L’ORDA
( – tre brani del libro L’orda – quando gli albanesi eravamo noi )

 

Gian Antonio Stella

 

Di tutta la storia della nostra emigrazione abbiamo tenuto solo qualche pezzo. La straordinaria dimostrazione di forza, di bravura e di resistenza dei nostri contadini in Brasile o Argentina. Le curiosità di città come Nova Milano o Nova Trento, sparse qua e là ma soprattutto negli Usa dove si contano due Napoli, quattro Venezia e Palermo, cinque Roma. Le lacrime per i minatori mandati in Belgio in cambio di 200 chili l’uno di carbone al giorno e morti in tragedie come quella di Marcinelle. I successi di manager alla Lee Jacocca, di politici alla Mario Cuomo, di un stuolo di attori da Rodolfo Valentino a Robert de Niro, da Ann Bancroft (all’anagrafe Anna Maria Italiano) a Leonardo Di Caprio. La generosità delle rimesse dei veneti e dei friulani che hanno dato il via al miracolo del Nordest. La stima conquistata alla Volkswagen dai capireparto siciliani o calabresi. E su questi pezzi di storia abbiamo costruito l’idea che noi eravamo diversi. Di più: eravamo migliori.
Non è così. Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. “Loro” sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. “Loro” si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L’abbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che “gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi”. “Loro” vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said e del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami o mettendoli all’asta nei mercati d’oltralpe. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati, con l’accusa di rubare il lavoro agli altri. Importano criminalità? Noi ne abbiamo esportata dappertutto.
Fanno troppi figli rispetto alla media italiana mettendo a rischio i nostri equilibri demografici? Noi spaventavamo allo stesso modo gli altri. Basti leggere i reportage sugli Usa della giornalista Amy Bernardy, i libri sull’Australia di Tito Cecilia o Brasile per sempre di Francesca Massarotto. La quale racconta che i nostri emigrati facevano in media 8,25 figli a coppia ma che nel Rio Grande do Sul “ne mettevano al mondo fino a 10, 12 e anche 15 così com’era nelle campagne del Veneto, del Friuli e del Trentino”.
Perfino l’accusa più nuova dopo l’11 settembre, cioè che tra gli immigrati ci sono “un sacco di terroristi”, è per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo, per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Buda, un fanatico romagnolo che si faceva chiamare Mike Boda e che il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street fermando il respiro di New York ottant’anni prima di Osama Bin Laden. (...)


