NIENTE
DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
(
- Cinque brani scelti dal romanzo - )
Erich
Maria Remarque
(...) Kantorek era il nostro professore: un ometto severo,
vestito di grigio, con un muso da topo. Aveva press'a poco la
stessa statura del sottufficiale Himmelstoss, “il terrore
di Klosterberg”. Del resto è strano che l'infelicità del
mondo derivi tanto spesso dalle persone piccole, di solito assai
più energiche e intrattabili delle grandi. Mi sono sempre
guardato dal capitare in reparti che avessero dei comandanti
piccoli: generalmente sono dei pignoli maledetti.
Nelle ore di ginnastica Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi,
finché finimmo col recarci sotto la sua guida, tutta la
classe indrappellata, al Comando di presidio, ad arruolarci come
volontari. Lo vedo ancora davanti a me, quando ci fulminava attraverso
i suoi occhiali e ci domandava con voce commossa: “Venite
anche voi, nevvero, camerati?”.
Codesti educatori tengono spesso il loro sentimento nel taschino
del panciotto, pronti a distribuirne un po' ora per ora. Ma allora
noi non ci si dava pensiero di certe cose.
Ce n'era uno, però, che esitava, non se la sentiva. Si
chiamava Giuseppe Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo. Si
lasciò finalmente persuadere anche lui, perché altrimenti
si sarebbe reso impossibile. Può darsi che parecchi altri
la pensassero allo stesso modo; ma nessuno poté tirarsi
fuori; a quell'epoca persino i genitori avevano la parola “vigliacco” a
portata di mano. Gli è che la gente non aveva la più lontana
idea di ciò che stava per accadere. In fondo i soli veramente
ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito
la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano
dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto rendersi
conto delle conseguenze.
Katzinski sostiene che ciò proviene dalla educazione,
la quale rende idioti; e quando Kat dice una cosa, ci ha pensato
su molto.
Per uno strano caso, fu proprio Behm uno dei primi a cadere.
Durante un assalto fu colpito agli occhi, e lo lasciammo per
morto. Portarlo con noi non si poteva, perché dovemmo
ritirarci di premura. Solo nel pomeriggio lo udimmo a un tratto
gridare, e lo vedemmo fuori, che si trascinava carponi; aveva
soltanto perduto coscienza. Poiché non ci vedeva, ed era
pazzo dal dolore, non cercava affatto di coprirsi, sicché venne
abbattuto a fucilate, prima che alcuno di noi potesse avvicinarsi
a prenderlo.
Naturalmente non si può far carico di questo a Kantorek:
che sarebbe del mondo, se già questo si dovesse chiamare
una colpa? Di Kantorek ve n'erano migliaia, convinti tutti di
far per il meglio nel modo ad essi più comodo.
Ma qui appunto sta il loro fallimento.
Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide
all'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere,
alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. Noi li prendevamo
in giro e talvolta facevamo loro dei piccoli scherzi, ma in fondo
credevamo a ciò che ci dicevano. Al concetto dell'autorità di
cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggior
prudenza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo
mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere
che la nostra età era più onesta della loro; essi
ci sorpassavano soltanto nelle frasi e nell'astuzia. Il primo
fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro
ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano
insegnata.
Mentre essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo
gli ospedali e i moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza
del servire lo Stato, noi sapevamo già che il terrore
della morte è più forte. Non per ciò diventammo
ribelli, disertori, vigliacchi – espressioni tutte ch'essi
maneggiavano con tanta facilità; – noi amavamo la
patria quanto loro, e ad ogni attacco avanzavamo con coraggio;
ma ormai sapevamo distinguere, avevamo ad un tratto imparato
a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del loro mondo non
sopravviveva più nulla. Improvvisamente, spaventevolmente,
ci sentimmo soli, e da soli dovevamo sbrigarcela.
Prima di andare a trovar Kemmerich, facciamo un pacco della
sua roba; ne avrà bisogno nel tornare a casa.
All'ospedale da campo c'è gran da fare. Puzza, come sempre,
di creolina, di pus e di sudore. La vita di baraccamento abitua
a tante cose, ma qui è facile che uno si senta venir meno.
Cerchiamo di rintracciare Kemmerich; è coricato in una
sala e ci riceve con una fioca espressione di gioia e di impotente
agitazione. Mentre era svenuto, gli hanno rubato l'orologio.
Müller scuote la testa: “ Te l'ho sempre detto, un
orologio di quel valore non si porta addosso ”.
Müller è un po' balordo, e vuoi sempre avere ragione.
Altrimenti starebbe zitto, poiché si vede bene che Kemmerich
non uscirà più vivo da questa sala. E dunque, che
trovi o no il suo orologio, che cosa importa? Tutt'al più si
potrà mandarlo, dopo, alla famiglia.
“
Come va, Cecco?” domanda Kropp. Kemmerich reclina il capo: “Così,
così ma mi duole maledettamente il piede”. Guardiamo
la sua coperta. Ha la gamba sotto un archetto di ferro, e sopra
si stende greve la coltre. Do una pedata di nascosto a Müller,
perché sarebbe capace di dire a Kemmerich ciò che
gli infermieri fuori ci hanno raccontato: che il piede non c'è più,
perché la gamba è amputata.
