IL RAGAZZO NELL'ARMADIO
Jan
Sonnergaard
Nel
luglio di un paio d'anni fa un giovane se ne andava fischiettando
in giro per Copenaghen. Ad essere più precisi stava camminando
su per la collina di Valby, rasente il giardino zoologico, dove
un okapi era morto per aver sentito troppa musica classica. C'era
stato un concerto gigantesco nelle vicinanze, al parco di Sondermarken,
proprio dall'altra parte della strada, uno di quei concerti per
persone anziane, con cantanti anche loro anziani; e il repertorio
era una selezione di arie di cui si poteva stare sicuri che tutti
già le conoscevano da prima. Era sia opera che pop, ecco
cos'era, e l'okapi, dentro al giardino zoologico, non riusciva
a comprendere quegli strani suoni. Il povero animale ne veniva
straziato, abituato com'era a orientarsi grazie al suo udito raffinato.
Un okapi, infatti, riesce a sentire una foglia cadere a diversi
chilometri di distanza. E un animale assai insolito in quanto
a udito, e per questo quel concerto così rumoroso era una
tortura senza pari. L'animale era morto stramazzando sul posto.
E il giovanotto non era ancora tanto vecchio da far sì che questo non gli sembrasse un peccato.
Poi girò là dove sono i giardini delle villette
monofamiliari, in cima alla collina, e c'era un odore di frittura
e di vecchio cibo danese, e si sentiva un'orchestra amatoriale
che suonava vecchi pezzi dei Gasolin. Era un vero giorno d'estate.
Era caldo e umido, c'erano tante persone in strada, perché
la maggior parte dei copenaghesi si era messa in ferie. E dalla
birreria Carlsberg veniva un odore di luppolo e di metropoli,
di erba e di cibo - perché finalmente era estate, non ci
poteva essere alcun dubbio.
Il
giovane aveva uno strano aspetto. Il suo vestiario era caratterizzato
da spunti provenienti da molte parti diverse. I pantaloni erano
a quadroni grandi e molto scampanati. Una camicia arancione striminzita
gli copriva il busto, con collettoni grandissimi. E poi aveva
un paio d'occhiali che avrebbero potuto essere indossati da Buddy
Holly. E poi stivali, lunghi, neri e a punta. Il che di certo
era un errore. Non c'è nessun dubbio che, se le cose hanno
un senso, avrebbe dovuto scegliere dei mocassini.
In altre parole il vestiario era una specie di tentativo di essere
hip. E, come si capirà, il tentativo non era interamente
riuscito.
Era
uscito dal liceo da poco tempo - aveva appena compiuto 19 anni
- e abitava a Copenaghen da non più di un anno. Abbastanza
a lungo da racimolare un po' di conoscenza sugli abiti di marca,
ma non abbastanza da saperla utilizzare correttamente. Era palesemente
un po' insicuro, e poteva lasciarsi confondere persino da piccole
cose, perché il sistema scolastico per tanti anni aveva
raso al suolo il suo buonsenso, e lui ancora non aveva preso le
distanze.
Ma era contento. Era così sensazionalmente contento che
quasi saltellava per la strada.
E
se era così contento si doveva al fatto che stava andando
a trovare una ragazza carina. Questa ragazza era molto bionda
e quando l'aveva incontrata portava trecce lunghe e spesse che
allora quasi la facevano assomigliare a una contadinotta tirolese,
e una faccia piena di lentiggini. Adesso le trecce erano sparite
e aveva una pettinatura corta post-punk che migliorava ancora
di più l'insieme. Era bella, e lo era ancora di più
per il fatto che, a quanto pareva, non era del tutto conscia della
propria bellezza, e nemmeno, a quanto ne sapeva lui, aveva cominciato
a utilizzarla per procurarsi dei vantaggi nella vita. Abitava
proprio nelle vicinanze, non più di cinque minuti di cammino
da dove il giovane si trovava ora, in un appartamento che dava
su un cortile interno, a Vesterbro, nei dintorni di Enghave.
