altresì che da sempre (o ancora soltanto dal Medio Evo, ma è già più che sufficiente) la distinzione fra "cuore" e "corpo" è assai labile – essendo peraltro il cuore, oltre all'intestino, designato come una sede d'elezione del ricordo, del rammemorare par coeur 11.
Non è difficile accorgersi, invece, di come l'antropofago Oswald de Andrade abbia, con l'andar del tempo, perso i suoi denti, ostinandosi a rimasticare nozioni ovvie, a ridisegnare senza fine i limiti e il senso delle sue proposte. Non pienamente consapevole, forse, di aver dato luogo (e tempo) alla sconvolgente ipotesi di un'altra storia, funzionante secondo ritmi e regole nuove: i ritmi della ingestione e della digestione, le regole antichissime del corpo (e del cuore). Una proposta che può ancora insegnarci – qui ed ora, anche in questa Europa segnata dal multiculturalismo o, più ancora, dall'incontro-scontro distruttivo e feroce fra culture –, come il rapporto fra gruppi etnici, sociali, religiosi differenti possa armonizzarsi solo nell'assunzione piena della Differenza, in un'assimilazione senza egemonie, in una incorporazione che dà corpo all'Altro. Solo in questo possesso "intestinale" (che è anche "cardiaco", che, cioè, è anche sempre un atto d'amore) la Diversità può essere finalmente metabolizzata senza negarsi, divenendo alimento e restituendo vigore e valore a un'Identità sfibrata.


NOTE:


1 Per la ricostruzione della situazione storica peculiare nella quale si origina il Manifesto antropófago nonché, più in generale, per una informazione (anche bibliografica) sul movimento modernista brasiliano e sulla figura di Oswald de Andrade, si veda, in ogni caso, l'Introduzione a questo volume di Maria Caterina Pincherle.
2 Dato per scontato il riferimento a Freud per quel che concerne la tabuizzazione dell'antropofagia, varrà almeno la pena di menzionare, quanto alla sua riduzione (o sublimazione) mitica, il famoso studio di William E. Arens pubblicato in italiano con il titolo Il mito del cannibale (Torino, Boringhieri, 1980).
3 Devo questa citazione al magistrale saggio di Raul Antelo, “Políticas canibais: do antropofágico ao antropoemético”, in corso di stampa nella rivista Letterature d'America.
4 Il Manifeste cannibale Dada venne pubblicato, nel marzo del 1920, da Picabia sul n° 7 della rivista Dada (che aveva come sottotitolo Dadaphone), diretta da Tristan Tzara. Tale manifesto – ribattezzato Manifeste cannibale dans l'obscurité venne poi letto, con accompagnamento musicale, da André Breton in una serata dadaista realizzata a Parigi il 27 marzo. Ad aprile di quello stesso anno, Picabia fondò anche la rivista Cannibale, di cui uscirono soltanto due numeri (cf. Documents Dada, a c. di Y. Poupard-Liessou e M. Sanouillet, Genève, Weber, 1974, p. 37 e Abmnach Dada, a c. di Richard Huelsenbeck, Paris, Ed. Champ Libre, 1980 [il manifesto è riprodotto alle pp. 206-207] ). Che, tuttavia, l'ideale "cannibalico" circolasse nel gruppo dadaista anche prima del '20, è pienamente dimostrato dal breve articolo intitolato “Civilisation”, firmato da Georges Ribemont-Dessaignes e pubblicato sul n° 3 della rivista .391 (marzo 1917), diretta anch'essa da Francis Picabia (cf. infra, nota 10).
5 Per una trattazione più ampia di tali immagini e di tali fobie europee, si vedano, fra l'altro, i miei saggi: “O Duplo e a Falta. Construção do Outro e identidade nacional na Literatura Brasileira”, in Revista Brasileira de Literatura Comparada, n° 1 (marzo 1991), pp. 52-61 e “Il mondo a dismisura. Il senso dello spazio nei primi documenti sul Brasile”, in Il Portogallo e i mari: un incontro tra culture (Atti del Convegno di Napoli, 15-17 dicembre 1994), Napoli, LU.O./Liguori, 1996, pp. 311-19.
6 Si vedano le vare edizioni di quest'opera nella introduzione alla sua edizione brasiliana: Hans Staden, Duas viagens ao Brasil, Belo Horizonte, Itatiaia, 1974, pp. 5-24.
7 La definizione di Nóbrega (per cui la colonia brasiliana è una “boca infernal de comer a tantos cristãos, quantos se perdem em barcos e navios por toda a costa”), la si trova nel libro di Laura de Mello e Souza, O Diabo e a Terra de Santa Cruz, São Paulo, Companhia das Letras, 1989, p. 65. Si ricordi che, fra coloro che fecero naufragio sulle coste brasiliane, vi fu anche il primo vescovo del Brasile – ostile peraltro a Nóbrega e all'azione dei gesuiti – Pero Fernandes Sardinha (nome ominoso, visto che significa "sardina"), catturato e divorato dagli indios Caetés: a partire da questo evento storico è, appunto, datato il Manifesto Antropófago (“Ano 373 da Deglutição do Bispo Sardinha”).
8 Sui limiti della proposta antropofagica di Oswald de Andrade, si leggano, almeno, i due importanti saggi di Luiz Costa Lima: “Antropofagia e controle do Imaginário”, in Revista Brasileira de Literatura Comparada , n° 1 (marzo 1991), pp. 62-75; “Oswald de Andrade – A utopia Antropofágica: uma utopia sem história”, in Oswald plural, Rio de Janeiro, Ed. da UERJ, 1995, pp. 93-98.
9 Quale esempio estremo e, al tempo stesso, esemplare di tale sublimazione della produzione corporea, o meglio, di un'arte intesa come "residuo intestinale", come frutto dell'attività metabolica, si può forse additare la famosa Merda d'artista (1961) di Piero Manzoni. E peraltro ovvio come, in questo caso, "il prodotto" si proponga di irridere il "mercato", laddove, a mio parere, l'intenzione dell'Antropofagia (almeno quella leggibile nel Manifesto) è ancora tutto interna alla logica della "merce", dell'arte come bene da esportare che aveva già informato di sé il Manifesto pau-brasil.
10 Georges Ribemont-Dessaignes, “Civilisation”, in 391, n° 3 (marzo 1917), p. 2 (vedilo ora in G.R.-D., Dada. Manifestes, poèmes, articles, projets (1915-1930), a c. di Jean-Pierre Begot, Paris, Ed. Champ Libre, 1974, pp. 105-106).
11 Sulle immagini e i "luoghi" della memoria nella cultura medievale e sulla indistinzione fra "cuore" e "corpo" – che gioca anche sulla omofonia, come ad esempio nella lirica provenzale in cui il termine cors può significare le due cose –, rinvio, per comodità e brevità (la bibliografia è, in effetti, sterminata), solo al mio studio “Sylvae. Os (des)caminhos da memória e os lugares da invenção na Idade Média”, in Critica del testo, I / 1, 1998, pp. 253-89 [e, in particolare, pp. 262-67]


( Tratto da La cultura cannibale – Oswald de Andrade: da Pao-Brasil al manifesto antropofago, a cura di Ettore Finazzi-Agrò e Maria Caterina Pincherle, Meltemi editrice, Roma, 1999, traduzione di Maria Caterina Pincherle)




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