Ha un brutto aspetto, giallo e livido; sul viso si profilano
già le strane linee che conosciamo tanto bene per averle
osservate centinaia di volte. Non sono nemmeno linee, ma piuttosto
segni. Sotto la pelle la vita non pulsa più, respinta
fino ai margini del corpo; la morte si fa strada dall'interno,
e domina già gli occhi. Eccolo là, il nostro compagno
Kemmerich, che poc'anzi cucinava con noi carne di cavallo e gironzolava
per le trincee; è ancora lui, eppure non è già più lui,
la sua figura si è sfumata, è diventata incerta
come una lastra su cui si siano prese due vedute. Persino la
sua voce suona spenta come cenere.
Il mio pensiero ritorna al giorno della partenza. Sua madre,
una buona grassona, lo accompagnò alla stazione; piangeva
senza requie, ne aveva il volto tutto gonfio; Kemmerich ne era
imbarazzato, perché fra tutte era quella che meno sapeva
contenersi; si liquefaceva addirittura in grasso e in lagrime.
Per di più si era fissata sopra di me, ogni momento mi
afferrava il braccio, supplicandomi di aver cura laggiù del
suo Cecchino. Bisogna dire che lui aveva proprio una faccia da
bambino, e ossa così tenere che dopo quattro settimane
di zaino già aveva i piedi piatti. Ma come si fa ad aver
cura di qualcuno, in trincea!
“
Ora te n'andrai a casa” dice Kropp: “per la licenza
avresti dovuto aspettare ancora tre o quattro mesi”. Kemmerich
fa cenno di sì, col capo. Non posso guardare le sue mani,
sembrano di cera. Sotto le unghie lo sporco della trincea prende
una tinta nero-bluastra, come un veleno. Mi viene in mente che
queste unghie continueranno a crescere come spettrali fungosità sotterranee,
un pezzo ancora dopo che Kemmerich avrà cessato di respirare.
Vedo la cosa come se l'avessi davanti agli occhi: le unghie si
torcono a guisa di cavaturaccioli, e crescono e crescono, e con
esse i capelli del cranio putrefatto, come l'erba su buona terra:
chi sa come...
Müller si china: “Ti abbiamo portato la tua roba,
Cecco”.
Kemmerich fa un cenno con la mano: “Mettetela sotto il
letto”.
Müller eseguisce; Kemmerich riattacca con l'orologio; come
rassicurarlo senza metterlo in sospetto?
Müller ripesca sotto il letto un paio di stivali d'aviatore;
magnifiche calzature inglesi, di fine cuoio, che giungono sino
al ginocchio e vi si allacciano: un oggetto molto ambito. Müller
si entusiasma a vederli, li confronta coi propri scarponi così grossi
e goffi, e domanda: “Vuoi portarli con te, Cecco?”.
Tutt'e tre abbiamo lo stesso pensiero: anche se guarisse non
potrebbe adoperarne che uno, quindi non hanno per lui nessun
valore. Nella condizione in cui si trova, è un gran peccato
lasciarli qui; lui morto, i soldati di sanità li faranno
naturalmente subito passare in cavalleria. E Müller torna
alla carica: “Non vuoi lasciarli qui?”.
Kemmerich non vuole: sono la sua cosa migliore.
“
Si potrebbe fare un cambi ” insiste Müller: “qui
fuori questa roba serve”. Ma Kemmerich non si lascia smuovere.
Io schiaccio un piede a Müller, che, esitante, ripone i
bei stivali sotto il letto.
Parliamo ancora un poco e poi lo salutiamo: “In gamba,
Cecco”.
Gli prometto di ritornare l'indomani: anche Müller parla
di tornare; pensa agli stivali e vuoi montarci la guardia.
Kemmerich ha il respiro greve per la febbre. Fuori fermiamo un
infermiere, e cerchiamo di persuaderlo a fargli un'iniezione.
Ma quello rifiuta: “Se dovessimo dar la morfina a tutti,
non basterebbero dei barili”.
“
Si vede che non servi che gli ufficiali” osserva Kropp
iroso.
Mi interpongo prontamente e comincio coll'offrire al pappino
una sigaretta, che egli accetta; allora gli domando: “Ma
tu sei poi autorizzato a far iniezioni?”.
Offeso, replica: “Se non lo credete, che cosa venite a
domandarmi...”
Gli metto in mano un altro paio di sigarette: “Ascolta,
facci questo piacere...”. “Va bene ” dice lui;
Kropp torna dentro insieme, perché non si fida, e vuoi
vedere. Noi aspettiamo fuori.
Müller mi attacca un altro bottone con quei benedetti stivali: “Mi
andrebbero a pennello. Con queste barche che porto ai piedi,
a ogni marcia sono vesciche. Credi che la duri fino a domani,
all'ora della libera uscita? Se muore nella notte, i suoi stivali
li vediamo col binocolo”.
Alberto ritorna: “Credete...?” domanda.
“
Non ne parliamo più” conclude Müller.
Ritorniamo alle baracche. Penso alla lettera che dovrò scrivere
domani alla madre di Kemmerich. Ho freddo, vorrei bere un cicchetto.
Müller strappa fili d'erba e li mastica. A un tratto, il
piccolo Kropp getta via la sigaretta, vi pesta su i piedi furiosamente,
gira intorno gli occhi stralunati, il viso sfatto, e mugola: “Che
schifo! Che porco maledetto schifo!”.