Ci si stava bene in quel quartiere. Non faceva affatto pensare
a tutte quelle storie terrificanti che si sentono in giro, secondo
cui Vesterbro sarebbe una sorta di Sodoma e Gomorra. Al contrario.
Ci abitava gente molto simpatica, e in seguito all'evoluzione
sociale degli ultimi tempi le persone sopra i quarant'anni avevano
un lavoro e si guadagnavano da vivere, mentre quelle sotto i trenta
campavano col sussidio oppure con l'indennità di disoccupazione.
Ma questo non era comunque un buon motivo per non salutarsi gentilmente.
I due giovani non avevano ancora granché, e ancora non
erano niente. Ma questo era solo un vantaggio, perché significava
che le banche, e le carte di credito, e le casse di risparmio,
e le grandi aziende ancora non si interessavano a loro, e quindi
non riuscivano nemmeno a rovinare niente. Non c'era nessuno a
cui dovessero qualcosa, e quando non si deve niente a nessuno
non c'è bisogno di inventarsi delle tattiche se si ha a
che fare con gente potente, oppure semplicemente più altolocata
di noi. Se una banca li chiamava era perché aveva una proposta
per loro, e non perché loro ne avevano una per la banca.
Stesso concetto valeva per il loro lavoro, perché tutti
e due lavoravano - lavori interinali e mal pagati, s'intende,
ma in ogni caso non avevano ancora accumulato quella smodata asprezza
di carattere che normalmente caratterizza chi ha una posizione
stabile nel mercato del lavoro. Erano soddisfatti, grosso modo,
della casa di cura e dell'asilo nido in cui lavoravano. Non si
vergognavano di quello che facevano. Ma nemmeno avevano paura
di perderlo. Era una situazione aperta. Nulla di cui avere paura.
Non pensavano nemmeno in termini di "livelli". Non c'erano
ambizioni o aspirazioni di carriera, e quindi nemmeno tattiche
o intrighi. Non ancora. C'erano solo loro due. E il loro rapporto.
O
almeno...
Passeggiava per Ny Carlsbergvej e poi giù di traverso per
il piazzale appena risanato attaccato a Enghave Plads, dove degli
anziani si erano seduti con delle buste piene di bottiglie di
birra. Erano già piuttosto brilli, ma quando quelli gli
gridarono appresso lui rispose amichevolmente - e poi si affrettò
oltre imboccando una traversa per fermarsi davanti alla vecchia
casa in cui abitava Lisbeth, stando bene attento a non sporcarsi
la camicia nuova di vernice, perché la facciata era stata
appena ridipinta, visto che una cooperativa edilizia era in piena
opera di ristrutturazione e abbellimento. Si fermò ad ammirare
il lavoro, e poi andò sul retro, verso il cortile interno
in cui sorgeva la prossima casa che la cooperativa avrebbe provveduto
a restaurare.
Lei lo vide dalla finestra e corse giù per le scale per
andare ad accoglierlo, e rimasero a lungo lì, sulla vecchia
scala dipinta di vernice marrone dove tante persone avevano camminato
negli anni, stringendosi l'uno all'altra - perché tenersi
alla ringhiera era pericoloso - con lei che lo baciava appassionatamente.
Poi si sbrigarono a entrare nell'appartamento, e come per un inderogabile
accordo si misero a fare la cosa più saggia che si possa
fare a quell'età.
"Huuuh" ansimò lui quando finalmente, un paio
d'ore dopo, ebbero finito. Le lenzuola erano belle sudate perché
si era nel pieno dell'estate, un periodo in cui si suda al minimo
gesto. Ed erano ancora relativamente poco abituati l'uno all'altra,
per cui comunque un po' di tempo gli ci voleva. Ce la mettevano
tutta per farlo bene, perché era una cosa nuova e non avevano
ancora trovato una loro routine da seguire. Per questo ci volle
un po' di tempo prima che ritoccassero terra.
