PASSAGE
THIÉRÉ
Geoff
Dyer
Durante
la pausa pranzo tiravamo due calci nel campetto al Passage
Thiéré. Facevamo tardi la pausa pranzo, e per
questo il campetto non era mai affollato. Se c’erano
altri ragazzi – come gli algerini dell’officina
all’angolo, che volevano sempre giocare ma era difficile
per loro squagliarsela per il tempo sufficiente – giocavamo
con loro, a seconda delle volte quattro o cinque per parte.
Se eravamo solo noi del magazzino facevamo a passarci la palla
al volo di testa, cercando di non farle toccare terra: abbellendo
quando possibile questa tecnica base con virtuosismi individuali,
come palleggi con piedi e cosce, prima di continuare di testa;
controllandola e recuperandola dopo un passaggio errato. Contavamo
quanti passaggi di piede e di testa riuscivamo a fare senza
far cadere la palla a terra. Qualche volta prendevamo il ritmo
in una sequenza che sembrava potesse continuare all’infinito,
fino a che qualcuno sbagliava e dovevamo ricominciare il conto
da capo. A turno, uno di noi andava in porta mentre gli altri
crossavano e colpivano di testa o sferravano al volo tiri che
facevano bruciare le mani.
Non vedevamo l’ora che arrivasse l’ora della pausa
pranzo per poter giocare a calcio, considerando quasi sacre queste
partitelle. Dopo aver giocato, soprattutto se il tempo era bello,
non avevamo proprio voglia di ritornare al magazzino, e ci sedevamo
sul muretto pieno di graffiti, il sole negli occhi, tracannando
acqua e mangiando pane e pomodoro, mentre i minuti passavano
finché, perdendo tempo, come truppe che ritornavano al
fronte, con passo pesante, ci incamminavamo verso rue de Lyon
per il lavoro.
C’era un altro buon motivo che ci spingeva a giocare: le
ragazze che ogni giorno passavano di lì con i loro libri,
chiacchierando o spingendo le biciclette. Ritornavano in ufficio
oppure all’università dopo la loro pausa pranzo,
o semplicemente si facevano una passeggiata mangiando un gelato
quando faceva caldo. Anche gli uomini passavano da quelle parti,
ma era solo un caso, mentre le ragazze, ci piaceva pensare, venivano
apposta. Magari perché preferivano quel percorso a un
altro mentre ritornavano dal caffè, oppure per un semplice
suggerimento da parte di una ragazza del gruppo – “Passiamo
per il campetto di Thiéré” – che veniva
sempre accolto dalle altre. Niente più di questo. E anche
se non era per il suggerimento di una delle ragazze, anche se
era solo una scorciatoia che allungava il loro intervallo per
il pranzo di cinque minuti, ci piaceva pensare che passavano
di là soprattutto per noi. Certamente vi erano altri posti
dove avremmo potuto giocare a calcio, ma anche se non passavano
per noi, noi giocavamo là per loro.
Luke aveva notato una ragazza in particolare. Era alta, con una
massa di capelli neri che le cadevano sulle spalle. Un giorno,
mentre si trovava a ridosso della recinzione per recuperare la
palla, le disse “ciao” sorridendo, e lei rispose
con un rapido sorriso prima di riprendere la strada abituale.
Quello scambio sarebbe continuato un’altra volta quando,
alcune settimane dopo, spogliandosi a vicenda con lo sguardo
per la prima volta, i loro occhi si aprirono di scatto esattamente
nello stesso momento. Luke la guardò andarsene, chiedendosi
se si sarebbe voltata. Le sue gambe erano abbronzate, portava
scarpe da tennis, c’era qualcosa di armonioso nel suo modo
di camminare, quasi volava: una qualità speciale per la
quale se le camminavi dietro potevi dire senza neanche vederla
in faccia, solo per i suoi capelli e per il modo in cui camminava,
che era bella. Luke la guardò andare via. Lei non si voltò.
Quando ci incamminammo per ritornare a lavoro, Luke disse che
la prossima volta che fosse venuta dovevamo tirare la palla su
quel lato del campetto, così avrebbe avuto la possibilità di
parlarle. Da allora in poi, ogni volta che giocavamo e lei passava,
noialtri facevamo dei gesti a Luke per fargli capire che era
lì, ma spostavamo il gioco dalla parte opposta, per non
farli parlare. Oppure lo tagliavamo fuori, rifiutandoci di passargli
la palla appena tendeva a spostarsi su quel lato del campetto.
Allora, dopo che era passata, solo allora tiravamo la palla in
quella direzione – “Vai Luke, è il tuo momento” – lasciandolo
andare a recuperare la palla e a fissare la sua sagoma sfuggente.
