DOPO L’IMPERO
- Ouverture -

Emmanuel Todd

Gli Stati Uniti stanno diventando per il mondo un problema. Eravamo abituati piuttosto a vedervi una soluzione. Garanti della libertà politica e dell'ordine economico per mezzo secolo, essi appaiono sempre più come un fattore di disordine internazionale, mantenendo, là dove possono, incertezza e conflitto. Esigono dal pianeta intero che riconosca che certi Stati di importanza secondaria costituiscono un "asse del male", che dev'essere combattuto e annientato: l'Iraq di Saddam Hussein, verboso ma insignificante in quanto potenza militare, la Corea del Nord di Kim Jong-II, primo (e ultimo) comunismo ad avere instituito una successione per primogenitura, residuo di un'altra epoca votata a sparire in assenza di tutti gli interventi esterni. L'Iran, altro bersaglio ossessivo, è un paese strategicamente importante ma chiaramente incamminato in un processo di rasserenamento interno ed esterno. Eppure il governo americano lo stigmatizza come membro a pieno diritto di questo asse del male. Gli Stati Uniti hanno provocato la Cina bombardando la sua Ambasciata a Belgrado durante la guerra del Kosovo, riempendo di microfoni facilmente reperibili un Boeing destinato ai suoi dirigenti. Tra tre abbracci pubblici e due accordi di disarmo nucleare, hanno anche provocato la Russia appoggiando attraverso l'intermediazione di Radio Free Europe delle emissioni in lingua cecena, inviando in Georgia dei consiglieri militari, stabilendo delle basi permanenti nell'ex-Asia centrale sovietica, di fronte all'armata russa. Infine, somma teorica di questa febbre militarista: il Pentagono lascia filtrare dei documenti progettanti impatti nucleari su paesi non nuclearizzati. Il goveno di Washington applica così un modello strategico classico ma inadatto a una nazione di scala continentale, la "strategia del fuoco", che raccomanda di apparire irresponsabili ad eventuali avversari per meglio intimidirli. Quanto all'installazione di uno scudo spaziale, che spezza l'equilibrio nucleare e lo sviluppo definitivo che permetterebbe agli Stati Uniti di regnare su tutto il mondo con il terrore, ci costringe a proiettarci in un universo degno della fantascienza. Come stupirsi del nuovo atteggiamento di sospetto e di paura che coglie, gli uni dopo gli altri, tutti coloro che stabilirebbero la loro politica estera a partire da un assioma rassicurante: l'unica superpotenza è prima di tutto responsabile?

Gli alleati e clienti tradizionali degli Stati Uniti sono tanto più inquieti quanto più si trovano vicini alle zone designate dal loro leader come sensibili. La Corea del Sud ricorda, ad ogni occasione, che non si sente minacciata dal suo vicino archeo-comunista del nord; il Kuwait afferma di non avere più contenziosi con l'Iraq.
La Russia, la Cina e l'Iran, tre nazioni la cui priorità assoluta è lo sviluppo economico, non hanno che una preoccupazione strategica: resistere alle provocazioni dell'America, non fare niente; o meglio, in un capovolgimento che sarebbe parso inconcepibile dieci anni fa, militare per la stabilità dell'ordine del mondo. Per quel che riguarda i grandi alleati degli Stati Uniti sono sempre più perplessi, sempre più a disagio. In Europa, dove solo la Francia si impuntava per l'indipendenza, osserviamo con una certa sorpresa una Germania irritata e un Regno Unito, fedele tra i fedeli, decisamente inquieto. Dall'altro lato dell'Eurasia, il silenzio del Giappone esprime un malessere sempre crescente piuttosto che un'adesione senza difetto.
Gli Europei non comprendono perché l'America si rifiuti di regolare la questione israeliano-palestinese, quando ne ha l'assoluto potere. Cominciano a chiedersi se Washington non sia in fondo soddisfatta che un focolaio di tensione si perpetui nel vicino Oriente e che i popoli arabi manifestino un'ostilità sempre maggiore verso il mondo occidentale.