Guardò
la camera da letto e la sua scarsa mobilia. Un tappeto persiano,
una piccola scrivania e, nell'angolo, un gigantesco guardaroba
marrone di mogano che le era stato regalato dalla nonna quando
questa aveva appreso orripilata che la sua nipotina, a soli 18
anni, voleva lasciare la provincia per trasferirsi fino a Copenaghen...
Accanto c'era una grossa pianta di banano, e sul davanzale della
finestra un vaso di porcellana con dei tulipani che suscitarono
nel giovane sentimenti d'inquietudine, perché non era lui
ad averli portati.
O forse fu proprio la vista dei tulipani che gli fece chiedere:
"E lui poi come l'ha presa?".
Lisbeth
sussultò. Prima provò a sorridere e a limitarsi
a baciarlo. Ma poiché lui non reagiva al bacio fu costretta
a rispondere, e disse controvoglia: "Ancora non gliel'ho
detto...".
E
con questo l'idillio fu distrutto. Lui si rattristò, era
come un libro aperto e Lisbeth vide immediatamente quanto l'avesse
presa male. Henrik provò a mettere su una faccia imperscrutabile
da giocatore di poker, ma senza ottenere il minimo effetto, e
poi gli venne quasi l'idea fissa che Lisbeth si stesse divertendo
alle sue spalle, perché sentiva come di avere un aspetto
strano. E questo peggiorò le cose, e lo fece chiudere ancora
di più in se stesso. Completamente.
Per tre volte non rispose alle domande di lei, che si trovò
costantemente di fronte l'espressione arcigna e profondamente
infelice della sua faccia, e si rese conto che la storia con l'altro,
una roba da poco e giù praticamente conclusa, stava rapidamente
diventando un problema. Anche se non era mai stata una vera e
propria storia di sesso. Più che altro un divertimento.
Un gioco. Senza vera intenzione. Così casuale. Così
superficiale e tanto meno una storia seria rispetto a quella che
aveva con Henrik.
Ma non poteva non vederlo: lui era infelice che più non
si poteva, e la sua reazione l'aveva contagiata, per cui ora era
orribilmente triste anche lei. Si affrettò a spostarsi
verso il lato del tavolo al quale era seduto Henrik e provò
ad abbracciarlo, come per spiegare che in fondo, in via di principio,
che l'altro sapesse o no come stavano le cose era lo stesso. Non
poteva, nemmeno per un secondo, avere dubbi su chi lei amasse
veramente. Non era colpa di Henrik se la cosa era tanto difficile
da lasciare alle spalle.
Ma in quel momento si sentirono dei passi per le scale, e tutti
e due impallidirono. Lei, perché temeva un confronto diretto
fra i due, e lui perché quella cosa, quindi, non era affatto
una faccenda ormai svanita. Anzi, addirittura lui veniva qui a
casa.
"Sbrigati" sussurrò lei "vatti a nascondere!".
Fu percorso da un sussulto, una paura speciale gli si insinuò
dentro, come una sensazione che le cose stavano prendendo una
piega orrenda.
"Che vuoi dire?" gli riuscì di balbettare, ma
lei lo spinse verso l'armadio, e lui pensò dapprima che
non poteva essere vero, ma quando poi lei spalancò le due
grandi ante ad altezza d'uomo Henrik chiese: "Non farai mica
sul serio?".
Sì che faceva sul serio, e gli chiuse lo sportello sulla
faccia. Da dentro provenne una debole protesta, ma lei fece finta
di non aver sentito, si affrettò verso la porta e la aprì
ancor prima che quella creatura mostruosa fosse riuscita a bussare.
"Ciao" disse la creatura, con un'insicurezza sublimata
fino a diventare paternalistica condiscendenza, "non vedevo
l'ora di incontrarti...".
