L'ARTE DELLA TRADUZIONE


Margherite Yourcenar

 

Non tutti sanno che lei è la traduttrice di Virginia Woolf, di James, di Hortense Flexner, di Kavafis e, in Fleuve profond, sombre rivière, degli anonimi cui si devono gli spirituals. Come si spiega questo incontro, alquanto imprevisto?
I negro spirituals sono un'antica passione, per me. Nel 1937, sono venuta negli Stati Uniti per una breve visita, e dev'essere stato allora che sono andata per la prima volta nella Carolina del Sud. Vi ho visto dei negri, li ho sentiti cantare, e i loro canti mi hanno fatto una grande impressione. Più tardi, quando sono tornata a New York durante la guerra, ho avuto, come tutti, dei domestici neri. Era nero anche il portinaio, e molti altri. E c'era pure Father Divine, una sorta di profeta, molto noto all'epoca. Con la mia amica americana, mi sono avventurata a Harlem per sentirlo. O meglio, per vederlo, perché non parlava: mangiava. Era seduto davanti a un'immensa tavola, ma i cibi, che gli venivano serviti da certe splendide negre vestite di raso artificiale bianco, erano assolutamente modesti: colli e zampe di pollo, patate, e ogni specie di alimento a basso costo. E ognuno di questi piatti veniva presentato a Father Divine che li guardava con uno sguardo assente, continuando a mangiare. La gente che era là - una folla di negri - si accalcava davanti al tavolo e gli diceva: "Dacci la tua benedizione, padre... Toccaci, padre". Era molto commovente. Mi sono del resto servita di questa esperienza quando ho cercato di ricostruire il banchetto dei profeti, a Munster, nell'Œuvre au noir. Vi ho messo quella specie di entusiasmo quasi sensuale della folla.
Quando siamo rientrate in casa, nell'appartamentino di Riverside, che non era ancora un quartiere pericoloso come lo è, dicono, ai giorni nostri, il portiere ci si è avvicinato, molto preoccupato: "Come?! Siete andate da Father Divine!... Ma è molto imprudente... vi avrà certo stregate!"
In seguito, ho letto quasi tutto quello che c'era da leggere sull'argomento, ed è una faccenda un po' complicata perché la maggior parte dei negro spirituals che si sentono sono stati spesso ritoccati, banalizzati, per meglio aderire ai gusti del cantante. Tuttavia, vi sono anche vecchi testi che sono stati raccolti, e sono i più interessanti. Alcuni risalgono alla guerra civile e sono composti in un gergo molto stretto. E poi, esistono dozzine di versioni diverse di ogni spiritual, bisogna scegliere, dire a se stessi: "Toh, questa sembra più autentica, o più antica di quella..."

Che insegnamento traeva da questo studio?
Innanzitutto l'unità profonda della razza umana davanti al dolore. I negri, e li capisco benissimo, non condividono affatto, almeno per il momento, la nostra infatuazione per gli spirituals; vi vedono il ricordo tormentoso del tempo della schiavitù, e tutto questo è, per loro, espressione di una pazienza, di una rassegnazione che non accettano più. Essi reagiscono un po' come degli adolescenti: quando si è stati allevati in una religione qualunque, viene un momento in cui ci si rivolta contro di essa, è naturale e sacrosanto.
Ma hanno torto perché questi spirituals, così profondamente cristiani, sono nonostante tutto una parte meravigliosa della loro eredità, cui del resto il gospel, che è la forma più recente del canto religioso nero, tiene ancora intimamente fede. Questi antichi spirituals sono espressione di gente avulsa dal proprio universo, proveniente da tribù diverse, gente che parla linguaggi diversi, che ha imparato quello che qui si chiama un inglese di base, e che tuttavia riesce a esprimere in questo idioma il dolore, la morte, la pietà, l'estasi religiosa, e anche i lontani ricordi delle iniziazioni indigene, quel profondo individualismo del negro che va sulla montagna a cercare Dio. Tutto questo è magnifico. Questo fervore, nelle condizioni atroci della schiavitù, è stato una sorta di dono divino. Quanto a me, metto gli spirituals neri allo stesso livello dei lieder tedeschi, delle canzoni dei troubadours medievali o dei poemi mistici italiani del XII secolo. Mi sembra un momento alto dell'emozione umana. Metterei però a un livello leggermente inferiore il gospel, questa forma più moderna del canto nero, e i "canti della libertà", bellissimi e sconvolgenti a sentirsi per il particolare calore della voce nera ma musicalmente meno originali e già un po' banalizzati dal punto di vista dell'espressione. Tutti hanno in comune, tuttavia, il fatto che la voce passa, con estrema libertà, dal sussurro al grido, dal balbettio al lamento; essa si dispiega strascicante o si fa concitata liberamente, senza regole, e il ritmo è in essa più che essa non obbedisca al ritmo.

