NEVROSI PROIETTATA SU DI UN UMILE E SIMPATICO BENZINAIO

 

Marco di Porto

 

E da dove mai l'hanno cavato tutti questi sapienti, che l'uomo abbia bisogno di chissà quale modo normale e virtuoso di volere? In base a che cosa si sono andati a immaginare che all'uomo occorra assolutamente un modo sensato e vantaggioso di volere?
Fedor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo

La benzina è essenziale affinché il mio motorino ruggente riesca a portarmi a spasso. Il mio motorino ha molte virtù, la più interessante delle quali è una tenuta di strada eccellente; possiede inoltre dei freni a disco in buono a stato e una carrozzeria nuova, un bijou di plastiche luccicanti di colore blu, cromate di un violaceo aggressivo in alcuni punti. Il mio motorino, cilindrata 50, è tenuto in buono stato perchè io a queste cose ci tengo. Lo lucido, gli cambio l'olio molto spesso, e ogni sei mesi spendo una cifra sconsiderata per farlo revisionare da un meccanico di fiducia, un uomo che di motori ci capisce, una specie di esperto del carburatore e di ogni parte meccanica. A conti fatti, io AMO il mio bel mezzo di locomozione, sul quale scorazzo nel sole d'agosto come nel gelo di febbraio. E' un amico, un buon compagno del quale io mi prendo cura; lui, in cambio, mi serve molto meglio di qualunque noiosa e invadente persona in carne e ossa.
Ieri, per la prima volta, ho deciso di dargli un nome. Ho riflettuto molto su questa faccenda, e sono giunto alla conclusione che il mio motorino è il migliore amico che io abbia mai avuto. Fosse dotato di favella!, diamine, e mi troverei di certo a mio agio a scambiare quattro chiacchiere sulle tante avventure vissute insieme, inseparabili come fratelli siamesi, uniti nella battaglia triste della vita. Battaglia persa in partenza , dico io, visto lo stato attuale delle cose. Lo stato attuale delle cose. Lo stato attuale delle cose.

L'ho chiamato Giampiero. Un nome altisonante, me ne rendo conto, per un insieme di plastica, ferro e gommapiuma. Ma credo che quando si tiene davvero a qualcosa, quando si AMA qualcosa, non ci si debba sentire in imbarazzo nel comunicare a se stessi e al resto del mondo tale profondo sentimento.
Giampiero è un nome italianissimo, un po' da intellettuale, un po' da uno con la puzza sotto al naso (e infatti lui, il mio Giampi, un po' di superbia l'ha acquisita da me medesimo, che sono intelligente, garbato e profondo quanto un filosofo. Sono un conoscitore degli altri e la mia anima si eleva ad altezze che la marmaglia scellerata, la quale mi circonda col suo tanfo dozzinale, neanche sarebbe in grado di scorgere, tanto in basso rispetto a me e al mio fido destriero a motore si trova. Dicendo questo potrò anche risultare antipatico, me ne rendo conto: ma un uomo possiede almeno una delle quattro virtù cardinali, e la mia è la sincerità.)
Giampiero, dicevo, è un nome che evoca giornate passate a fumare la pipa, e a discutere dei massimi sistemi con gente di alto livello. Un Giampiero qualunque può senza dubbio entrare in club esclusivo, solo grazie a questo nome che evoca successo, imprese eroiche e gloria. Per questo motivo io, che mi chiamo Carlos Fantini e sono un alienato, ho deciso di stringere un rapporto di tenera amicizia con lui, e di chiamarlo così: G-I-A-M-P-I-E-R-O. Gi-i-a-emme-pi-i-e-erre-o. Giampi, per gli amici.