La creatura entrò come fosse di casa, si guardò
intorno nel piccolo appartamento e sorrise. Era un sorriso di
condiscendenza, tanto spaventoso e tanto largo da crepargli la
faccia, mentre gli occhi rimanevano freddi, senza partecipare
affatto all'espressione del volto. In qualche modo era come se
la creatura venisse da un altro mondo, perché non era mai
veramente presente, ed era come se mantenesse la distanza, guardando
le cose dall'alto in basso, con quell'incrollabile convinzione
della propria eccellenza che facilmente nasce in chi lavora per
troppo tempo all'università. Allo stesso tempo la creatura
irradiava una perfidia da far spavento, perché si basava
sulla malvagia convinzione della inferiorità intellettuale
di tutti quelli che non avessero almeno il dottorato - una convinzione
che gli ci erano voluti molti anni per raggiungere, e che se contestata
poteva portare a terribili conseguenze.
Era alto e scuro. Ed era ancora giovane, o qualcosa che ci assomigliava,
perché anche se ci si avvicina ai cinquanta si è
comunque ancora nei quaranta. Lui poi faceva sforzi colossali
per andare vestito in modo che, praticamente, si potesse quasi
dire che aveva trent'anni. E per niente al mondo voleva sembrare
quello che era, e cioè un professore. L'espressione beffarda
non scomparve dalla sua faccia nemmeno per un momento. E, se possibile,
fece un sorriso ancora più ampio quando Lisbeth mobilitò
tutto il proprio coraggio e spiegò esitante che quella
visita non rientrava nei programmi.
Lei
fece ogni sforzo per spiegarglielo in modo gentile, ma insomma:
o lui era proprio freddo e indifferente, oppure nella arrogante
sopravvalutazione di se stesso s'era fatto l'idea che fosse semplicemente
uno di quei giorni in cui le donne hanno una scusa biologica per
essere strane. In ogni caso la sua risposta fu uno spaventoso:
"Be', va bene, ma allora vediamoci un'altra volta!".
Insomma, il contenuto di quello che lei diceva non gli provocava
la minima reazione. E a questa tecnica Lisbeth non era mai stata
sottoposta prima. Il che la confondeva. Doveva essere qualcosa
nel suo tono di voce, nella sua maniera di presentarsi li, qualcosa
di legato all'autorità, che le ritornava in mente dopo
tanti anni. Che la faceva cedere. Senza contraddirlo.
Poi lui se ne andò.
Lei
rimase per un attimo nell'ingresso a riflettere.
Aveva una strana sensazione. Le pareva quasi di aver mangiato
un cibo avariato, perché all'improvviso vedeva chiaramente
che lui era disgustoso - vecchio e trasandato, come se non si
fosse ancora del tutto lasciato alle spalle l'antiestetica degli
anni Settanta. E che la spaventava. Poi aveva paura di cosa sarebbe
successo ora - e nel bel mezzo dell'ansia per quale sarebbe stata
la reazione di Henrik affiorava anche il rimorso perché,
già dopo il primo semestre, s'era messa a trescare con
uno del corpo docente. Cosa di cui peraltro non è che avesse
davvero una gran voglia.
Stava proprio per chiamare Henrik quando successe la peggiore
cosa pensabile. Lui con uno schianto schizzò fuori dall'armadio
e volò giù per le scale sfiorandola, in piena corsa
e con gli occhi in lacrime. Per riprenderlo dovette mettersi a
correre, e per calmarlo di nuovo dovette dispensare una quantità
di ragioni e tanti abbracci. E anche se alla fine lui acconsentì
a tornare dentro da lei, il resto della giornata fu notevolmente
meno allegro di quanto avevano sperato.
Ovviamente continuarono a vedersi. Henrik parve dimenticare in
fretta, e quando Lisbeth cominciò a declinare gli inviti
del professore in modo più che deciso, quello cominciò
a telefonare sempre meno, e lei credette che alla lunga avesse
capito l'antifona, che si fosse arreso, e di essersene ormai liberata.
Ma si sbagliava. Non era così che stavano le cose. Era
solo andato in ferie. Prima a Parigi, con la moglie. E poi era
andato a una conferenza negli Stati Uniti. Al ritorno si sentì
ringiovanito, e tutto cominciò da capo. Il martedì
sera telefonò e parlò di sé per più
di un'ora, promettendo di portarla in autunno a un seminario in
Germania; e poi la invitò al ristorante per il venerdì
successivo, e Henrik dovette starsene seduto e zitto, osando a
malapena respirare per paura che quello dall'altro capo del filo
potesse sentire. Poi il mercoledì sera, alle dieci, proprio
mentre stavano per andare a un concerto giù a Stengade
si sentirono dei passi per le scale, e Lisbeth impallidì.