Un giorno, comunque, dopo che avevamo fatto correre Luke da una
parte all’altra come un cane, Jean cedette alla compassione
e fece un lancio millimetrico verso la recinzione, con la palla
che arrivò un metro o due davanti a lei, in modo che Luke
poté incontrare il suo sguardo, sorriderle, tirare la
palla indietro e aspettare che lei si avvicinasse. Quando mi
voltai le stava parlando, tenendo le mani appese alla rete. Gli
concedemmo pochi secondi di tranquillità prima di calciare
di nuovo la palla dalla sua parte e urlargli di ridarcela indietro,
facendo sì che lei si accorgesse del modo in cui stavamo
tutti attorno, a guardare e ad aspettare mentre Luke trotterellava
dietro la palla. Li lasciammo trascorrere un paio di minuti in
pace e poi Daniel sparò di nuovo la palla da quella parte,
mandandola a sbattere sulla rete a mezzo metro dalla sua testa
come una palla di cannone. Lei fece un salto, Luke si voltò e
ci vide ridere come dei ragazzacci mentre stava ovviamente cercando
di farle capire che lui non era così stupido e che, in
effetti, passava molto tempo a leggere, forse anche accennando
al fatto che lui stesso non era privo di aspirazione letterarie.
E mentre diceva che si scocciava di noi che mandavamo all’aria
le sue possibilità, si vedeva che se la spassava, visto
il modo in cui noi lo infastidivano mentre la corteggiava.
Non c’era nessuna traccia di Lazare, il direttore del magazzino,
quando ritornammo al lavoro, e così ci sedemmo con i piedi
sopra i tavoli per l’imballaggio, mangiando panini, prendendo
fiato dopo grandi sorsate di orangina, masticando patatine.
“
Hai visto Luke, dopo tutto quel correre di qua e di là ha
le gambe legate...”
“
Sfiatato, incapace di parlare...”
“
Sputa sangue. ‘Fatemi riprendere fiato. Non sono come gli
altri.’ Poi, BUM! Il pallone va a sbattere contro la recinzione,
a pochi centimetri dalla faccia di lei.”
“
Che cosa ha detto, Luke?”, chiese Mathias. “Com’è?”
“È
carina.”
“
Come si chiama?”
“
Nadine.”
“
Oh, Nadine! Che nome arrapante. E cosa fa l’arrapante Nadine?
Luke scosse la testa. Mathias ruttò e gettò la
lattina vuota nella spazzatura. “Allora, cosa hai fatto,
Luke?” chiesi.
“
Le hai chiesto se voleva tirare due calci?”
Avremmo felicemente passato l’intero pomeriggio così,
tormentando Luke per il suo tentativo di corteggiamento, ma dieci
minuti dopo sentimmo la Renault decrepita di Lazare che superava
a fatica il cancello e balzammo tutti in piedi. Nel momento in
cui entrò eravamo davvero indaffaratissimi, come se fossimo
stati talmente occupati con l’imballaggio che non c’era
stato neanche il tempo di mangiare un sandwich.
Pochi giorni dopo, quando Nadine ripassò per il campetto,
decidemmo, da bravi ragazzi, di lasciare che Luke le parlasse
tranquillamente, senza che la palla andasse a sbattere sulla
recinzione. Lei portava un cardigan color malva, perciò non
potevamo vedere le sue braccia, che presto un giorno lui avrebbe
stretto forte, scuotendola, lasciandole brutti lividi sulle stesse
braccia che un giorno, tra qualche anno, sarebbero state attorno
al suo collo mentre la baciava per l’ultima volta e la
lasciava. Riesco ancora a vederli là, separati dalla recinzione,
mentre, tacitamente, si interrogavano a vicenda. Lei aveva in
mano alcuni libri. Il sole venne fuori da una nuvola, la rete
della recinzione gettava angoli d’ombra sulla sua faccia.
Si piegava verso di lei, ammettendo di non aver mai letto Schopenhauer
o Merleau-Ponty, o chiunque fosse quello che stava leggendo.
Non che contasse granché: la cosa importante di quel libro è che
serviva da intermediario, come un ponte tra loro. Luke la osservava
mentre lei lo guardava attraverso la recinzione, con le gocce
di sudore che gli scendevano dai capelli e il respiro affannoso.
Aveva le maniche alzate sopra i gomiti, e si potevano notare
le vene sugli avambracci. La brezza le scompigliava i capelli.
Se li risistemò dietro le orecchie con le dita, e lui
notò le sue mani, le sue mani femminili che tenevano il
grosso libro di filosofia.
Stavano esaurendo gli argomenti. Luke chiese se le avrebbe fatto
piacere vedersi qualche volta, se... La sua voce si affievolì,
guardò per terra il pietrisco assolato, rendendole il
più agevole possibile rispondere: “Be’, è difficile”.
Quando alzò di nuovo lo sguardo, la vide che pensava,
considerando bene la cosa, conoscendo la ferita che un uomo ha
il potere di infliggere. Ma quella pausa stava già sfociando
in un sorriso di assenso.
