LA
MORTE
Norman Manea
Le
regole del gioco erano queste: le bambine, nell’attimo
in cui il rumore le colpiva, dovevano rimanere immobili. Nessun
muscolo palpitava più. Non battevano ciglio, non si
muovevano. Nemmeno se i rumori che dovevano simulare uno sparo – un
grido, una pietra sbattuta sul recinto o un coccio di bottiglia
tirato contro un muro – le sorprendevano in piena corsa
o nell’atto di spiccare un salto, di portare l’acqua,
di pettinarsi, o nelle posizioni più strane, nelle quali
era difficile mantenere a lungo l’equilibrio.
Era già successo, non da molto, che due di loro fossero
rimaste in bilico sul bordo di una finestra, sul punto di cadere.
Il davanzale era alto, quasi quanto un piano. Le loro gambe esili
stavano per cedere, potevano precipitare all’indietro da
un momento all’altro... Un giovanottone che passava di
là era riuscito a trattenerle in tempo.
A volte rimanevano anche un’ora paralizzate nella posizione
in cui le aveva sorprese il segnale, come stabiliva la regola.
Le mani alzate, una gamba per aria, il collo torto o la schiena
curva. Le braccia penzoloni fin quasi a terra, irrigidite, nell’atto
di raccogliere il paramano di un vecchio cappotto o addirittura,
incredibile, l’involucro oleato di un panetto di burro,
ancora unto, arrivato chissà come dalla mensa delle sentinelle.
Il desiderio, per quanto forte, di continuare il gesto iniziato
non riusciva a smuoverle. Erano morte: nessuna tentazione avrebbe
avuto l’effetto di destarle.
Esistevano, dunque, anche dei giochi. Le bambine avevano inventato
questo: “il gioco dei manichini”. Cercavano di diventare,
di punto in bianco, signorine e signore graziose. L’immobilità delle
statuine sudicie e cenciose pretendeva addirittura a una certa
eleganza, che immaginavano appartenesse a un mondo il quale aveva
conservato – così supponevano – l’ideale
di donne nobili e raffinate, la cui perfezione si identificava
con l’immobilità dei manichini.
Il gioco, però, si sarebbe potuto chiamare anche diversamente.
Il loro irrigidirsi nello stato in cui si trovavano, quasi nude,
scheletriche, l’immobilità che raggiungevano, il
loro modo di fermarsi di colpo, rinunciando a ogni movimento – fin
quasi a trattenere il respiro – facevano presagire qualcosa
di sinistro.
Guardandole, il ragazzo si era chiesto spesso se il gioco non
attirasse un tale evento, affrettandolo. Gli pareva di avvertire
nelle vicinanze la presenza della canna di un fucile in agguato,
puntato dietro un muro o della garitta... Un tale gioco avrebbe
tremendamente divertito le sentinelle. Nell’attimo in cui
ricevevano il segnale, spesso con un grido che simulava uno sparo,
non avrebbero capito che una di loro era stramazzata. Non si
sarebbero accorte che si era trattato di un colpo vero: la caduta
del bersaglio non faceva parte del gioco. Andavano fiere della
bravura che avevano acquisito nel conservare, pur nell’immobilità,
l’alterezza e la leggiadra civetteria di quell’altro
mondo, nel quale, come si immaginavano o come avevano sentito
raccontare da qualcuno degli anziani, esistevano ancora signore
e signori fatti apposta per essere ammirati, da lontano, dietro
le vetrine... Al ragazzo pareva di vedere il mirino del fucile
o la piccola bocca, nascosta a pochi passi, della pistola, in
agguato, pronti a esplodere fulmineamente in un altro gioco,
che avrebbe divertito moltissimo i soldati.
Il giorno in cui, sorprese dall’allarme sul davanzale della
finestra, vicino al tetto dei dormitori, stipati fino all’inverosimile
di letti a castello, le due bambine stavano per perdere l’equilibrio,
trattenute all’ultimo momento da Licâ, il cugino
gigante dai capelli crespi, rossi, ma già anche bianchi,
di un colore insolito, una specie di rosa mattone sbiadito, il
ragazzo ebbe la certezza che la disgrazia fosse successa davvero.
Atterrito, riaprì gli occhi solo dopo qualche istante:
le due brunette correvano di nuovo. Parevano, sì, ancora
spaventate, ma erano vive, allegre, da non crederci.
...Tutt’intorno, al di là del recinto, era un’esplosione
di fiori. Era arrivata la primavera, si sentivano gli uccelli.
Non avrebbe saputo riconoscerli, dar loro un nome, nessuno aveva
trovato il tempo di parlargli dei fiori e degli uccelli. E neppure
dei tanti insetti che spuntavano insieme con il sole.