Io, nella vita, faccio l'impiegato. Un lavoro noioso e per nulla gratificante; ma tant'è: prima o poi bisogna scendere a compromessi, con questa macchina schiacciadeboli che è la società. Tutti i giorni, per andare in quell'ufficio da due soldi, cavalco le onde orrende del traffico tentacolare a cavalcioni su Giampi, mi destreggio in evoluzioni magnifiche tra un autobus e una macchina, tra un semaforo e un sottopasso, e sono felice. Quando io, impuzzolito dal fetore che questa metropoli indegna emana, corro, sorpasso, freno di scatto e con altrettanta leggiadria riparto, ecco, quando la mia vita scorre senza freni morali nel viavai insensato delle strade di Roma, mi sento vivo. E' l'unico momento in cui mi sento bene, perchè domino la bestia. Sono il migliore, in questo campo, e lo dico senza falsa modestia. Se chiedete agli automobolisti del centro chi sia il più grande centauro mai esistito, vi risponderanno senza remore: quell'uomo coraggioso che cavalca Giampiero, lo scintillante motorino.
Ma vanagloria a parte - mi dovrò pure vantare di qualcosa, in questa infelicità, eccheccazzo! - vi dirò adesso il vero motivo di questo mio scritto. Il motivo che mi spinge ad insozzare queste pagine con i miei verbi ed i miei aggettivi, come un Dostoevskij con l'esaurimento nervoso, dotato della fibra di Fante e del sense of homour di Tommaso Genovesi, è quanto mi succede da qualche tempo a questa parte, e riguarda il difficile e intricato rapporto che intrattengo col mio benzinaio. Per carità, brav'uomo, come ce ne sono tanti: un indiano, un extracomunitario che si guadagna il pane onestamente suggiando benzina super dalle sue pompe incredibili, benzina la quale egli inocula con gesto sensuale nei serbatoi di automobili e giampieri qualunque. Brava persona, per carità! Ma ho più d'un motivo per sospettare che mi odi. Da qualche tempo a questa parte, non è più lo stesso. Ad esempio, non accoglie me e Giampi con quegli ampi sorrisi che lo contraddistinguevano, e che mi portarono a eleggerlo quale mio rifornitore di fiducia tra tanti benzivendoli del tutto disumani, di cui il mondo è purtroppo infestato.