L'organizzazione Al Qaida, banda di terroristi malati e geniali, è emersa da una regione definita e limitata del pianeta, l'Arabia Saudita, anche se Bin Laden e i suoi luogotenenti hanno reclutato quialche transfuga egiziano e un pugno di miserabili venuti dalle periferie dell'Europa occidentale. L'America si sforza comunque di trasformare Al Qaida in una potenza tanto stabile quanto malefica, il "terrorismo", onnipresente - dalla Bosnia alle Filippine, dalla Cecenia al Pakistan, dal Libano allo Yemen - legittimando così qualsiasi azione punitiva ovunque e in ogni momento. L'elevazione del terrorismo a status di forza universale istituzionalizza uno stato di guerra permanente su scala planetaria: una quarta guerra mondiale, secondo certi autori americani che non hanno già più paura del ridicolo considerando la guerra fredda come la terza. Tutto accade come se gli Stati Uniti cercassero, per un'oscura ragione, il mantenimento di un certo livello di tensione internazionale, una situazione di guerra limitata ma endemica.
Appena un anno dopo l'11 settembre, una tale percezione dell'America è paradossale. Infatti nelle ore che avevano seguito l'attentato al World Trade Center, avevamo avuto la rivelazione della dimensione più profonda e simpatica dell'egemonia americana: un potere accettato, in un mondo che ammetteva, in grande maggioranza, che un'organizzazione capitalistica della vita economica, e democratica della vita politica erano le sole ragionevoli e possibili. Si era visto allora chiaramente che la forza dell'America era la sua legittimità. La solidarietà delle nazioni del mondo era stata immediata; tutte avevano condannato l'attentato. Dagli alleati europei era venuto un desiderio attivo di solidarietà, espresso nell'impegno dell'Otan. Da parte sua la Russia aveva scelto l'occasione di mostrare che più di tutto desiderava delle buone relazioni con l'Ovest. E' lei che ha fornito all'Alleanza del Nord afghana gli armamenti di cui necessitava e aperto alle forze armate degli Stati Uniti lo spazio strategico indispensabile in Asia centrale. Senza la partecipazione attiva della Russia, l'offensiva americana in Afghanistan sarebbe stata impossibile.
L'attentato dell'11 settembre ha affascinato gli psichiatri: la rivelazione di una fragilità aveva destabilizzato un pò dappertutto non solo gli adulti, ma anche i loro figli. Una vera crisi psichica aveva messo allora a nudo l'architettura mentale del pianeta, di cui l'America, unica ma legittima superpotenza, costituiva come una chiave di volta incosciente. Pro e antiamericani erano come bambini, privati dell'autorità di cui avevano bisogno, sia per sottomettervisi, sia per combatterla. In breve, l'attentato dell'11 settembre aveva rivelato il carattere volontario della nostra servitù. La teoria del soft power di Joseph Nye era magnificamente verificata: l'America non regnava soltanto o principalmente con le armi ma per il prestigio dei suoi valori, delle sue istituzioni, della sua cultura.
Tre mesi più tardi, il mondo sembrava ritornato al suo equilibrio normale. L'America aveva vinto, ridivenuta, in forza di qualche bombardamento, onnipotente. I vassalli credevano di poter ritornare ai propri affari, essenzialmente economici e interni. I contestatori si apprestavano a riprendere, là dove l'avevano lasciata, la loro denuncia eterna ed incantatoria dell'impero americano.
Ci si aspettava comunque che la ferita dell'11 settembre - molto relativa se si pensa a cosa furono le esperienze europee, russe, giapponesi, cinesi o palestinesi della guerra - riavvicinasse l'America alla sorte comune dell'umanità, la rendesse più sensibile ai problemi dei poveri e dei deboli. Il mondo fece un sogno: il riconoscimento da tutte, o quasi tutte, le nazioni della legittimità del potere degli Stati Uniti avrebbe condotto all'emergere di un vero impero del bene, i dominati planetari accettando il potere centrale, sottomettendosi i dominanti americani all'idea di giustizia.