Noi seguitiamo a camminare a lungo il silenzio. Kropp si è calmato:
sappiamo bene di che cosa si tratta: è la rabbia della
trincea; ognuno ci casca, almeno una volta.
Müller gli domanda: “Kantorek che cosa ti ha scritto ”.
Egli ride: “Che noi siamo la gioventù di ferro”.
Ridiamo tutti e tre, amaramente, Kropp impreca, lieto di potersi
sfogare.
Già, la pensano così; così la pensano i
centomila Kantorek! Gioventù di ferro. Gioventù!
Nessuno di noi ha più di vent'anni. Ma giovani? La nostra
gioventù se n'è andata da un pezzo. Noi siamo gente
vecchia.
(...) Eccomi seduto al capezzale di Kemmerich; è sempre
più giù, poveretto. Intorno a noi c'è molta
confusione. È arrivato un convoglio di feriti, si stanno
scegliendo i trasportabili. Il medico passa davanti al letto
di Kemmerich, ma non si ferma neppure a guardarlo.
“
Sarà per la prossima volta, Cecco” gli dico. Egli
si solleva un po' sui gomiti: “Sai, mi hanno amputato”.
Dunque ora lo sa. Io gli accenno di sì, col capo, e soggiungo: “Sii
contento di essertela cavata così”. Ma lui tace.
Io continuo: “Potevano esser tutt'e due le gambe, Cecco.
Wegeler ha perduto il braccio destro: è molto peggio.
Così te ne vai a casa”.
Mi guarda in faccia: “Credi?”.
“ Ma naturale.”
E lui di nuovo: “Credi?”.
“ Ma certo, Cecco. Non hai bisogno che di rimetterti un poco dall'operazione.”
Mi fa cenno di avvicinarmi. Mi chino sopra di lui, e lo sento
mormorare: “Io non lo credo”.
“Non dir sciocchezze, Cecco; te ne convincerai tu stesso, fra qualche giorno.
Che cos'è poi, una gamba amputata? Qui si aggiustano ben altri guai.”
Egli solleva una mano: “Guarda un po' queste dita”.
“
Effetto dell'operazione. Devi mangiare, vedrai che ti rimetti subito. Il vitto è buono,
almeno?”
Mi indica una scodella, ancora mezza piena. Io faccio finta d'arrabbiarmi: “Cecco,
devi mangiare. Mangiare è la cosa principale. Il vitto è ottimo,
qui”.
Ma lui rifiuta, e dopo una pausa dice lentamente: “Volevo diventare ispettore
forestale, una volta”.
“
Puoi esserlo ancora” lo consolo io. “Si fanno oggi delle protesi
straordinarie, non ti accorgi neppure che ti manca qualche cosa. Attaccano l'arto
artificiale ai muscoli direttamente. Nella protesi delle mani si possono persino
muovere le dita, lavorare, magari scrivere. E poi ne inventeranno ancora...”
Egli rimane un pezzo in silenzio, poi dice: “Puoi portare a Müller
i miei stivali”.
Accenno di sì, e penso che cosa potrei dire ancora per rianimarlo un poco.
Le sue labbra sono slavate, la bocca è diventata più grande, i
denti sporgono in fuori, come di gesso. La carne se ne va, la fronte sembra più ampia,
gli zigomi si disegnano più forti. Lo scheletro affiora a poco a poco,
gli occhi si infossano. Fra un paio d'ore sarà finita.
Non è il primo che vedo in questo stato. Ma siamo cresciuti insieme, e
ciò conta pure qualcosa. Ho copiato i suoi cómpiti: a scuola portava
quasi sempre un abito scuro, a cintura, logorato ai gomiti. Era il solo fra noi
che sapesse fare il salto mortale alla sbarra fissa; quando lo eseguiva, i capelli,
che aveva come di seta, gli volavano sul viso: Kantorek perciò ne andava
fiero. Ma non poteva sopportare la sigaretta: aveva la pelle bianchissima, e
qualche cosa di femmineo in tutta la persona.
Mi guardo gli scarponi, grandi e goffi, in cui entrano con grosse pieghe i pantaloni;
in quei tubi si ha l'aspetto forte e robusto: ma quando al bagno ci spogliamo,
riveliamo ad un tratto la gracilità delle gambe e delle spalle. Allora
non siamo più soldati, ma quasi ancora fanciulli; nessuno ci crederebbe
capaci di portare lo zaino. È un curioso momento, quando siamo nudi; ritorniamo
borghesi e per un istante ci par quasi di esserlo.
Francesco Kemmerich al bagno pareva piccolo e sottile, come un fanciullo. Ora è lì,
disteso; perché poi? Vorrei far sfilare tutto il mondo davanti a questo
letto, e dire: “Questi è Franz Kemmerich, diciannove anni e mezzo;
non vuoi morire. Non lasciatelo morire!”.
Le idee mi si confondono. Quest'aria che puzza di creolina e di bruciato ingorga
i polmoni, è un'aria pigra e densa, che soffoca.
Si fa buio. Il volto di Kemmerich si sbianca, spicca sui cuscini con tale pallore
che pare risplenda. La bocca si muove adagio. Mi avvicino e lo sento mormorare: “Se
trovate il mio orologio, mandatelo a casa”.