Ma come tradurre gli spirituals in una lingua che si avvicini all'originale?
Dovevo trovare una lingua popolare che non fosse né il limosino, né il fiammingo, né il normanno o il provenzale o il bretone, ma che desse l'impressione di essere direttamente scaturita dal popolo. Ed è del resto appassionante, dal punto di vista della metrica, perché questo permette al poeta una grandissima libertà: si possono mangiare metà delle parole, avere tutte le false rime che si vogliono...
A volte, facendo questo tipo di lavoro, ci si domanda se la poesia francese non sia morta per essersi allontanata troppo dalle forme popolari. Qualcosa del brio della poesia allo stato infantile: ecco quello che dovevo trovare. Naturalmente, per gli spirituals, c'è un elemento che non si può mai rendere del tutto, ed è la potenza della voce nera. Ascolti We Shall Overcome cantato da dei negri, e poi cerchi di dire Nous triompherons, o qualcosa di simile... Bisogna rassegnarsi a che il grigio si sostituisca allo splendore.
Non è un'impresa disperata, allora?
No. Certo, si ha la consapevolezza di non riuscirvi mai perfettamente, non si ignora che il lettore sarà sempre in diritto di muoverci dei rimproveri, spesso sbagliati, perché non tiene conto della complessità del problema, ma a volte anche giusti. Ma, almeno, questo lavoro sarà servito a far conoscere quei grandi poemi a un nuovo gruppo di lettori, ed è una cosa indispensabile. Dopo tutto, tre quarti di ciò che leggiamo è traduzione. Leggiamo la Bibbia tradotta, i poeti cinesi, i poeti giapponesi, indù, Shakespeare, se non sappiamo l'inglese, e Goethe, se non sappiamo il tedesco. Saremmo ben limitati, se non disponessimo di traduzioni. Ma, al tempo stesso, è una responsabilità grossa per il traduttore: l'opera di qualcun altro viene messa nelle mie mani, e sento, con molta chiarezza, che non riuscirò mai a dare tutto, a rendere tutto. Tempo fa, scrivevo alla correttrice delle bozze della mia antologia di poeti greci che un traduttore (soprattutto se traduce versi) assomiglia a una persona che stia facendo la valigia. Essa è li, aperta davanti a lui; egli vi mette dentro un oggetto, poi dice a se stesso che forse un altro sarebbe più utile, allora toglie l'oggetto e poi lo rimette, perché, dopo una breve riflessione, si rende conto di non poterne fare a meno. In realtà, ci sono sempre cose che la traduzione non lascia trasparire, mentre l'arte del traduttore sarebbe proprio di far sì che niente vada perduto. Non si è dunque mai realmente soddisfatti. Ma questo è vero anche per i libri originali, quelli che scriviamo noi, e dei quali Valéry avrebbe potuto dire che sono una traduzione da una lingua self (gli piaceva questa espressione) in una lingua accessibile a tutti.