E' allora che il comportamento internazionale degli Stati Uniti cominciò a determinare un cambiamento di percezione. Si vide riemergere, in tutto l'arco del 2002, la tendenza all'unilateralismo già manifesto nella seconda metà degli anni 90, con il rifiuto di Washington, nel dicembre del 1997, del trattato di Ottawa che proibiva le mine anti-uomo, nel luglio del 1998, dell'accordo istituente una Corte penale internazionale. La storia sembrò riprendere il suo corso anteriore con il rifiuto degli Stati Uniti del protocollo di Kyoto sulle emissioni di gas carbonico.
La lotta contro Al Qaida, che avrebbe potuto istituzionalizzare la legittimità degli Stati Uniti se fosse stata condotta modestamente e ragionevolmente, ha messo in evidenza un'irresponsabilità demultiplicata. L'immagine di un'America narcisistica, agitata e aggressiva ha rimpiazzato, in qualche mese, quella della nazione ferita, simpatica e indispensabile al nostro equilibrio. Siamo a questo punto. Ma dove siamo veramente?
Perché il fattore più inquietante nella situazione attuale è in fondo l'assenza di un modello esplicativo soddisfacente del comportamento americano. Perché la "superpotenza solitaria" non è più, conformemente alla tradizione stabilita all'indomani della seconda guerra mondiale, fondamentalmente bonaria e ragionevole? Perché è così attiva e destabilizzatrice? Perché è onnipotente? O, al contrario, perché si sente sfuggire dalle mani il mondo che sta per nascere?
Prima di procedere all'elaborazione di un modello esplicativo rigoroso del comportamento internazionale degli Stati Uniti, dobbiamo sbarazzarci dell'immagine standardizzata di un'America il cui solo problema sarebbe l'eccesso di potenza. Gli antiamericani professionisti non ci saranno dunque di alcuna utilità, ma gli ideologi dell' establishment saranno delle guide molto sicure.

Ritorno alla problematica del declino.

Gli antiamericani strutturali propongono la loro risposta abituale: l'America è cattiva per natura, incarnazione dello stato della malvagità del sistema capitalistico. E' oggi un gran momento per questi antiamericani di sempre, che siano o meno ammiratori di piccoli despoti locali come Fidel Castro, che abbiano o meno compreso il fallimento senza appello dell'economia dirigistica. Infatti possono finalmente evocare senza sorridere il contributo negativo degli Stati Uniti all'equilibrio e alla felicità del pianeta. Non sbagliamoci, il rapporto al reale e al tempo di questi antiamericani strutturali è quello degli orologi fermi che sono comunque in orario per due volte al giorno. I più tipici di loro sono americani. Leggete i testi di Noam Chomsky: non vi troverete alcuna coscienza dell'evoluzione del mondo. Dopo come prima del crollo della minaccia sovietica, l'America è la stessa, militarista, oppressiva, falsamente liberale, in Iraq oggi come in Vietnam un quarto di secolo fa. Ma l'America secondo Chomsky non è solo cattiva, è onnipotente.
In un genere più culturale e più moderno, possiamo evocare il Jihad vs. Mc World di Benjamin Barber, che ci disegna il quadro di un mondo devastato dallo scontro fra una disprezzabile infracultura americana e dei non meno disprezzabili tribalismi residuali. Ma la vittoria annunciata dell'americanizzazione suggerisce che Benjamin Barber rimane, al di là della sua posizione critica, e senza esserne pienamente cosciente, un nazionalista americano. Anche lui sovrastima la potenza del proprio paese.
Nello stesso registro di sovraestimazione troviamo la nozione di iperpotenza americana. Qualunque sia il rispetto che può ispirare la politica estera condotta da Hubert Védrine quando era ministro degli Affari esteri, dobbiamo ammettere che questo concetto, che lui predilige, acceca gli analisti più di quanto non li illumini.
Queste rappresentazioni non ci sono d'aiuto per comprendere la situazione attuale. Presuppongono un'America esagerata, spesso nella dimensione del male, sempre in quella della potenza. Ci impediscono di penetrare il mistero della politica estera americana perché la soluzione dev'essere ricercata sul fronte della debolezza e non della potenza. Una traiettoria strategica instabile ed aggressiva, in breve l'andatura ubriaca della "superpotenza solitaria" non può essere spiegata in maniera soddisfacente se non attraverso la messa a nudo di contraddizioni non risolte o irrisolvibili, e dei sentimenti di insufficienza e di paura che ne derivano.