Non contraddico più: non c'è più scopo. Persuaderlo ormai è impossibile.
La mia impotenza mi affligge; quella fronte dalle tempie incavate, quella bocca
tutta denti, quel naso sottile! E la povera grassona che piange a casa, a cui
bisognerà pure scrivere: almeno avessi già spedito la lettera!
Infermieri vanno e vengono intorno, con boccette e con secchie. Uno si avvicina,
getta uno sguardo a Kemmerich e si allontana; probabilmente aspetta, avrebbe
bisogno di utilizzare quel letto.
Io mi stringo al mio povero Cecco e parlo, come se con ciò lo potessi
salvare: “Forse andrai al convalescenziario sul Klosterberg, Franz, sai,
in mezzo ai villini. Dalla finestra allora puoi vedere tutta la campagna, fino
ai due alberi all'orizzonte. E la stagione più bella ora, quando il grano
matura; verso sera, sotto il sole, i campi sembrano di madreperla. E il viale
dei pioppi lungo il fiume, dove andavamo a pescare, ricordi? Potrai di nuovo
farti un acquario, e allevare i pesci, potrai uscire senza domandare permesso
a nessuno, e perfino suonare il pianoforte, se vuoi”.
Mi chino sul suo volto, ora tutto in ombra. Respira ancora, piano. Ha la faccia
bagnata, piange. Bel lavoro che ho combinato, con le mie stupide ciarle!
“
Ma Cecco!” Gli abbraccio le spalle e metto la mia testa accanto alla sua. “Vuoi
dormire, ora?”
Non risponde: le lagrime gli colano sulle guance. Vorrei asciugarle, ma il mio
fazzoletto è troppo sporco.
Passa un'ora; sospeso al suo volto ne spio ogni espressione, se per caso volesse
dire ancora qualcosa. Oh se aprisse quella bocca, a gridare! Ma no, non fa che
piangere, con la testa piegata da un lato. Non parla della sua mamma, dei fratelli,
non dice nulla; ha lasciato già dietro di sé tutto ciò:
oramai è solo, solo con la sua piccola vita di diciannove anni; e piange
perché essa lo abbandona.
Questo è il più disperato e più grave congedo a cui abbia
assistito: quantunque sia stato terribile anche per Tiedjen; un colosso, forte
come un orso, che urlava invocando la madre e terrorizzato, gli occhi stravolti,
con una baionetta teneva lontano il medico, finché si accasciò all'improvviso.
Ed ecco che Kemmerich comincia a rantolare. Salto in piedi, brancolo fuori della
sala, chiamando:
“
Dov'è il medico? Dov'è il medico?”. Quando vedo la tunica
bianca lo afferro: “Venga presto, Franz Kemmerich muore”.
Lui si libera con uno' strattone e domanda all'infermiere che gli sta accanto: “Che
cosa dice?”.
Quello risponde: “Letto 26; amputazione del femore”.
“
Che diamine volete che ci faccia” m'investe: “ho amputato cinque
gambe oggi”; mi spinge da parte, dice all'infermiere: “Guardate un
po' voi” e corre alla sala operatoria.
Io fremo di rabbia, mentre cammino accanto all'infermiere. Egli mi guarda in
faccia e dice: “Una operazione dopo l'altra; da stamane alle cinque; roba
da pazzi, ti dico; oggi ancora sedici morti; il tuo è il diciassettesimo.
Arriveremo certamente a venti...”.
Mi sento venir meno, non ne posso più. Non ho più la forza di bestemmiare,
a che scopo? Vorrei lasciarmi cadere a terra e non rialzarmi mai più.
Eccoci al letto: Kemmerich è morto. Ha la faccia ancora umida di pianto.
Gli occhi sono semiaperti, gialli come vecchi bottoni di corno.
L'infermiere mi dà una gomitata: “Vuoi prendere la sua roba?”.
Faccio cenno di sì. Lui prosegue: “Bisogna portarlo via subito,
il letto ci occorre d'urgenza. Guarda fuori, sono distesi per terra”.
Prendo la roba, distacco a Kemmerich la piastrina di riconoscimento. L'infermiere
domanda il libretto personale: non si trova. Dev'essere rimasto in fureria, dico
io, e me ne vado. Dietro di me stanno già tirando Kemmerich su un telo
da tenda.
Fuori, l'oscurità ed il vento sono come una liberazione. Respiro a pieni
polmoni, l'aria mi alita in volto calda e dolce come non mai. Immagini di ragazze,
di praterie in fiore, di nuvole bianche mi attraversano il cervello. 1 miei piedi
si muovono sempre più presto, sempre più presto, di corsa. Passano
dei soldati, i loro discorsi mi eccitano senza ch'io capisca. La terra è percorsa
da fluidi che per le piante dei piedi si trasfondono in me. La notte è carica
d'elettricità, il brontolio del fronte sembra una lontana musica di tamburi.
Le mie membra si muovono snodate, sento i tendini agili nel moto, respiro, soffio,
mi scuoto. La notte vive, io vivo. Ho appetito, una fame grande che non viene
dallo stomaco.
Müller mi aspetta davanti alle baracche. Gli consegno gli stivali: entriamo,
li prova. Gli calzano come un guanto.
Egli fruga nelle sue provviste e mi offre un bel pezzo di salsiccia. E poi tè bollente,
e rum.
