UN INFERNO VERDE

Susan Orlean


(...) Per andare a cercare qualcosa nel Fakahatchee Strand bisogna averne davvero bisogno. Il Fakahatchee è una riserva di sessantatremila acri di pianura costiera nell'angolo sudoccidentale della Florida, circa trenta chilometri a sud di Naples, in quella parte della contea di Collier dove i prati rasati e i campi da golf cedono il passo a un oceano di cladio della Giamaica dai bordi taglienti come falci. Il Fakahatchee è un insieme di profonde paludi, boschetti di cipressi, foreste umide, praterie riarse e acquitrini formati dalla marea degli estuari. Il calcare sottostante ha sei milioni di anni ed è sovrastato da sabbia, conchiglie, roccia dura, marne di limo e argilla grigioverde. In generale, il Fakahatchee è piatto come una tavola. Fosse e conche si riempiono rapidamente di acqua freatica. Le foreste sono folte e buie. Nelle distese aperte, il terreno si srotola come un liscio manto erboso e non è difficile vedere anche le protuberanze e i corrugamenti più lievi. Il territorio non supera perlopiù i tre metri di altitudine e degrada millimetro dopo millimetro fino a trovarsi a livello del mare. Il Fakahatchee è caratterizzato da una bellezza strana ed eccezionale. Sotto i raggi del sole, le praterie assomigliano a scampoli di seta grezza. I tronchi alti e diritti delle palme e dei cipressi spuntano come geyser dal terreno piatto. La zona ha la stessa bellezza di un tappeto persiano: fitto, intricato, lussureggiante, quasi monotono nella sua ricchezza.
Il Fakahatchee e le aree limitrofe sono abitati, anche se si tratta di regioni davvero inospitali. Nel 1872, un agrimensore annotò: "Uno stagno circondato da paludi di allori e cipressi, impraticabile. Pieno di mostruosi alligatori. Ne ho contati cinquanta, poi mi sono fermato". In effetti, le ore che trascorsi nel Fakahatchee ricalcando le orme di Laroche sono probabilmente tra le più infelici della mia vita. La parte paludosa è umida, soffocante, infestata dagli insetti e piena di alligatori, chelidre, maiali selvatici, mocassini acquatici, crotali diamantini, piante velenose e cose che ti si appiccicano addosso e ti volano nel naso o nelle orecchie. Addentrarsi nella palude è un'impresa ardua. La puoi attraversare con la stessa facilità con cui attraverseresti un autolavaggio. Le conche contengono ben due metri di acqua stagnante, e tutt'intorno l'aria ha la pesantezza molle e opprimente del velluto bagnato. Gli alberi sembrano madidi di sudore. Le foglie sono viscide per l'umidità. Il fango ti risucchia i piedi e cerca di imprigionarli; se non ci riesce, si accontenta delle scarpe. L'acqua della palude è chiazzata di nero per via del tannino prodotto dalla corteccia dei ci-pressi, una sostanza tanto corrosiva da essere utilizzata per la concia delle pelli. Nel Fakahatchee, quel che non è umido è arido. Il sole picchia sulle praterie desolate. L'erba è così secca che l'attrito degli pneumatici di un'auto riesce a incendiarla, e le fiamme possono divora-re il veicolo. Un tempo, la regione era costellata di vetture carbonizzate abbandonate da avventurieri cotti a puntino. Un botanico che la attraversò negli anni Quaranta dichiarò in un'intervista di essere rimasto colpito dalla varietà di scoiattoli e dalla quantità di Ford Modello T bruciate. L'immobilità, l'oscurità e l'impenetrabilità della palude possono sconvolgere. Nel 1885, un marinaio che prese parte a una spedizione per la raccolta di piume scrisse nel suo diario: "Il posto appariva selvaggio e solitario. Verso le tre Henry sembrava impazzito. È scoppiato a piangere e non riusciva a dirci perché. Era solo terrorizzato".
Di solito, i luoghi sinistri sono pieni di morte, ma il Fakahatchee brulica di creature viventi. I cacciatori d'uccelli arrivavano persino da Cuba e ripartivano con piume sufficienti a decorare migliaia di copricapi per signora; nell'Ottocento, un gruppo portò a casa niente meno che otto tonnellate di uova. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, un viaggiatore giudicò meravigliosa la rigogliosità della palude: aveva catturato cento chili di aragoste, che aveva consumato a colazione, e si era imbattuto in un gruppo d'alberi tra i cui rami aveva raccolto "un'abbondante scorta di uova di cormorano e airone azzurro, con cui intendo cucinare delle omelette". Quella sera, cenò con airone fritto e cuori di palma. Nel Fakahatchee, vi era un tappeto di maldestre cavallette così spesso da rendere pericolosa la guida, e le orchidee erano tanto numerose da nauseare i visitatori con il loro profumo. Durante la mia prima escursione nella palude, vidi gloriose, salcerella, sommacco e otricolaria nonché polipodi che spuntavano da un vecchio albero abbattuto; vidi querce, pini, cipressi, frassini della Florida, callicarpe, sambuco, erbe Xyris, e ambrosia. Quando arrivai, un gufo mi lanciò uno sguardo altezzoso, e quando me ne andai tre minuscoli alligatori mi attraversarono frettolosi la strada. Mi ritrovai in un angolo circondato da alti cipressi. Le guardie forestali lo chiamano la Cattedrale. Chiusi gli occhi e, quasi senza respirare, mi abbandonai per un momento a quel silenzio; quando li riaprii e alzai lo sguardo, vidi che su quasi tutti gli alberi erano adagiate decine di bromeliacee. Erano di colore verde e rosso vivo e assomigliavano a parrucche con i capelli ritti. Alcune avevano le dimensioni di un ragno, mentre altre erano grandi quanto me. Il sole che filtrava tra la vegetazione si rifletteva sulle foglie lucide. Appese lassù tra i rami, le bromeliacee non sembravano piante. Assomigliavano più a un gruppo di animali che osservava tutto quanto accadeva lì intorno.
Dopo l'udienza, avevo deciso di recarmi nel Fakahatchee perché volevo vedere l'oggetto dei desideri di Laroche. Gli chiesi di accompagnarmi ma, poiché il giudice gli aveva proibito di avvicinarsi alla palude fino alla conclusione del processo, dovetti cercare qualcun altro. Credo che avrei potuto andarci per conto mio, ma avevo sentito dire che il Fakahatchee era un luogo inospitale, e persino alcuni botanici dall'aria coraggiosa mi avevano detto che non avrebbero voluto trovarsi tutti soli laggiù. Finalmente, mi presentarono un ranger di nome Tony che si dichiarò disposto a farmi da guida. Trascorsi i giorni successivi cercando di convincermi a non avere paura. Qualche giorno prima della partenza, Tony mi chiamò per domandarmi se fossi davvero sicura di voler fare l'escursione. Gli dissi di sì. Sono una dura. Ho corso una maratona, ho visitato da sola i posti più singolari e ho parlato con numerosi estranei e, quando il coraggio si esaurisce, posso contare su una sorta di ostinata incoscienza. D'altro canto, ciò che finora ho detestato maggiormente è stato toccare il fondo molle del lago durante le lezioni di nuoto al campeggio estivo e sentire il fango coperto d'erbacce tra le dita contratte; quindi il pensiero di attraversare la palude mi faceva accapponare la pelle. Il giorno seguente, Tony telefonò per la seconda volta e mi chiese di nuovo se fossi davvero pronta ad affrontare il Fakahatchee. A quel punto, smisi di farmi coraggio lasciando che i momenti trascorsi nel lago di Camp Cardinal riaffiorassero alla memoria e, quando vidi Tony alla stazione delle guardie forestali, ci mancò poco che mi mettessi a piangere.
Ero tuttavia intenzionata a vedere le orchidee, così io e Tony ci inoltrammo nel Fakahatchee pieni di speranza. Camminammo dal mattino fino al tardo pomeriggio con scarsa fortuna. La luce era calda e l'aria irrespirabile. Mi dolevano le gambe e la testa, e non riuscivo a sopportare di avere la pelle sudaticcia. Cominciarono a passarmi per la mente i pensieri furtivi e incontrollabili di un disertore, e iniziai a domandarmi che cosa avrebbe fatto Tony se all'improvviso mi fossi seduta rifiutandomi di proseguire. Mi precedeva di un bel tratto; da quel che potevo vedere, era pieno di energie. Chiamai a raccolta tutte le mie risorse e lo raggiunsi. Mentre camminavamo, mi parlò della sua vita e accennò al fatto che anche lui era un collezionista di orchidee e possedeva un piccolo laboratorio casalingo, dove stava cercando di produrre un ibrido che avesse il labello avvolgente dell'Encyclia ma il colore di una certa varietà di Cattleya, vale a dire marrone con piccole pennellate verde limetta. Disse che avrebbe conosciuto il risultato del suo esperimento nel giro di sette o otto anni, quando le piantine ibride sarebbero fiorite. Non aprii bocca per uno o due chilometri. Facemmo una sosta e, mentre Tony cercava di capire che cosa non andasse nella bussola, gli domandai quale speciale fascino avessero, a parer suo, le orchidee per indurre gli uomini a rubarle, venerarle, coltivarne nuove varietà e attendere quasi dieci anni prima di vederle fiorire.
"Oh, il mistero, la bellezza, l'inconoscibilità, credo" disse scrollando le spalle. "Inoltre, secondo me, la vera ragione sta nel fatto che la vita non ha alcun significato. Voglio dire, alcun significato evidente. Penso che ognuno di noi sia sempre alla ricerca di qualcosa di insolito che lo distragga e lo aiuti a passare il tempo." (...)


(Brano tratto dal romanzo Il ladro di orchidee, Rizzoli, Milano, 2000, traduzione di Roberta Zuppet.)


Susan Orlean

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