Tutto è iniziato quando per l'ennesima volta mi recai a far benzina presso di lui. Dovete sapere che ho dei giorni precisi in cui abbevero Giampi col prezioso liquido, che gli dona vita e capacità motorie. In realtà, ho dei giorni prestabiliti per fare quasi tutto, dalla spesa al sesso, dall'ubriacatura, al cinema, alla cena al ristorante. Mi piacciono le cose ordinate, avete qualcosa da ridire? Nella noia e nella monotonia si cela il segreto del creato, e gli uomini alla continua ricerca di sensazioni e spericolatezza sono degli agitati, dei fastidiosi viveur dai quali mi tengo ben lontano. Solo una vita vissuta annoiandosi può dirsi davvero completa. E' nell'apatia che un individuo trova la pace, e l'imperativo categorico d'ogni esistenza spesa su questo pianeta verde, è e dev'essere: stare calmi. Non rispetto alcuna visione differente dalla mia, quindi controbattere sarà un esercizio fine a se stesso, che qualche temerario, per mettersi alla prova, potrà anche tentare, con la certezza dell'insuccesso. Ma andiamo avanti. Dicevo? Ah, si, vi parlavo di quell'infausto giorno in cui il rapporto tra me e il benzinaio si è incrinato. Quella mattina mi ero svegliato un po' depresso, per via di una serie di ragioni che non starò qui ad elencare. Vi basti sapere che, stritolato dalla macchina infame della società, avevo qualche problemino per arrivare a fine mese. Avevo sbadatamente comprato un set di formaggi senza controllare bene la data di scadenza; il fruttivendolo mi aveva apostrofato il pomeriggio precedente, definendomi "un nevrotico" solo perchè ero stato un quarto d'ora a sindacare sul prezzo dei suoi ortaggi. Dulcis in fundo, avevo intuito che il palo a cui lego di notte Giampiero con una solida catena d'acciaio, e che è sito - come ogni palo che si rispetti - sul ciglio di un marciapiede, ebbene, questo palo veniva pisciato quasi ogni giorno dai cani del quartiere. Immaginate il mio disgusto quando la mattina, nell'atto di slegare il buon Giampi, mi ero reso conto dell'affronto che la razza canina mi faceva: una vita dedicata alla cura e alla manutenzione del mio motorino, e poi un cane ci piscia sopra! Che inciviltà! Il lucchetto era visibilmente deflorato dal nauseabondo liquido, e una chiazza schifosa era riversa sul selciato e sulla ruota. Non potendo passare le mie giornate a controllare chi fosse mai l'autore di questo oltraggio al vivere comune, mi ero rassegnato a quelle pisciate isteriche, desolato.
Quella mattina ero dunque un po' nervoso, e dopo aver liberato Giampi dal palo, mi ero avviato al lavoro. E mi aspettavo un accoglienza decente, da quel benzinaio, e invece no!
Era nervoso anche lui, e si vedeva. Quando gli dissi, sorridendo poichè bisognoso di quel minimo di contatto umano necessario alla sopravvivenza, di “abbeverare con maestria il mio Giampi affinché alla guida possa ottenere la migliore prestazione possibile. Cinque euro di super, vecchio mio”, e dicendo questo gli diedi una amichevole e goliardica pacca sulla spalla, notai sul suo viso un ombra di disappunto. Il viso del benzinaio aveva emanato per qualche secondo una sorta di fastidio nell'avermi lì, accanto a lui, intento nel pagare un servizio che comunque mi spettava. Mi sentii offeso. Egli, con noncuranza e un certo piglio autoritario, prese in mano l'eiettore di benzina, e violentemente lo infilò nel serbatoio, il tappo del quale avevo coscienziosamente già svitato. Pigiando maldestramente quel marchingegno infernale, quasi irato, iniziò a parlare col suo collega, senza degnarmi del minimo riguardo. A me! Al suo miglior cliente, che lo stimava! Che lo aveva eletto quale fornitore ufficiale di ottani ad alta densità! In questo suo fare maldestro, un po' di benzina si riversò su Giampi. Era troppo.
Tentai di manifestare il mio disappunto: mentre l'infame finiva il suo lavoro, iniziai a passeggiare in su e in giù nella piazzola, scattando, e accendendomi un sigaro. Fumavo a tutto spiano, sputavo nubi azzurre senza ritegno. Egli mi guardava interrogativo. Credo si aspettasse il pagamento, ma ero troppo nervoso. Dovevo sublimare! Imperai, balbettando:
“ Gonfiami le gomme”.
E lui, un po' accigliato: “va bene, capo”. Con quell'accento ridicolo della gente del sud del mondo. Mentre lo diceva, aspirai un'intera boccata del sigaro, e iniziai a tossire come preso da un attacco d'asma. Mentre tossivo, lui mi guardava immobile e sadico, senza accennare di darmi una mano. Poi mosse Giampi dalla sua posizione, e lo depose accanto alla pompa dell'aria. Iniziò ad alambiccare con vari ammennicoli, mentre io mi producevo negli ultimi due o tre conati. Ero stravolto. Buttai dunque il sigaro, mi avvicinai cauto, ostentando una certa superiorità. Lui mi disse: “tutto bene, capo?”. Ancora quell'accento sgraziato.
Lo guardai dritto negli occhi e risposi con grande freddezza: “DEVI IMPARARE LA PRONUNCIA DELLA LINGUA ITALIANA”. Ma lui sembrò non recepire. Forse non l'avevo detto. L'avevo solo pensato. Stavo impazzendo.
Mi venni l'istinto di prenderlo a schiaffi. Dovevo essere viola a causa delle convulsioni, gli occhi mi lacrimavano per la fatica, i polmoni erano in fiamme. Quando finì di gonfiare la ruota anteriore, gli chiesi qual'era il suo paese d'origine.
" Bangladesh", disse. E sorrise. Uno di quei sorrisi candidi che mi rivolgeva sempre quando eravamo amici. Ma stava bluffando, è questa la verità. Glielo leggevo negli occhi che non mi rispettava più, e che i suoi modi affabili e sinceri di una volta si erano tramutati, per qualche oscuro motivo, in un fare formale, insincero e in fondo freddo.
Pagai stizzito i cinque euro, e mi avviai allucinato in ufficio.