(...) L'urlo non vuole cessare: non possono essere uomini,
quelli che gridano così terribilmente.
Kat dice: “Cavalli feriti”.
Non m'è mai accaduto di udire cavalli gridare, e quasi
non ci posso credere; quella che geme laggiù è tutta
la miseria del mondo, è la povera creatura martirizzata,
un dolore selvaggio, atroce, che ci fa impallidire. Detering
si rizza: “Assassini! Assassini! Ma ammazzateli perdio!”.
Egli è agricoltore, ha confidenza coi cavalli: la cosa
lo tocca da vicino. E come a farlo apposta, il fuoco ora quasi
tace, sicché l'urlo delle bestie si leva più chiaro.
Non si sa donde possa venire, in questo paesaggio argenteo, ora
così tranquillo; è invisibile, spettrale, dappertutto,
fra la terra e il cielo, si allarga smisurato, enorme. Detering
diviene furibondo e urla: “Ma sparate, uccideteli dunque,
sacr...!”.
“
Prima devono portar via i feriti” osserva pacato Kat.
Ci alziamo e andiamo a cercare dove siano queste bestie. A vederle
sarà più sopportabile. Meyer ha con sé un
cannocchiale. Vediamo un gruppo oscuro di portaferiti con barelle,
e poi masse nere, più grosse, che si muovono. Sono quelli
i cavalli feriti. Ma non tutti: molti galoppano lontano, si abbattono
e poi riprendono a correre. Uno ha la pancia squarciata, le interiora
pendono fuori. La povera bestia vi s'impiglia con le gambe, stramazza,
si rialza. Detering imbraccia il fucile e mira. Kat lo devia,
sicché il colpo va in aria.
“
Sei matto?” Detering trema e getta a terra il fucile. Ci
accoccoliamo per terra e ci turiamo le orecchie. Ma l'orribile
lamento, quel gemere, quel pianto, penetra dovunque, e si ode
sempre.
Tutti abbiamo imparato a sopportare qualcosa: ma qui il sudore
ci imperla la fronte. Si vorrebbe alzarsi e fuggire, non importa
dove, solo per non udire più quei gridi. E dire che non
sono uomini, ma soltanto poveri cavalli.
Dal gruppo oscuro si staccano alcune barelle. Poi alcuni colpi.
Le masse nere dei cavalli esitano, si afflosciano. Finalmente!
Ma non è finita ancora. Gli uomini non riescono ad avvicinarsi
ai cavalli feriti che, terrorizzati, scorrazzano qua e là tutto,
il dolore nelle gole spalancate. Una delle figure nere mette
un ginocchio a terra; si ode un colpo: un cavallo si abbatte,
ancora uno. L'ultimo punta sulle gambe davanti, e si gira in
tondo come una giostra; si gira in cerchio con la groppa a terra;
avrà la spina dorsale fracassata. Un soldato accorre e
lo abbatte: lento, umile, scivola a terra.
Ci togliamo le mani dalle orecchie. Il gridare è cessato:
solo è nell'aria un lungo gemito, che va spegnendosi lentamente.
E poi non v'è più nulla, altro che lo squittire
dei razzi, la canzone delle granate e le stelle: e ciò sembra
persino strano.
Detering se ne va, bestemmiando: “Vorrei un po' sapere
che colpa hanno loro”. Di lì a poco si riavvicina
a noi, e con voce vibrata, quasi solenne, afferma: “Ve
lo dico io, l'infamia più grande è che si faccia
fare la guerra anche alle bestie”,
Torniamo indietro: è tempo di raggiungere gli autocarri.
Il cielo comincia a sbiancare: tre ore di mattina. Spira un venticello
fresco, l'ora smorta rende grigi i nostri volti.
In fila indiana brancoliamo avanti fra trincee e buche e torniamo
nella zona della nebbia. Katzinski è inquieto: cattivo
segno.
“
Che hai, Kat?” domanda Kropp.
“
Vorrei essere già a casa.” A casa, vale a dire alle
baracche.
“
Ormai manca poco, Kat.”
Ma lui è nervoso. “Non so, non so...”
Eccoci alle trincee d'approccio, e poi ai prati. Spunta il piccolo
bosco: qui conosciamo il terreno a palmo a palmo. Ecco il cimitero
del battaglione cacciatori, coi suoi tumuli e le sue croci nere...
Ma in questo istante si ode dietro a noi un sibilo che si gonfia,
scroscia, tuona. Ci buttiamo a terra, e cento metri davanti a
noi si leva una nuvola di fuoco.
Un minuto dopo una seconda esplosione solleva una porzione del
bosco; tre, quattro alberi sono proiettati in aria e volano in
schegge. E già fischiano altre granate, con un rumore
di caldaia a vapore: fuoco intenso.
“
Coprirsi!” grida qualcuno: “Coprirsi!”.
La prateria è piana, la foresta troppo distante e pericolosa;
non si vede altra copertura che il cimitero e i tumuli delle
tombe. Vi corriamo tastoni, nel buio, e subito ciascuno è come
incollato dietro una tomba.