"Nasconditi..."
sussurrò lei, e sebbene Henrik più che altro avesse
voglia di venire allo scoperto, di presentarsi e fare al tipo
una panoramica su tutte le sfaccettature della situazione, dovette
ancora una volta scattare sull'attenti. Il perché non lo
sapeva. Forse perché Lisbeth sembrava tremendamente in
ansia ogni volta che la creatura si avvicinava. Forse perché
lui stesso aveva paura e non sapeva bene come rapportarsi con
gente con più potere di lui. In ogni caso fece quello che
gli era stato detto. Si nascose nell'armadio, e mentre da dentro
osservava accuratamente il lavoro eseguito dal falegname, sentì
Lisbeth affermare che stava proprio uscendo "per andare a
trovare i genitori".
La domenica mattina, quando ancora una volta si sentì armeggiare
per le scale, e prima che Lisbeth facesse in tempo a dire una
sola parola, Henrik andò automaticamente verso l'armadio,
chiuse la porta, e si mise a osservare l'interno. Trovò
un nodo nel legno e cominciò a tormentarlo.
Giovedì
pomeriggio andò meno liscia. Henrik oppose un netto rifiuto,
sostenendo di soffrire ancora per lo shock di quando, da bambino,
i suoi lo rinchiudevano a chiave. Quindi rimase dimostrativamente
seduto al tavolo del soggiorno, preparando il discorso che voleva
fare a quel bastardo appena fosse spuntato fuori. Era bianco in
faccia dalla rabbia, il sangue nelle vene gli pulsava come un
piccolo batterista, tanto che Lisbeth ne fu spaventata a morte.
Ma era solo un'amica che "passava da quelle parti".
Ecco,
ora è tutto spiegato. Ora si potrà facilmente comprendere
la struttura fondamentale su cui si basava la relazione fra i
due giovani. Nulla è più provocatorio per l'età
matura del fatto che i giovani godano un po' di libertà.
Henrik era costretto a nascondersi nell'armadio perché
un uomo maturo e potente invadeva il suo territorio. Ogni volta
gli sembrava durasse un'eternità. Il tempo si arresta quando
si viene messi in panchina dalla persona che per noi è
tutto. Ma d'altra parte: che significano mai tre minuti in un
armadio se si spera di conquistare la felicità di un'intera
vita?
Lisbeth, poi, pativa il fatto di non riuscire a essere interamente
se stessa, perché non era capace di fare una scelta vincolante,
ed era ancora così giovane da credere che si dovesse comunque
essere cortesi, anche verso un'autorità che magari poggiava
su basi incerte.
L'innamoramento
c'era ancora. Credevano ancora di amarsi. E forse era anche vero.
Continuarono a vedersi. Ma non c'era dubbio che i problemi minacciavano
di allontanarli l'uno dall'altra, perché spesso la situazione
si presentava così nera che nessuno dei due scorgeva una
via d'uscita.
In
un piovoso martedì 15 ottobre si svolse l'ultima scena
di questa assurda e ingiusta esibizione circense. Il vecchio non
era per niente scemo - anzi. Molte cose in lui erano state mozzate
e amputate, ma era stato il cervello a farlo, il suo cervello.
Era il cervello che comandavatutto, e funzionava in modo superlativo,
sempre. Ovviamente sentiva che qualcosa non andava, e ovviamente
era in grado di avvertire la presenza di una terza persona in
un piccolo appartamento di due stanze. Bisogna essere ciechi e
sordi per non accorgersene. E se si è allenati nel dare
valore anche a minime distinzioni e variazioni, quando l'appartamento
appartiene a una ragazza che al massimo fuma tre Prince Light
alla settimana ci si mette poco a scoprire che il portacenere
è pieno di sigarette senza filtro.