La lettura delle analisi prodotte dall'establishment americano è più chiarificatrice. Al di là di tutte le loro divergenze, troviamo in Paul Kennedy, Samuel Huntington, Zbigniew Brzezinski, Henry Kissinger o Robert Gilpin, la stessa visione misurata di un'America che, lontana dall'essere invincibile, deve gestire l'inesorabile riduzione della propria potenza relativa in un mondo sempre più popolato e sviluppato. Le analisi della potenza americana sono diverse: economica in Kennedy o Gilpin, culturale e religiosa in Huntington, diplomatica e militare in Brzezinski o Kissinger. Ma sempre ci troviamo al cospetto di una rappresentazione inquieta della forza degli Stati Uniti, di cui il potere sul mondo appare fragile e minacciato.
Kissinger, al di là della sua fedeltà ai principi del realismo strategico e dell'ammirazione nei confronti dell'intelligenza sua propria, manca oggi di una visione di insieme. La sua ultima opera, Does America need a Foreign Policy?, non è che un catalogo di difficoltà locali. Ma noi troviamo in The Rise and Fall of Great Powers, di Paul Kennedy, opera già vecchia perché datata 1988, la rappresentazione molto utile di un sistema americano minacciato di imperial overstretch, di cui la sovraestensione diplomatica e militare deriva classicamente da una caduta di potenza economica relativa. Samuel Huntington ha pubblicato, nel 1996, The Clash of Civilisation and the Remaking of World Order, versione allungata di un articolo apparso nel 1993 nella rivista Foreign Affairs, il cui tono è decisamete deprimente. Si ha spesso l'impressione leggendo il suo libro di scorrere un pastiche strategico del Declino dell'Occidente di Spengler. Huntington si spinge fino a contestare l'universalizzazione della lingua inglese e raccomanda un ripiegamento modesto degli Stati Uniti sull'alleanza ovest-europea, blocco cattolico-protestante, rigettando gli "ortodossi" est-europei e abbandonando al loro destino gli altri pilastri del sistema strategico americano che sono il Giappone e Israele, tracciati col marchio dell'alterità culturale.
La visione di Robert Gilpin combina considerazioni economiche e culturali; è molto universitaria, molto prudente ed intelligente. Poiché crede nella persistenza dello Stato-nazione Gilpin scorge, nel suo Global Political Economy, le debolezze virtuali del sistema economico e finanziario americano, con questa minaccia fondamentale di una "regionalizzazione" del pianeta: se l'Europa e il Giappone organizzano ciascuno da parte propria le loro zone di influenza, renderanno inutile l'esistenza di una centralità americana nel mondo, con tutte le difficoltà che implicherebbe, in una tale configurazione, la ridefinizione di un ruolo economico degli Stati Uniti.
Ma è Brzezinski che, nel 1997, in The Grand Chessboard, si è mostrato più chiaroveggente, malgrado la sua mancanza di interesse per le questioni economiche. Per capire meglio la sua rappresentazione delle cose, bisogna fare girare davanti a sé un mappamondo e prendere coscienza dello straordinario isolamento geografico degli Stati Uniti: il centro politico del mondo è in realtà lontano dal mondo.. Si accusa spesso Brzezinki di essere un semplice imperialista, arrogante e brutale. Le sue raccomandazioni strategiche possono certo fare sorridere, in particolare quando designa l'Ucraina e Uzbekistan come oggetti necessari dell'attenzione dell'America. Ma la sua rappresentazione di una popolazione e di un'economia mondiale concentrata in Eurasia, un'Eurasia riunificata dalla caduta del comunismo e dimentica degli Stati Uniti, isolati nel loro nuovo mondo, è in qualche modo fondamentale, un'intuizione folgorante della reale minaccia che incombe sul sistema americano.