Era tempo. Nell'oscurità si scatena un delirio; tutto
ondeggia e infuria. Cose nere, più nere assai della notte,
precipitano gigantesche su di noi, passano sopra di noi. Il fuoco
delle esplosioni getta sprazzi sul cimitero. Non v'è scampo
in nessuna parte; nel lampeggiare delle granate arrischio un'occhiata
alla prateria: sembra un mare in burrasca, le vampe dei colpi
saltano su come getti di fontana. Attraversare un simile inferno è impossibile.
Il boschetto scompare, calpestato, lacerato, stracciato. Dobbiamo
rimanere qui, nel cimitero.
La terra scoppia davanti a noi. Dovunque piovono zolle. Sento
uno strappo. Ho la manica lacerata da una scheggia. Stringo il
pugno: nessun dolore, Ma ciò non mi rassicura, le ferite
non dolgono che più tardi. Passo la mano sul braccio:
graffiato, ma sano. Uno schiocco al cranio, da farmi perdere
la conoscenza: ho in un lampo il pensiero: non svenire! Affondo
un momento in una pozzanghera nera, e ne emergo subito. Una scheggia
ha colpito il mio elmetto, ma veniva da così lontano che
non l'ha perforato. Mi asciugo il fango sugli occhi. Davanti
a me è spalancata una buca, che riconosco confusamente.
Le granate non ricascano facilmente nello stesso buco, perciò mi
ci posso calare. Pronto, mi allungo, stendendomi piatto sulla
terra; ma ecco un altro fischio: mi rannicchio, cerco istintivamente
di coprirmi, sento qualcosa alla mia sinistra, mi ci avvinghio,
essa cede, io gemo, la terra si apre, la pressione dell'aria
tuona nelle mie orecchie, io mi appiatto sotto la cosa che cede, è legno,
stoffa, copertura: un riparo, un miserabile riparo contro le
schegge che schioccano giù.
Apro gli occhi: le mie dita hanno avvinghiato una manica, un
braccio. Un ferito? Gli grido qualcosa; non risponde: un morto.
La mia mano afferra qualcos'altro, schegge di legname; allora
capisco: siamo coricati in un cimitero...
Ma il fuoco è più forte d'ogni altra cosa: esso
annulla le riflessioni: io mi appiatto ancora più in fondo,
sotto la bara: essa ha da proteggermi, vi sia pur dentro la morte
in persona.
La fossa sta spalancata davanti ai miei occhi, che vi si aggrappano
come se fossero mani: in un salto bisogna ch'io sia dentro. Ma
ecco qualcosa mi percuote in viso, una mano afferra la mia spalla; è il
morto che si risveglia? La mano mi scuote: io volgo la faccia,
nel bagliore di un secondo distinguo il viso di Katzinski. Ha
la bocca spalancata e urla qualcosa ch'io non arrivo a sentire:
continua a scrollarmi, si avvicina; e in un momento di minor
rumore, le sue parole mi raggiungono: “Gas! Gas! Gas! Passa
la voce!”.
Metto mano alla maschera... a qualche distanza da me qualcuno è disteso.
Non penso più ad altro: “Bisogna dirglielo. Gaas!
Gaaas! .. ”
Io grido, mi trascino vicino a lui, lo picchio coll'astuccio
della maschera, ma non sente nulla; ancora, ancora; lui non fa
che rannicchiarsi, è una recluta. Guardo disperato Kat,
che ha già messo la maschera; allora anch'io sciolgo la
mia, l'elmetto ruzzola accanto, me la metto sulla faccia, raggiungo
l'uomo, la sua maschera è a portata della mia mano: l'afferro,
gliela infilo sulla testa, lascio la presa, e di colpo mi trovo
in fondo alla fossa.
Lo schiocco sordo delle bombe a gas si mescola al fragore degli
esplosivi. Tra le esplosioni si ode l'allarme della campana,
dovunque ripetuto dai gong, dai tam-tam metallici. Gas! gas!
gas!
Un tonfo accanto a me, un altro, un altro ancora. Io pulisco
gli occhiali della mia maschera, appannati dal respiro. E Kat,
Kropp, chi altri ancora. Siamo coricati in quattro, vigili, ansiosi,
e cerchiamo di respirare più debolmente che ci sia possibile.
Questi primi momenti con la maschera calata, decidono della vita
e della morte di un uomo: sarà impenetrabile? Ho presenti
le orribili cose viste all'ospedale: gli abbruciati, che soffocando
giorno per giorno vomitano pezzo per pezzo i polmoni abbreviati.
Respiro con cautela, la bocca compressa contro la valvola. Ecco
che il vapore mefitico striscia sul terreno e scende in ogni
avvallamento. Come uno smisurato mollusco esso si insinua, affonda
i tentacoli nella nostra buca. Tocco Kat col gomito; sarebbe
meglio arrampicarci fuori e coricarci distesi sul terreno, anziché qui
ove il gas si raccoglie più denso. Ma non è possibile.
Comincia una seconda gragnuola di fuoco. Non sono più i
pezzi che sparano, è il suolo stesso che va sossopra.
Con uno schianto, qualcosa di oscuro precipita in mezzo a noi
e ci sfiora interrandosi: un feretro, lanciato in aria da un'esplosione.
Vedo che Kat si muove e mi avvicino a lui carponi. Il feretro
ha schiacciato il braccio disteso del quarto uomo che è con
noi nella beva. Istintivamente il poveretto cerca di strapparsi
coll'altra mano la maschera. Ma Kropp è pronto ad afferrargli
il braccio, e glielo ripiega contro le reni mantenendovelo a
viva forza.