Ë più soddisfatta quando traduce Virginia Woolf o Kavafis?
Un po' meno per quanto riguarda Kavafis, tradotto comunque in prosa, innanzitutto perché, tutto sommato, la prosodia non è l'elemento più importante, in lui, e poi perché alcuni dei suoi poemi, calati in certi sfondi volutamente banali, avrebbero fatto pensare, tradotti in versi francesi, a un François Coppée colto da erotismo. Ma Kavafis è inimitabile. E il greco, al tempo stesso più morbido e più secco del francese, si addice meglio a quel pensiero tanto asciutto quanto agile, a quegli effetti minuziosamente calcolati e come fatti di niente. In lui è chiaramente percepibile la giustapposizione continua del presente e del passato (il suo passato personale e quello della storia), ma il suo temperamento differisce dal mio al punto che sono spesso tentata, a torto, di accusarlo di eccessiva parsimonia. Kavafis ha scritto in tutto circa centocinquanta poesie, brevissime, e per tutta la vita le ha limate con grandissima cura perfezionistica, ma, si direbbe, senza nel frattempo arricchirsi o cambiare; è un poeta vecchio che si è per così dire fatto carico di un poeta più giovane. Quello che ha contato, per lui, è una certa ora, un certo giorno, di un certo anno: 1909, 1911 o 1912, un certo momento d'amore o di piacere non dimenticato. Nient'altro, salvo forse, delicatamente ma radiosamente evocato, il suo background greco. La sua spoglia austerità e il suo ardore, e anche certe sue limitazioni, dipendono da questo. E teneva in modo quasi maniacale la sua contabilità di poeta: segnava quante righe, quanti versi erano stati scritti, cancellati, ritoccati ogni giorno, ogni mese. Un metodo che mi è completamente estraneo ma che, proprio per questo, mi ha insegnato molto. E più ho visto quanto quei centocinquanta poemi abbiano contato per molte persone (che magari lo leggono nella mia traduzione), più ho sentito tutta la grandezza di questo poeta della meditazione e del desiderio.

Che cosa vi ha avvicinati l'uno all'altra?
Il sentimento di quel legame fra presente e passato, l'ardore bruciante come una sera d'estate greca. E poi il caso. Ho scoperto Kavafis nel momento della sua morte, nel momento in cui un poeta in qualche modo si libera. Spesso, bisogna che i poeti muoiano perché si cominci a parlare di loro. Era il 1936, credo, durante il mio secondo soggiorno ad Atene. Avevo un amico libraio (lo stesso, del resto, che mi ha guidata in mezzo alle difficoltà del greco moderno, per non parlare dell'argot alessandrino di Kavafis) quel giorno, la libreria era chiusa e gli impiegati in vacanza, e la sera dopo aver cenato in una taverna, questo mio amico ha deciso che dovevo assolutamente conoscere Kavafis. Allora, abbiamo spaccato la vetrina del negozio, perché non aveva la chiave con sé (non ricordo bene se l'abbiamo realmente spaccata... dopo tanto tempo, non ne sono proprio sicura, comunque ho l'impressione che ci siamo comportati come due ladri), e siamo andati a scovare il prezioso volume di Kavafis per leggerlo seduta stante. Poi, due anni dopo, mi sono decisa a tradurlo, ecco tutto...

E con Virginia Woolf com'è andata?
È stato un po' un lavoro di tipo lucrativo: a quell'epoca avevo trent'anni e pochissimo denaro. L'offerta di una traduzione mi è sembrata un'autentica manna, benché le traduzioni non siano mai molto ben pagate. Però, ho avuto il piacere di incontrare l'autrice. Essendo una traduttrice coscienziosa mi sono detta: "Andiamo a chiederle cosa vuol che faccia, come vuole che traduca il suo romanzo". Si trattava di Le onde, che è ancora il romanzo di lei che preferisco. In realtà, essa non aveva alcuna opinione in proposito. Mi ha detto: "Faccia come vuole". Non che questo mi aiutasse molto, ma almeno l'avevo vista. A quell'epoca, appariva già molto fragile, molto in pericolo.

Lei non nutre la stessa indifferenza nei confronti delle traduzioni delle sue opere...
Ah, no davvero! Seguo le cose il più da vicino possibile. Naturalmente, questo dipende dalla lingua nella quale i miei libri vengono tradotti. Nel caso dell'italiano, dello spagnolo o dell'inglese, mi agito al sospetto del minimo errore. Ma se si tratta di una traduzione in giapponese o in ebraico, mi devo fidare!