Trascorsi una giornata infernale, rimuginando su quanto avvenuto la mattina. “Quel mentecatto”, riflettevo, colmo d'acrimonia, “avrà sicuramente riso di me col suo collega, quel tipo alto e brufoloso. Avrà pensato il peggio del peggio, certamente vantandosi della sua calma e del suo sangue freddo nell'affrontarmi. Ma egli non sa con chi ha a che fare! Io sono combattivo, e posso essere spietato! Che si pensa, che d'ora in poi cambierò benzinaio? Mai e poi mai! Mi farò servire dalle sue mani nerborute, sfruttando il potere del denaro! Lo infastidirò a tal punto che dovrà emigrare nella sua patria natia, e quando i suoi familiari lo vedranno tornare, umiliato, lui spiegherà che ha trovato un osso duro!”
Gli stavo augurando tutto il male possibile. Ero diventato completamente paranoico. Mi stavo rodendo le budella, per un evento che forse al lettore sembrerà senza importanza. Ma io campavo di queste inezie, di queste sfide e di questi rancori! Vivevo in un sottosuolo di rimorsi, senso di superiorità e delirio d'onnipotenza! Ne volli parlare a Giampi, di questi miei crucci. Tornando dal lavoro (evitai accuratamente di passare davanti all'esercizio del mio nemico), iniziai un monologo dai contenuti volgari ed eccedente nel turpiloquio, che non riporto per salvare quel minimo di dignità che mi è rimasta.
La sera mi infilai dentro al primo locale, e iniziai a bere in modo sconsiderato. Ero nervosissimo. Mentre mi ubriacavo, vaneggiavo tra me e me sul da farsi. Bevvi tre birre, poi due whisky. Al colmo dell'esasperazione alcolica, infastidii una cameriera. La chiamai “donna”, la fissavo come un invasato, ma ero rattristavo del mio comportamento indecoroso. Le chiesi scusa, le ordinai un altro whisky, e mi guardai intorno con l'occhio sospeso di chi ha lenito momentaneamente il proprio dolore con l'alcol. Accanto a me c'era un gruppo di uomini della mia età, molto tranquilli, molto a loro agio. Ascoltai i loro discorsi per qualche secondo, e mi parve di essere un extraterrestre. Di che parlavano? Di cosa si beavano, quei quattro fessi? Per quale motivo erano così tranquilli? Sentivo uno di loro, una specie di capetto del gruppo, che faceva considerazioni sulla vita. Non ho mai sentito nulla di così banale, giuro. Diceva: “guardate che qui la situazione è molto chiara. Per come vanno le cose, ognuno deve farsi gli affari propri, deve guardarsi il proprio. Sennò, che se ne ricava dalla vita? Certo, dovrebbe essere diversamente...certo, il mondo potrebbe andar meglio...lo sappiamo tutti. Ma vai a stringere...tutti quanti vogliamo i nostri risultati, non è così?” Gli altri annuivano, mezzo imbambolati. Comunicazione zero. Il gioco delle parti era così chiaro da risultare nauseante. Quello che aveva parlato, si vedeva lontano un miglio che era il più ricco. Gli altri tre cervelli erano semplicemente annullati d'ogni volontà, e anche se di fondo provavano invidia, o addirittura antipatia, non c'era verso che lo manifestassero. Disgustoso. Nulla di più disgustoso di quattro borghesotti piccoli e mediocri che discutono tra di loro della vita. E' come assistere ad una recita scolastica, è tutto totalmente evidente: è una rappresentazione talmente finta che pensare che certa gente si rapporta al mondo in questo modo, fa venire la pelle d'oca.
Mi alzai, barcollando intristito. Al momento di pagare, la cameriera mi sorrise. Io azzardai una certa confidenza. Le dissi: “giornata dura, eh?”. Lei annuì, e mi parve di scorgere sulle sue labbra un sorriso. Uscii dal locale e tornai a casa, dove crollai sul letto e dormii un sonno infestato di incubi feroci.