Intanto Kat e io ci accingiamo a liberare il braccio ferito.
Il coperchio della cassa è aperto e rotto, sicché è facile
strapparlo. Gettiamo fuori il cadavere, che come un sacco cade
a terra: poi cerchiamo di disincagliare la parete inferiore della
cassa.
Per fortuna il ferito perde conoscenza, sicché anche Alberto
ci può aiutare. Non abbiamo più bisogno di tante
cautele e lavoriamo a tutta forza finché la cassa con
un gemito non cede alla leva delle nostre palette.
Ormai si è fatto più chiaro. Kat prende un pezzo
del coperchio, lo pone sotto il braccio fracassato, e intorno
avvolgiamo tutte le bende dei nostri pacchetti di medicazione.
Più di così per il momento non si può fare.
Ho la testa che mi ronza e mi rimbomba sotto la maschera, mi
pare che debba scoppiare. I polmoni sono sforzati, debbono di
continuo respirare la medesima aria calda e corrotta; le arterie
delle tempie si gonfiano, pare di soffocare.
Una leve grigiastra filtra giù fino a noi. Il vento soffia
sopra il camposanto. Mi sporgo sull'orlo della fossa; nel crepuscolo
sporco vedo davanti a me una gamba strappata col suo stivale
perfettamente intatto: tutto questo scorgo in un baleno. Ma,
a pochi metri di distanza, vedo ora qualcuno alzarsi; pulisco
gli occhiali che per l'emozione subito mi si appannano di nuovo:
quello già non porta più la maschera!
Aspetto qualche secondo, egli non stramazza al suolo, si guarda
intorno e fa qualche passo: vuoi dire che il vento ha disperso
il gas, che l'aria è libera. Allora rantolando strappo
anch'io la maschera e cado lungo disteso; l'aria fluisce in me
come una corrente d'acqua gelata, gli occhi mi vogliono schizzare
fuori dalle orbite, l'onda mi sommerge e per un momento perdo
conoscenza.
(...) È l'ora della benedizione. Scende la notte, fumano
le nebbie dai camminamenti. Le buche sembrano riempirsi di spettri
e di misteri. II bianco vapore serpeggia pavidamente, prima che
osi sormontare i parapetti. Poi, lunghe strisce si stendono di
trincea in trincea, di beva in beva.
Fa fresco. Io son di sentinella e sbarro gli occhi nell'oscurità.
Mi sento fiacco, come sempre dopo un'azione, e perciò mi
riesce duro restare solo coi miei pensieri. In realtà,
pensieri non sono, ma piuttosto ricordi, che m'assalgono nella
mia debolezza e mi muovono l'anima in guisa strana.
I razzi brillano alti, ed io vedo una chiara notte d’estate:
mi trovo nel chiostro del Duomo e guardo i cespi di rose fiorenti
in mezzo al piccolo cimitero, ove sono sepolti i vecchi canonici.
Intorno sorgono i gruppi di pietra delle stazioni del Rosario.
Non c'è anima viva; un gran silenzio cinge il rettangolo
fiorito, il sole riscalda le grosse pietre grigie, sicché la
mia mano posandovisi, ne carezza il calore. Sopra il tetto d'ardesia
la verde torre della cattedrale si slancia nel pallido e molle
azzurro della sera. Tra le colonnette del chiostro ancora illuminate,
si indovina la fresca oscurità che soltanto le chiese
sanno dare, e io me ne sto lì immobile, e penso che a
vent'anni saprò le cose mirabili e inquietanti che vengono
dalle donne.
Il quadro è così stranamente vicino che mi par
di toccarlo, prima che il lampo del prossimo razzo lo faccia
sparire.
Stringo il mio fucile e ne rettifico la posizione. La canna è umida;
la serro nella mano e ne asciugo l'umidità con le dita.
Fra i prati, dietro la nostra città, si alzava presso
un ruscello una fila di alti pioppi. Erano visibili da lontano,
e la chiamavano l'allea dei pioppi, quantunque si allineassero
tutti da una parte sola. Già da ragazzi avevamo una predilezione
per quei vecchi alberi, che ci attraevano con un loro fascino
inesplicabile; per giornate intere, sdraiati alla loro ombra,
ne ascoltavamo il sussurro. Seduti sulla riva abbandonavamo i
piedi all'onda chiara e rapida del ruscello. Il puro odore dell'acqua
e la melodia del vento nelle fronde dominavano la nostra fantasia;
li amavamo molto davvero, i vecchi pioppi, e l’immagine
di quei giorni lontani mi fa battere il cuore, prima di scomparire.
Strano che tutti i ricordi che tornano abbiano due qualità.
Sono pieni di silenzio; è questa anzi la loro virtù più forte,
e rimangono tali anche se la realtà fu diversa. Sono visioni
mute che mi parlano con lo sguardo e coi gesti, ed è il
loro silenzio che mi commuove nel profondo, che mi obbliga a
toccare la manica del cappotto od il fucile per non lasciarmi
andare in questo abbandono, in questo dissolvimento in cui il
mio corpo vorrebbe dilatarsi e dileguarsi verso le misteriose
forze che si celano dietro le cose.