Una xenofobia volta per volta coltivata, eccitata, cavalcata da questo o quel movimento demagogico. E basata, da un secolo all’altro, da un decennio all’altro, da un paese all’altro, sugli stessi stereotipi. Le stesse paure. Le stesse parole. Che riuscivano a far presa perfino su futuri statisti come Winston Churchill il quale, in attesa di prendere una cotta di cui poi si vergognerà per il Duce, sprezzantemente chiamava gli italiani “suonatori d’organetto” e l’Italia “la puttana d’Europa”. Opinione, come vedremo, largamente condivisa nel mondo anglosassone.
Un esempio? Prendiamo l’Australia, che alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Sydney ha cercato di riscrivere la storia in tinte pastello con la bambinuccia dai capelli rossi che abbraccia il buon selvaggio aborigeno e idealmente tutti gli immigrati. “Mi rincresce di dover dare l’allarme”, ironizza nel luglio del 1925, sul Corriere, Filippo sacchi, ma “l’Italia sta preparandosi a invadere l’Australia. Lo so, nessuno da noi ne aveva mai avuto sentore. Eppure è un fatto ormai denunziato e incontestabile. Vengono i brividi a pensare che milioni di italiani si alzano tutte le mattine, si fanno la barba, prendono in caffelatte ed escono per i loro affari, senza nemmeno immaginare che il loro paese è sul punto nientemeno di occupare un continente.”
Spiega, il grande inviato nel Queensland, che i giornali locali sono pieni di titoli sull’ “invasione italiana” e che al “congresso dell’Australian Native Association”, così forte da avere 50.000 mila “aderenti d’ogni ceto, specie industriale, commerciale e professionale”, il presidente, mister Ginn, ha tuonato: “Che cosa è questo improvviso intensificarsi del fiotto migratorio? C’è forse qualche influenza in gioco? Qualche piano organizzato di penetrazione pacifica? Australiani, all’erta. Badate che la vostra apatia non prepari un terribile risveglio per i vostri figli. Noi non vogliamo che le condizioni sociali ed economiche dell’Australia siano minate da un inevitabile incrocio con gli stranieri, incapaci di sentire le nostre tradizioni, di rispettare la nostra bandiera”. Dopo di che l’assise si è chiusa “con un ordine del giorno che invoca il diritto d’immigrazione in Australia per le razze non affini e non confacentesi”. Cioè la nostra.
Ma “perché tutto questo accanimento contro gli italiani? Ve lo spiego io: per mantenere l’Australia ‘bianca’”, ride amaro Sacchi. “Keep the Australia white, è la vera parola d’ordine di questa crociata. Infatti noi non siamo bianchi, siamo “oliva”. Olive-skinned influx, diciamo.” E racconta che un grande quotidiano di Melbourne ha titolato proprio così l’annuncio di un’inchiesta del governo del Queensland sulla nostra immigrazione: “L’invasione delle pelli-oliva”. E che al congresso delle donne “un’oratrice autorevole, nell’esortare le massaie australiane a non comperare frutta dai negozi italiani, anche se questi praticano prezzi più moderati, lamenta che dopo aver tanto fatto per difendere l’Australia ‘bianca’ della minaccia degli asiatici, ‘emigranti oliva continuano a stabilirsi nel paese’”. E si trattava in larghissima maggioranza, sia detto per la memoria corta dei razzisti nostrani, di lombardi, piemontesi, veneti...
“ Siamo tanto una razza degradata che si esortano le donne australiane a non sposare i nostri emigranti”, prosegue l’inviato del Corriere. E racconta che all’assemblea di Victoria della “Rssila”, l’associazione dei combattenti, è stato detto: “I matrimoni delle nostre donne con questi forestieri fanno un’impressione disgustosa.” Bravi camerati! Il nostro sangue sporca, imbratta, adultera il loro sangue australiano. Pollute, polluted è l’espressione più concisa e brutale di questo concetto. Ma anche quelli che parlano per eufemismi si spiegano ugualmente chiaro”. E cita Sir John McWhae, “rappresentante ufficiale a Londra di uno dei più importanti stati dell’Australia”, contrario all’ipotesi che i connazionali “diluiscano” il “puro sangue britannico col sangue di stranieri che non [...] si confanno”.
Era per metà divertito e per metà fuori della grazia di Dio, Filippo Sacchi, nello scrivere quello e altri articoli del suo reportage durato alcuni mesi. E raccontò schifato di un ricco uomo d’affari di Melbourne che aveva scritto: “Noi abbiamo una vaga disistima di cotesti stranieri della pelle scura, spesso di statura al disotto della normale, gesticolanti e irruenti”. Di un giornale che tuonava: “Vogliamo popolare il nostro territorio con nordici e con latini?”. E di un razzismo così incolto che due o tre persone “vedendo un libro o un giornale nostro, esprimono la loro gradevole sorpresa nel costatare che abbiamo le stesse lettere dell’alfabeto e gli stessi caratteri dei loro”.