E con i poeti greci, che lei traduce da anni, qual è stato il suo metodo per passare da una lingua all'altra senza uccidere il ritmo?
Con i poeti greci antichi ho cercato di adattare la metrica in modo che fosse il più possibile vicina a quella del poeta greco, e non è facile, in francese. La metrica greca è infinitamente più complessa della nostra, anche considerando le epoche di maggior raffinatezza poetica, come il XVII secolo. Ho dunque cercato di mantenere una continua melodia narrativa, un ritmo in cui i versi diano l'illusione di scivolare gli uni negli altri, con cesure diverse. Così, il ritmo del verso propriamente detto, se lo si coglie, si fonde nel ritmo della frase. Era un modo di rompere con le nostre abitudini, pur conservando una forma ordinata per tradurre questi poeti che hanno scritto con una metrica regolare e sapiente. I ritmi contraddicono o avvalorano la musica delle parole ma, dopo tutto, ignoriamo la musica degli antichi greci; ci restano solo due o tre battute scritte, e nelle reminiscenze che crediamo di poter cogliere in musiche religiose o popolari più recenti c'è sempre un coefficiente di ipotesi. La stessa cosa vale per il tono del linguaggio e il suono delle parole, la cui pronuncia, nel corso di venticinque secoli, ha certo subito dei mutamenti. Quello che a ogni modo sappiamo, è che la prosodia degli antichi greci era basata sulla quantità, e che noi riusciamo raramente, quando ci proviamo, a far entrare la nostra prosodia in un sistema analogo. Quando esperti in metricologia si sforzano di scomporre "La figlia di Minosse e di Pasifae" in dattili o in spondei, o in trimetri giambici, o che so io, ognuno, in realtà, costruisce il verso a modo suo, e, se prendiamo tre professori, tutti e tre avranno delle opinioni diverse. Nonostante certi lodevoli tentativi fatti dal Baïf, durante il Rinascimento l'imitazione letterale della metrica antica non porta molto lontano, in francese. In una certa qual misura, ho cercato di sostituire la quantità con la rima, essendo la rima un sistema da molto tempo accettato nelle lingue occidentali, e in quella francese in particolare. Solo che le mie rime non vanno a due a due o a quattro a quattro; a volte, esse si richiamano a trenta righe di distanza. Ce ne possono essere cinque di seguito, oppure capita che si ripetano tre o quattro volte in sessanta versi. Ho voluto dare un'idea dei processi utilizzati dalla prosodia greca senza limitarmi minimamente a quella che sarebbe una ricostruzione artificiale. Quanto meno ci ho provato... Tutto questo, del resto, riguarda solo i poemi narrativi, le odi o alcuni frammenti di tragedie. Per gli epigrammi, scritti in uno stile meno ornato e meno complesso, ho seguito la regola dei nostri poeti del XVIII secolo, come André Chénier, vale a dire tradurre in alessandrini. (Voltaire, però, traduceva spesso in strofe di otto versi.) In questo caso, l'essenziale è ottenere una resa limpida e precisa al tempo stesso.

Come mai si è interessata ai poeti, piuttosto che, per esempio, ai filosofi? Forse perché si considera un poeta?
Nel senso che io do alla parola poeta, sì. Per me, poeta è qualcuno che è "in contatto". Qualcuno attraverso cui passa una corrente. Ma, tutto sommato, poesia e prosa si assomigliano enormemente. La prosa è piena di ritmi latenti che, se ci si fa attenzione, risultano subito evidenti. Solo che la poesia - ed è qui, secondo me, che il poeta moderno sbaglia - poggia su effetti ripetitivi, tali da svolgere un ruolo incantatore, o per lo meno imporsi al subconscio. Una poesia priva di ritmi immediatamente percettibili non stabilisce quel contatto necessario al lettore.