Si era appoggiato a uno dei pali del recinto. Gli occhi chiusi,
spossato dal torpore che lo invadeva. Sentiva un gran caldo,
si sbottonò la camicia fino alla vita. Una camicia sgargiante,
variegata fatta di pezzi diversi, messi come capitava: se li
era procurati, chissà dove, la mamma. Si era slacciato
i due bottoni, uno rosa, da trapunta, al collo, l’altro
cucito in basso, vicino alla cintola, grosso e nero, “da
soprabito”, come andava ripetendo Licâ per prenderlo
in giro. Aveva slacciato i due bottoni e costato i due lembi
della camicia, scoprendo il petto magro, ossuto e cereo. Era
rimasto a occhi chiusi, le palpebre tremolavano, pulsando per
via della luce.
Il sole riscaldava le costole sottili, non ancora ben formate...
lasciate in balia del colpo che stava per esplodere.
Lo ricevette in pieno petto. Il primo pensiero, ancor prima di
aprire gli occhi: “Non si è sentito nulla, non c’è stato
sparo”. Nessuno sparo, in effetti.
Udiva il ronzio vicino, sul petto. Sentiva l’aculeo fitto
in profondità e il punto della trafittura. Agitò le
braccia convulsamente, gridò. Era questa la morte, non
sarebbe durato che qualche attimo, tutto crollava, non c’era
più tempo. Correva, pallido, trafitto: un morto dagli
occhi sbarrati, atterriti, neri; l’insetto giallo lo seguiva,
ronzandogli intorno alle spalle. Levava le mani, cercando di
proteggersi, inciampando, barcollando all’indietro. Fece
alcune giravolte, la camicia gli era caduta dalle spalle; girò su
se stesso, riprese a scappare, senza più voltarsi indietro.
Saltava, la terra si apriva sotto ogni salto, correva a bocca
aperta, smorto, sudato, per cogliere gli ultimi istanti, per
arrivare in tempo. Il dolore aumentava, il veleno, con traiettoria
rapida, capillare, saliva, sarebbe stato troppo tardi... sbatté contro
la porta della baracca, facendo irruzione all’interno.
Lo zio guardava fuori, come al solito, attraverso le assi. Non
avrebbero potuto aiutarlo, non l’avevano nemmeno visto.
Barcollò, presto le forze lo avrebbero abbandonato, lo
sapeva; si precipitò contro la porta dei vicini, a fianco,
più oltre, dagli altri, nel corridoio. Era allo stremo,
soffocava, le guance accese, appiccicose di lacrime.
Varcò d’un balzo la soglia, fece il giro del cortile
singhiozzando, disperato. Il tempo fuggiva, passò nell’altra
baracca: la trovò, finalmente! Fece ancora in tempo a
mostrarle il gonfiore cresciutogli sul petto, il punto colpito.
Ansimava, la scongiurava, presto, presto, bisognava tentare di
tutti, immediatamente. Forse lo poteva ancora salvare... era
stato preso di mira, colpito, trafitto, qualcosa di giallo, di
velenoso... Ma la mano ruvida lo accarezzava sulla testa, per
calmarlo. Carezze stupide, la mamma era solita sprecare il tempo
così. Ormai gli mancavano le forze, era alla fine, nemmeno
lei capiva la disgrazia. “Non è niente, un’ape,
non è niente”; ma la sua voce calma lo terrorizzava.
Nemmeno lei capiva, e di conseguenza...
Voleva giusto alzare gli occhi, urlare, quando udì alle
sue spalle una risata beffarda, che ben conosceva. Era suo cugino
Licâ che sghignazzava. Quel colosso si era fatto sempre
più emaciato, ora aveva un aspetto miserabile, ma forza
gliene era rimasta. E la sua forza, quello screanzato, pareva
averla concentrata tutta nella risata che gli rovesciava addosso.
(Tratto
dalla raccolta Ottobre, ore otto, Il Saggiatore, Milano,
1998, traduzione di Marco Cugno)
Norman
Manea è nato
nel 1936 a Suceava, in Bucovina (Romania). Tra i cinque e i nove
anni, per le sue origini ebraiche, è stato internato con
la famiglia in un campo di concentramento del regime fascista romeno,
in Ucraina. Ha vissuto la sua giovinezza nella Romania stalinista
del dopoguerra e, dalla metà degli anni sessanta, ha sperimentato
come uomo e come scrittore la dittatura di Ceausescu. Nel 1986
ha lasciato il suo paese e vive attualmente negli Stati Uniti,
dove insegna al Bard College di New York. Fra le sue opere, tradotte
in più di dieci lingue: i romanzi Atrium (1974), Il
libro del figlio (1986); .i saggi compresi in Gli anni
di apprendistato del povero Augusto (1979), Di contorno (1984) e Clown. Il
dittatore e l’artista; la raccolta di racconti Un paradiso forzato.
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