Ce l’avevamo cucita addosso, questa fama di “sozzoni”. Né si può negare che spesso, per quanto tutto vada inquadrato nel momento storico, ce l’andavamo a cercare. Lo riconosceva la stessa stampa anarchica come Il Risveglio, che nel novembre 1904 scriveva che i manovali di una compagnia che lavoravano a qualche infrastruttura in mezzo a un bosco “hanno costruito una baracca per non avere da pagare l’alloggio e dormono per terra, in mezzo alle immondizie, come maiali”. E se qualche razzista nostrano vuol raccontare a se stesso che si trattava di “terroni”, se lo tolga dalla testa: in quel momento, lì in Svizzera, erano quasi tutti veneti: piemontesi, lombardi, liguri, emiliani...
Le descrizioni dei posti in cui dormivano i nostri, del resto, sono incredibilmente simili da un capo all’altro del pianeta. “ Sablon, presso Metz, visitai [...] alcune stanze a pian terreno che sembravano stalle, e tali devono essere state un giorno, dove, secondo quanto mi era stato detto, dovevano abitare circa cinquanta operai italiani. Non aria, non luce; il letto consisteva anche qui in un vecchio pagliericcio indecente. L’aria era umida, corrotta, fetente, irrespirabile; solamente degli animali potevano vivere là dentro” racconta Giacomo Pertile. “A Bochum, in Vestfalia, trovai [...] circa cento operai di un paese degli Abruzzi che dormivano su un po’ di paglia sparsa sulla nuda terra, come si usa per gli animali; a Essen esistono ancora due baracche, dove gli operai, tutti degli Abruzzi, dormono in casse di legno allineate per terra, nelle quali ci sta un po’ di paglia con uno straccio nero che serve da coperta, e un altro che serve da lenzuolo. E quando alla mattina, nella semi-oscurità dei primi albori, questi operai sollevano il capo dalle loro casse, essi destano, in chi li vede per la prima volta, la macabra idea di una schiera di morti che risorgono dalle loro bare”.
“È con un senso profondo di umiliazione che mi accingo ad occuparmi di questo argomento”, sospira De Michelis. “Ricordo lo spettacolo a cui assistei, visitando di notte le camere degli italiani nel villaggio di Naters, poco tempo dopo l’inizio dei lavori del Sempione. Allora scrissi: “Sono stanzuccie terrene, già adibite come ripostigli o stalle; basse di soffitto, umide tutte, alcune con filtrazioni delle vicine latrine, attorniate quasi sempre da quei fumiers (concimai) tanto spesso indecenti nei piccoli villaggi del paese. In quelle stanze dormono da otto a dieci, venti operai... due o tre per letto”. Ma quello che allora [...] ignoravo, era che in quegli stessi letti, a una mezz’ora di intervallo, dormivano in egual numero e nello stesso modo altrettanti operai appartenenti alla squadra di minatori a cui i primi dormienti avevano dovuto succedere nella galleria!”.
In Belgio, dice ad Abramo Seghetto in Sopravvissuti per raccontare l’udinese Umberto Feletig, lui pure umiliato dai cartelli di “affittasi” che intimavano “Etrangers, s’abstenir” (Gli stranieri si astengano), i minatori italiani nel secondo dopoguerra vivevano “come nei pollai”. In dormitori chiamati “cantine” che a volte erano immensi, spesso avevano due soli cessi per 1800 persone, come quello in cui finì Antonio Ciscato, quasi sempre erano luridi. A Flenu ce n’erano due, di cantine. E Giuseppe Sanson, un trevisano che arrivò lassù non molto tempo fa da quella San Vendemiano oggi nota per Alex Del Piero e la ricchezza pro capite, finì nella peggiore: Eravamo in 120-130. La cantina era della società delle miniere, e gestita da un solo cantiniere. [...] Il mangiare era deplorevole, le stanze e la pulizia erano qualcosa di spaventoso. [...] I gabinetti non funzionavano ed erano sempre sporchi. Le lenzuola erano fatte lavare dal cantiniere ogni quindici giorni”.
L’europarlamentare leghista Mario Borghezio sale oggi sui treni con le bombolette di disinfettante perché “le nigeriane e i loro giganteschi gigolò spesso appoggiano i loro piedi nudi e maleodoranti sui sedili, fanno operazioni di toeletta personale anche podologica e divorano i cibi imbrattando i convogli”. Ma dormirebbe uno dei nostri extracomunitari di oggi nelle lenzuola cambiate ogni due settimane di un letto usato insieme da due o tre minatori che diventano spesso quattro o sei con la rotazione dei turni? Eppure così dormivano i nostri nonni, fino a pochi decenni fa. Tanto che in Svizzera un rapporto di polizia del quartiere di Spalen trovato da Manz diceva che per risparmiare i nostri dormivano sempre nello stesso letto in due, “alla maniera italiana”. E in Inghilterra la rivista medica Lancet pubblicava un dossier secondo il quale, come ricorda Lucio Sponza, “il sovraffollamento e la sporcizia tra gli italiani erano presentati come il loro stile di vita naturale”. Diceva infatti: “Gli italiani sono alloggiati miseramente, stretti assieme quattro o cinque per letto, quando ne hanno uno in cui dormire. [...] Per loro la parola ‘casa’, così sacra alle orecchie degli inglesi, non ha nessun significato e per loro la decenza, la pulizia e la modestia sono cose inimmaginabili”. Insomma: “Aderiscono al loro innato amore per il sovraffollamento, l’aria viziata e la sporcizia”.


(Brani tratti dal libro L’orda – quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano, 2002)



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