È magia, insomma...
Incantesimo. Ma non appena si allineano delle frasi di prosa a mo' di versi ineguali, in cui il lettore non può più riconoscere il movimento stesso del poema, la corrente poetica viene interrotta.

E non corre proprio questo rischio, con le sue traduzioni?
No, dato che, per l'appunto, mi sono sforzata di tradurre in ritmi. Noti bene che le traduzioni degli spirituals sono anch'esse in versi, versi popolari come gli originali, con la differenza, beninteso, che non vi è la stessa colorazione vocale. Anche le mie traduzioni dal greco sono in versi, e ho fatto in modo che si avvicinino il più possibile all'originale; non m'illudo di esserci sempre riuscita. Vi sono momenti in cui è impossibile ottenere del tutto gli stessi effetti. Resta comunque un ritmo a ricordare al lettore che si tratta proprio di un incantesimo, e di un canto, che dipendono dal ritmo della frase e dalla iterazione dei gruppi di suoni.

Oltre a Les charités d'Alcippe e alle due raccolte giovanili, quali delle sue opere potrebbero essere definite poemi?
Tutte. Con la differenza, ovviamente, che la prosodia crea una sorta di cantilena sacra che nella prosa non esiste. La prosa lascia sempre lo spirito del lettore molto più libero di evadere dal cerchio magico, di giudicare. Ma non per questo la musica vi è meno presente. Al di là di una certa soglia, si parla poeticamente anche senza volerlo. Basta ascoltare il timbro di voce della gente nella collera, nell'amore, nel molle abbandono della flânerie. Sono ritmi poetici.

Ma questa "musica", come la sente, scrivendo?
Sento d'essere come attraversata da una corrente, la stessa di cui parlavamo poco fa. La prosa viva ha il suo ritmo. L'errore di chi ha creduto di fare una prosa poetica è stato quello di utilizzare in prosa delle forme prosodiche che diventano allora elementi troppo visibili, troppo separabili. Maeterlinck, ad esempio, metteva nella sua prosa degli alessandrini; orribile! Si vede subito che è qualcosa di appiccicato, e si valuta meglio quella che dovrebbe essere l'infinita diversità della prosa. Appesantita da ritmi ripetitivi e obbligati, essa diventa orribilmente monotona.

Ma come si può seguire al tempo stesso il proprio pensiero e il "tempo" di una musica? Non vi è contraddizione?
Non credo, nella misura in cui la musica unisce il fondo e la forma. La forma emana dal fondo. Solo che, nella prosa, l'autore non è là a chiedere al lettore di scandire in un certo modo. Il lettore è libero, fa ciò che vuole. Se lei e io leggessimo lo stesso paragrafo di prosa senza esserci messi d'accordo, le nostre scansioni sarebbero diverse perché non daremmo la stessa importanza alle stesse parole. In un poema, la scansione è invece più o meno preparata in anticipo dal poeta che svolge in questo caso la sua parte di musico e di mago: impone una certa costruzione sonora, una certa illusione, o una certa realtà. Nella prosa, il lettore sceglie. E anche il prosatore ha le sue personali scansioni, le sue scelte. Di conseguenza, una certa frase di prosa, essenziale per l'autore, può passare quasi inosservata al lettore che non vi avrà messo l'insistenza o l'elemento di canto che lo scrittore presumeva.

C'è un'inferiorità della prosa, dunque...
Certamente, se si tratta d'imporre una visione, un miraggio. Tuttavia, la prosa offre un ventaglio incomparabile di possibilità. Come la vita, essa propone una serie di strade e ciascuno può prendere la propria; offre delle potenzialità molto più vaste.

Il che non le ha impedito, per l'appunto, di diversificare tanto quanto ha potuto i mezzi di espressione, per esempio nelle sue traduzioni in versi dei poeti greci.
Infatti, ma spero che queste ricerche tecniche passino del tutto inosservate. Se si è in grado di osservare che i ballerini, mentre ballano, contano i loro passi, vuol dire che non si è molto presi dalla danza...


(Tratto dal libro Ad occhi aperti - Conversazioni con Matthieu Galey, Bompiani editrice, Milano, 1999)





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