Le immagini sono silenziose, proprio perché il silenzio
qui è inconcepibile. Non vi è silenzio al fronte,
e il dominio del fronte giunge così lontano che non ci
avviene mai di uscirne. Anche nei depositi arretrati e nei quartieri
di riposo il ronzio, il sordo brontolio del fuoco lontano persistono
nelle nostre orecchie. Non ci si porta mai così indietro
che si arrivi a non sentirlo più. In questi giorni poi è stato
insopportabile.
E il silenzio fa sì che le immagini del passato non suscitino
desideri ma tristezza, una enorme sconsolata malinconia. Quelle
cose care furono, ma non torneranno mai più. Sono passate,
sono un mondo diverso, perduto per sempre. Finché eravamo
in caserma destavano in noi una selvaggia e ribelle bramosia,
perché erano ancora congiunte a noi, ci appartenevano
e noi appartenevamo ad esse, quantunque ne fossimo separati.
La loro immagine sorgeva allora con le canzoni, che cantavamo
marciando alle esercitazioni, verso la radura, presso il margine
delle foreste profilantisi nere sul rosso dell'aurora; erano,
allora, un ricordo veemente in noi, e da noi stessi evocato.
Ma qui in trincea quel mondo si è perduto. Il ricordo
non sorge più; noi siamo morti, ed esso ci appare lontano
all'orizzonte come un fantasma, come un enigmatico riflesso,
che ci tormenta e che temiamo e che amiamo senza speranza. Forte
senza dubbio, come la nostra bramosia ma irrealizzabile, e noi
lo sappiamo. Un'aspirazione vana, come sarebbe quella di diventar
generale.
E se anche ce lo restituissero, questo paesaggio della nostra
gioventù, non sapremmo più bene che farne. Le delicate
e misteriose energie, che da esso si trasfondevano in noi, non
possono rinascere. Noi vi potremmo bensì vivere, circolare,
ricordarci in esso, ed amarlo e commuoverci alla sua vista; ma
sarebbe la stessa cosa di quando guardiamo la fotografia d'un
compagno morto: sono i suoi tratti, è il suo volto, e
i giorni che abbiamo passati insieme riacquistano nella memoria
una vita fittizia: ma non è lui.
Non saremo mai più legati al nostro dolce paese, come
fummo un tempo. Non era già la conoscenza della sua bellezza
né del suo carattere quella che ci attirava, ma un senso
di comunanza, questa fraternità nostra con le cose e con
gli eventi della nostra vita, che ci separava dal resto e ci
rendeva un poco incomprensibile anche il mondo dei nostri genitori:
perché, non so come, eravamo sempre e teneramente abbandonati,
perduti in quell'amore, e la più piccola cosa ci conduceva
sempre sul sentiero dell'infinito. Era, forse, il privilegio
della nostra giovinezza? Noi non vedevamo limiti, il mondo intorno
a noi non aveva fine, e nel sangue palpitava l'attesa, che ci
faceva una cosa sola con lo scorrere dei nostri giorni.
Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe
come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati;
siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai.
Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti.
Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati
come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali.
Io penso che siamo perduti.
(...) Per una mattinata intera due farfalle volteggiano dinanzi
alla nostra trincea. Hanno ali gialle, punteggiate di rosso.
Che cosa mai può averle sviate fin qui, ove a perdita
d'occhio non si trova né una pianta né un fiore?
Si riposano tranquillamente sui denti di un teschio.
E uguale serenità dimostrano gli uccelli, che da un pezzo
hanno fatta l'abitudine alla guerra. Ogni mattina, fra l'una
e l'altra trincea, si levano a volo le allodole: l'anno scorso
anzi ne vedemmo alcune covare e poi tirar sui loro piccini.
I topi ci lasciano tranquilli: sono andati più innanzi
e sappiamo bene perché. Ingrassano: se appena ne vediamo
uno, gli spariamo addosso. Ogni notte nuovamente sentiamo il
rullare dei carri, dietro le linee nemiche. Ma di giorno non
arrivano che i soliti tiri, così che possiamo riparare
alquanto le trincee. Non mancano nemmeno le distrazioni: vi provvedono
gli aviatori. Ogni giorno parecchi combattimenti aerei hanno
il loro pubblico appassionato.
Gli apparecchi da caccia ci vanno a genio, ma quelli da ricognizione
li odiamo come la peste, perché ci tirano addosso il fuoco
delle artiglierie. Appena sono apparsi, è una musica di
granate e di shrapnels. Uno scherzo di questo genere ci costa
in un sol giorno undici uomini, di cui cinque di sanità.
Due di essi vengono stritolati in modo, che, dice Tjaden, si
potrebbero raccogliere col cucchiaio e seppellirli in una casseruola.
A un altro viene strappata tutta la parte inferiore del busto,
con le gambe. Giace morto nella trincea, sul petto, il volto
giallo come un limone; fra i peli della barba rosseggia ancora
la sigaretta accesa. Brilla, finché gli si spegne fra
le labbra.
Depositiamo provvisoriamente i morti in una gran fossa: vi giacciono
già tre strati sovrapposti.
(Brani tratti da Niente di nuovo sul fronte occidentale, Arnoldo
Mondadori editore, Milano, 1931, traduzione di Stefano Jacini)
Erich
Maria Remarque
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