Da quelle infauste circostanze, che mi portarono a comportarmi come un isterico, il lettore crederà che io avessi tratto, nell'immediato, una lezione. Una sorta di insegnamento subitaneo, che mi avrebbe dovuto portare, semplicemente, a fare benzina in un altro posto. Ma io mi ero intestardito, e un istinto malsano, forse autolesionista, mi accompagnò per tutto il periodo successivo. Continuai imperterrito a rifornire Giampi dal tizio del Bangladesh: ero allo stesso tempo disgustato e felice nel crogiolarmi in quell'atmosfera tesa. Andavo lì, e con il migliore dei miei sorrisi, salutavo: “buongiorno, caro amico!”, dicevo.
Lui mi guardava, sorrideva il suo sorriso falso, e più d'una volta mi parve ammiccasse al suo collega devastato dall'acne. Un giorno credo proprio di aver letto sulle sue labbra una esclamazione del tipo: “ecco il pazzo dell'altra volta”. Quel giorno andai su tutte le furie, e mi fumai un sigaro intero, completamente immobile al centro del piccolo piazzale adibito ai suoi del tutto insignificanti servigi. I due benzinai mi osservavano con sguardo imbarazzato, e mentre fumavo a tutto spiano ripetevo dentro me: “questo è un incubo”.
Due volte a settimana, come mia consuetudine, continuai a fare benzina. Quest'evento mi dava una gioia pazza, come di un soldato che deve affrontare una missione difficile, ma ne è allo stesso tempo esaltato. Qualche volta mi lasciavo andare a qualche scenata drammatica (una volta volli sapere il suo albero genealogico completo, fingendomi interessato), oppure, colto da improvvisa ispirazione, pretendevo di mettermi benzina da solo adducendo come motivo “"il profondo rispetto che provavo per il lavoro altrui”.
Tutto questo, finchè non iniziai ad architettare un piano pazzesco e surreale, per farla finita con tutta questa storia, che al contempo mi sembrava assurda e tragica. La giudicavo, citando un'espressione ripresa da uno dei monologhi che ebbi con Giampi in quel periodo, "una farsa destinata a distruggermi".

Un bel giorno, pensai: dare fuoco alla pompa di benzina sarebbe un gesto coraggioso, simbolico (le fiamme depurano dal lerciume), e definitivo. Sarei stato arrestato, o internato (va un po' a sapere come si comporterebbe la giustizia in casi del genere), o l'avrei scampata emigrando, lasciandomi alle spalle una vita che, come potrete immaginare, mi ripugnava in ogni suo momento.
Circa due mesi erano passati dalla prima scenata. Così pensai che l'unico modo per sbarazzarmi in un solo colpo di quella situazione deprimente (benzinaio + lavoro + Giampi unico amico + numerose ossessioni e manie) fosse dare un taglio netto, produrmi in un gesto plateale, vendicativo, folle.
Il fatto è che starmene con le mani in mano proprio non mi riesce: devo sempre avere un motivo di vita, una sfida, un'antipatia momentanea. Non riesco a chiacchierare col mio prossimo senza provare un senso di repulsione, o devozione, per esso. Nulla è mai immobile nel mio cuore sempre in ansia. La mia mente è abnorme, fatta per grandi odi e grandi amori; nulla mi atterrisce di più d'un cervello mediocre, e nulla mi da più da pensare che una mente sublime. Allo stesso tempo, le vite piccole e anonime suscitano in me attenzione, mista a pietà: secondo me chi vive senza alcuna aspirazione tranne quella di esserci, chi riesce a fare questo conservando anche dignità e un certo senso della bellezza, ebbene, egli è in equilibrio col creato. Sarà sempre distante da me e dai miei tentativi di peggiorarmi, ma è il massimo dell'espressione umana che riesco immaginare: un uomo che fa una vita da cani, e ne è tutto sommato soddisfatto. Ciò prevede una resistenza alle frustrazioni impressionante, per la quale provo profondo rispetto e dalla quale mi sento estremamente distante.