Salutò gentilmente, ma poi andò direttamente verso
la camera da letto. Perché aveva calcolato tutto. Non si
tolse nemmeno il soprabito, per cui sparse piccole gocce di pioggia
su tutto il pavimento appena lavato. Emanava la convinzione di
aver subìto un oltraggio senza pari, che a tratti si ripercuoteva
in una perdita di controllo sulla propria mimica facciale.
"È semplicemente incredibile"" urlò
con ira biblica, profondamente sentita "mi stai prendendo
per scemo...".
"E che c'è di incredibile in questo?" rispose
Lisbeth, alla quale il panico dava nuovo coraggio, per cui riusciva
a essere insolente e a rispondere a tono. L'uomo, per quanto pieno
di sé, dovette frenare lo slancio, perché non riusciva
a credere che a comportarsi così fosse proprio lei. Lisbeth.
La sua Lisbeth.
"Che c'è di incredibile?" urlò lui quando
finalmente si fu ripreso dal fatto di avere incontrato della resistenza
"mi chiedi che cosa c'è di incredibile in questo?".
Fece tre passi avanti, la afferrò per il colletto e cominciò
a scuoterla. Era talmente incollerito che fremeva.
"La cosa incredibile" balbettò "è
che tu menti, che menti apertamente, che menti...".
Era talmente su di giri che avrebbe potuto continuare a scuoterla
per il resto dei suoi giorni, ma poi il super-io riprese il controllo
e gli ordinò di punire Lisbeth in maniera ben più
elegante. Mollò la presa e andò verso l'armadio.
Le lanciò uno sguardo cattivo, e poi prese a tempestare
l'anta coi pugni. Bam-bam-bam. Batteva colpi ritmati e rapidi,
in modo minaccioso, provando deliberatamente a spaventare la persona
che sapeva essere là dentro. Era infuriato.
Lisbeth
in compenso non aveva più paura. Tutto era perduto. Lo
guardava come fosse un oggetto, senza tradire nemmeno la minima
emozione. E questo lo faceva uscire di testa perché lui,
visto che ormai era inevitabilmente tutto finito, era venuto per
ferirla. Era venuto per provocare una reazione. Per vederla piangere.
Per non essere soltanto costretto a stringersi nelle spalle e
ad accettare stoicamente l'approssimarsi della vecchiaia, e il
fatto che le capacità lo abbandonavano mentre il desiderio
era lo stesso. Non riusciva a sopportarlo. Proprio no. Che lei
lo lasciasse per uno più giovane era una cosa. Altra cosa
era che lei costruisse delle piccole messe in scena in cui il
suo vero amante, da dentro il guardaroba, poteva assistere a tutto
ciò che lui diceva e faceva. Già, era qui che stava
la differenza: nel fatto che il nuovo amante di lei, il suo successore,
lo potesse spiare - e divertirsi.
Quindi fece un respiro profondo, tese i muscoli e spalancò
l'anta del guardaroba.
L'anta
fece un gran tonfo picchiando sul muro, e Lisbeth istintivamente
si ritrasse. Ci aveva messo tutta la forza, per cui mancò
poco che l'armadio gli crollasse in testa, facendo un chiasso
infernale e un gran disordine sul pavimento, perché dal
guardaroba volò fuori una gran quantità di panni
e di indumenti. Ma nemmeno un essere vivente. Il guardaroba conteneva
esattamente quello che contengono normalmente i guardaroba. Ma
quanto a persone vive e vegete niente.
Nulla.
Si
girò verso Lisbeth con infinita lentezza - con un'espressione
inebetita, perché non aveva la benché minima idea
di cosa stesse succedendo. Adesso veramente si sentiva perduto.
Si sentì ferito e trafitto da un gran dolore, perché
Lisbeth cominciò a ridacchiare come una scolaretta.
"Scusa" le disse, lambiccandosi il cervello, senza capire
un'acca di quello che succedeva. Per un momento gli parve che
anche Lisbeth fosse sbigottita, e questo non lo capiva minimamente.