Gli sorrise e lui la guardò negli occhi, che in quel momento
mostravano tutte le promesse di felicità che il mondo
potesse mai offrire. Lui propose il lunedì, che non andava
bene a lei.
“
Mercoledì, forse...”
“
Mercoledì ho lezione di danza.”
“
Oh...”
“
Potremmo vederci dopo.”
“
Ok.”
“
Alle nove?”
“
Sì. Dove fai lezione?”
“
A Parmentier.”
“
Potremmo incontrarci al Petit Centre. Lo conosci?”
“
Sì.” In strada un camion per le consegne stava bloccando
il traffico. I clacson cominciarono a suonare. “Dovrei
andare” disse lei.
“
Non stanno suonando a te” disse Luke.
Lei sorrise ancora, come se avesse dovuto andar via. Mentre lei
si allontanava, lui disse: “Verrai, vero?”.
“
Sì.”
Luke si girò dall’altra parte per tornare indietro.
Jean gli lanciò la palla perché lui la colpisse
al volo, mentre era ancora fuori dal campo, con tutta la forza
della sua felicità, per spedirla nell’angolo alto
del pezzo di recinzione che faceva da porta.
“
La folla è in delirio!” urlò Daniel.
Non credo che Luke abbia mai passato altri momenti altrettanto
felici del periodo che trascorremmo lavorando al magazzino e
giocando a calcio nel campetto. Quei primi momenti che aveva
passato a parlare con Nadine, trovando l’intesa al primo
colpo, quelli erano il nucleo, l’epicentro della sua felicità.
Nei mesi che seguirono, col bel tempo e le giornate più lunghe,
giocavamo a calcio non solo a pranzo, ma anche dopo il lavoro.
Luke avrebbe giocato il più a lungo possibile, fino all’ultimo
minuto per poi correre da Nadine.
Poche settimane dopo, andai con loro a una festa dove incontrai
Véronique, un’amica di Nadine. Cominciammo a vederci
e subito si stabilì uno schema simmetrico che rimase invariato
per molti mesi. Noi quattro passavamo le serate a preparare cene
a casa di Nadine, o sul minuscolo terrazzino del mio appartamento,
che si affacciava su rue de la Roquette, oppure ci ritroviamo
al Petit Centre, il bar su rue Moret, che probabilmente adesso
non c’è più. Le giornate si erano allungate,
ma non erano mai abbastanza lunghe per contenere tutta la felicità con
cui noi volevamo riempirle. Quanta differenza da adesso, adesso
che abbiamo imparato a dosare la nostra felicità, a distribuirla
uniformemente per tutta la settimana in modo che ce ne sia sempre
abbastanza, anche se la felicità è, precisamente,
un’abbondanza, un traboccare, e per razionarla è necessario
adattarsi e accontentarsi, cosa che chiunque abbia conosciuto
la felicità respinge istintivamente perché è la
forma in cui la disperazione si rende sopportabile.
Adesso sembro Luke! Certo, se fosse stato possibile concentrare
la sua vita in un momento, quando tutto era sospeso tra quel
che era stato e quel che doveva venire quando era ancora alimentato
dai suoi desideri e non, come successe, frustrato da essi, sarebbe
accaduto in quei mesi, che possono essere, a loro volta, condensati
nella sola immagine di cinque uomini che giocano a calcio nel
campetto, e uno di loro che si precipita a parlare con una ragazza
dai lunghi capelli neri che sta passando di là. Ho detto “alimentato
dai suoi desideri”, ma questo è fuorviante, ed è l’immagine
di noi che giochiamo a calcio nel campetto che mi ha fatto capire
il perché. Quei mesi furono idilliaci perché i
desideri non ebbero nessun ruolo; un desiderio si fa sentire
solo nel momento in cui diventa un atto; solo più tardi,
guardando al passato, si potrà vedere la traccia del desiderio
che conduce fino all’azione che lo ha generato, che fu
da esso generata.
Credo di capire adesso cosa successe a Luke, di capire, molto
dopo il periodo in cui lui avrebbe dovuto capirlo, come egli
stesse ancora cercando ardentemente un possibile futuro, un ideale
da raggiungere, un momento supremo di felicità; accorgendosi
solo troppo tardi – e questo, penso, è ciò che
fu davvero difficile per lui – che, ben lontano dall’essere
un primo passo verso il futuro, quel momento era in realtà una
parte del suo passato, era già un ricordo.
(Tratto
dalla raccolta Fuori area – racconti UK di rabbia e passione,
a cura di Nicholas Royle, Oscar Mondadori, Milano, 2000, traduzione
di Lea Maria Iandiorio)
Le
opere pubblicate di Geoff
Dyer includono i romanzi The Color of Memory e The
Search; Ways of Telling, un saggio critico sulle
opere di John Berger; The Missing of the Somme, sulla
Prima guerra mondiale, e But Beautifu: a Book about Jazz,
che ha vinto il premio Somerset Maugham.
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