Architettai il piano nei minimi particolari. Comprai un biglietto per il Messico e uno Zippo nuovo di zecca. Sarei passato alla pompa di benzina alle 5.05 AM. Il volo per la terra degli Aztechi, dove mi sarei rosolato al sole come una lucertola e forse sarei morto, era alle 7.08 AM. Avevo due ore e tre minuti per far saltare in aria la pompa, correre via come un lampo verso l'aeroporto, e imbarcarmi sull'aereo della salvezza.

La notte passava elettrica, le strade erano bagnate dalla pioggia, rivoli d'acqua venavano l'asfalto. Ero solo, inquieto. Non avevo paura, ma mi chiedevo se quel gesto estremo sarebbe servito a qualcosa. Mi stavo punendo? Era forse questo il motore di un gesto così definitivo? O era la solitudine? O la sofferenza? Forse era la gente. O forse era che stavo male, ed era l'unica maniera di mettermi in mostra. Ma come facevo a stare male, io che ero così intelligente? Io, così sensibile, così resistente alle avversità? Mi rigiravo lo Zippo tra le dita, e non ne venivo a capo.
Non potevo chiedere consiglio a nessuno. Iniziai a scrivere una lettera a Giampi:

Carissimo,
buonasera. Come va?
Domani è il grande giorno. Io e te fuggiremo, dopo esserci lasciati alle spalle questa vitaccia. Potranno accadere tre cose, dopo l'estremo gesto. Anzi, quattro: morire, essere arrestato, buttato in un nevrocomio, o - con buona probabilità - riuscirò a imbarcarmi sul volo per il Messico. Mi hanno detto che è un posto pieno di gente simpatica, e poco caro, anche. E poi

Una lacrima fece capolino dai miei occhi, bagnò la carta. Ero l'uomo più solo del mondo. Continuai.

E poi dicono ci sia un sacco di roba da vedere, in Messico. Costa poco, il Messico. Il Messico costa poco. E' quasi gratis, il Messico. Il Messico è una terra meravigliosa, ricca di siti archeologici, che nessuno conosce. Il Messico

Le lacrime sgorgavano, e non ci potevo fare niente. Sentivo qualcosa che mi scuoteva, da dentro. Iniziai a tremare, mi guardai intorno desolato. In terra c'era la borsa che avevo preparato: conteneva poche cose, e neanche una foto. Ero molto stanco. Tutta quella tensione, quell'incomunicabilità. Piansi, tanto. Poi mi addormentai, fino al mattino.

 



Sono Marco di Porto, ho 24 anni, mi sto laureando al DAMS di Roma con una tesi su "Internet e movimento antagonista", e faccio il pubblicista da qualche anno. Attualmente lavoro in pianta stabile in un ufficio stampa. Ho girato un paio di cortometraggi, ma ho visto che il dorso era uguale alla parte davanti. Nel tempo libero, oltre a scrivere racconti che mettono in dubbio le capacità intellettive del genere umano, mi ubriaco, mi drogo e tento di investire i pedoni del mio quartiere.



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