Ma poi negli occhi di lei comparve lo scherno.
"Adesso non ti sembra di poterti togliere dai piedi?"
disse Lisbeth con atteggiamento di superiorità, e con quella
crudeltà che si crede sempre di avere il diritto di mostrare
a chi è profondamente innamorato di noi.
E poi successe qualcosa di strano. Lui cominciò a tremare.
Prima piano, e poi con più forza, per cui alla fine vibrava
come un budino nelle mani di un cameriere con il morbo di Parkinson.
Gli uscivano delle nuvolette dalla bocca ed emetteva strane sostanze.
"Oddio che schifo!" proruppe Lisbeth, e d'un tratto
tutta la sua ansia e meraviglia si convertirono in rabbia accanita.
Prese il primo oggetto che le capitò per le mani e con
un lungo manico di scopa cominciò a spingere via quell'ectoplasma
tremebondo e fumigante che aveva davanti. Che, caso alquanto strano,
non reagiva, né si proteggeva. Infatti ogni volta che lei
lo colpiva quello arretrava e si rimpiccioliva. E continuava a
emettere sostanze, cosa che la fece così arrabbiare così
tanto che trovò il coraggio di portare nuovi e più
violenti assalti.
Tutto le accadeva davanti agli occhi, ed era assolutamente inconsueto.
Sono sicuro che se fosse successo a me mi sarebbe venuto un infarto
per lo spavento. Ma Lisbeth no. Era furiosa, e forse ciò
le dava il coraggio e la forza di sopravvivere a questa assurda
esperienza. Non le passò minimamente per la testa di trovarsi
di fronte a eventi che andavano di gran lunga oltre la normalità
delle cose. Anzi. Non ne era colpita, per niente. Brandiva lo
scopettone come una lottatrice di kendo al quinto clan, e nel
frattempo gliene diceva di tutti i colori senza fermarsi mai un
momento, usando parolacce così brutte che se ne sarebbero
vergognate persino le puttane di Halmtorvet, e il fantasma intanto
diventava sempre più piccolo e debole, finché alla
fine non lo ebbe cacciato fuori dall'appartamento, e giù
per le scale, e via per tutto il cortile interno fino alla strada,
dove gli diede un'ultima legnata, tanto forte che scomparve del
tutto.
Tornò nell'appartamento e controllò che la creatura
fosse davvero sparita. E lo era. Non ne rimaneva che un po' di
liquidi vischiosi e una copia consunta di un'antologia sulla scuola
di Francoforte che il libidinoso professore un tempo aveva curato.
Raccolse il libretto e vide che c'erano scritte delle ordinatissime
note a margine. Questo fatto la rese così sospettosa che
andò verso la finestra pronunciando qualche altra espressione
ingiuriosa, come se ormai potesse servire ad alcunché.
Dopodiché aprì la finestra e gettò il libro
più lontano possibile.
Solo allora fu sicura di essere nuovamente una persona libera,
e che non c'erano più poteri molesti in grado di irrompere
nella sua vita e arrecare disturbo. Rientrò in camera da
letto, rise sollevata e gridò: "Vuoi uscire fuori
adesso?" e cominciò a cercare in bagno, e in cucina,
ancora sbigottita che Henrik fosse riuscito a nascondersi a quel
fantasma malvagio e mostruoso.
Cercò
in giro per tutto il piccolo appartamento. E, ancora una volta,
nell'armadio. E poi per la scala di servizio. E l'ansia s'insinuò
lentamente dentro di lei, e cominciò a tremare, perché
metti che senza volere aveva scacciato via anche Henrik?
Ma
invece no. Ed è proprio questo il punto: Henrik c'era ancora,
in carne e ossa. È che s'era nascosto sotto il letto.
(Tratto
dalla raccolta di racconti Radiator - dieci storie a Copenaghen,
Edizioni Pendragon, Bologna, 2003. Traduzione di Paolo Borioni)
Jan Sonnergaard
.
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