Il paradosso di Fukuyama: del trionfo dell'inutilità dell'America

Se vogliamo comprendere l'inquietudine che rode l'establishment americano, dobbiamo anche riflettere seriamente sulle implicazioni strategiche per gli stessi Stati Uniti dell'ipotesi di una fine della storia proposta da Francis Fukuyama. Datata 1989-1992, questa teoria ha divertito gli intellettuali parigini, stupiti dall'uso semplificato ma altamente fruibile che Fukuyama fa di Hegel. La storia avrebbe un senso e il suo punto d'arrivo sarebbe l'universalizzazione della democrazia liberale. La caduta del comunismo non sarebbe che una tappa in questo cammino della libertà umana, successiva ad un'altra tappa importante che fu la caduta delle dittature dell'Europa del Sud: in Portogallo, in Spagna o in Grecia. L'emergere della democrazia in Turchia si iscrive in questo movimento, così come il consolidamento delle democrazie latino-americane. Proposta nello stesso momento del crollo del sistema sovietico, questo modello della storia umana è stato recepito nell'insieme in Francia come un esempio tipico dell'ingenuità e dell'ottimismo americani. Per chi si ricorda dell'Hegel reale, sottomesso alla Prussia, rispettoso dell'autoritarismo luterano, venerante lo Stato, questa rappresentazione in democratico individualista può divertire. E' piuttosto un Hegel addolcito dagli studi Disney che ci ha proposto Fukuyama. E poi, Hegel si interessava alla marcia dello spirito nella storia ma Fukuyama, lui stesso, quando evoca l'educazione, privilegia sempre il fattore economico e sembra spesso più vicino a Marx, profeta di una tutt'altra fine della storia. Il carattere secondario dello sviluppo educativo e culturale nel suo modello fanno di Fukuyama un hegeliano ben strano, certamente contaminato dall'economismo delirante della vita intellettuale americana.
Espresse queste riserve, bisogna comunque riconoscere a Fukuyama un colpo d'occhio empirico molto vivo e pertinente sulla storia in costruzione. Osservare, nel 1989, che l'universalizzazione della democrazia liberale diveniva una possibilità meritevole d'esame era in sé una bella performance. Quanto agli intellettuali europei, meno sensibili al movimento della storia, andavano concentrando le loro facoltà di analisi sul processo del comunismo, ovvero sul passato. Fukuyama ha avuto il merito di speculare sull'avvenire: è più difficile ma più utile. Da parte mia penso che la visione di Fukuyama contiene una parte importante di verità ma che non percepisce in tutta la sua ampiezza educativa e demografica la stabilizzazione del pianeta.
Lasciamo da parte per un istante il problema della validità dell'ipotesi di Fukuyama sulla democratizzazione del mondo e concentriamoci sulle implicazioni a medio termine per gli Stati Uniti.
Fukuyama integra al suo modello la legge di Michael Doyle sull'impossibilità della guerra tra democrazie liberali, che data dell'inizio degli anni 80, ispirata a Kant più che a Hegel. Con Doyle ci troviamo a confrontarci con un secondo caso di empirismo anglosassone, ingenuo in apparenza ma produttivo in pratica. Che la guerra sia impossibile tra democrazie è verificabile con l'esame della storia concreta che prova che, se le democrazie liberali non sfuggono alla guerra con dei sistemi avversi, non si combattono mai fra di loro.
La democrazia liberale moderna propende verso la pace in tutte le circostanze. Non si può certamente rinfacciare alle democrazie francesi e britanniche degli anni 1933-1939 il loro bellicismo; non si può che constatare, con rammarico, l'isolazionismo della democrazia americana fino a Pearl Harbor. Senza negare una spinta nazionalista in Francia e in Gran Bretagna prima del 1914, bisogna ammettere che sono l'impero Austrungarico e la Germania, dove il governo non era, in pratica, responsabile davanti al Parlamento, che hanno trascinato l'Europa nella Prima Guerra mondiale.
Il semplice buon senso suggerisce che un popolo di un livello educativo elevato e di un livello di vita soddisfacente avrà difficoltà a produrre una maggioranza parlamentare eletta capace di dichiarare una guerra maggiore. Due popoli organizzati in maniera similare troveranno inevitabilmente una soluzione pacifica alla loro controversia. Ma la combriccola incontrollata che dirige, per definizione, un sistema non democratico e non liberale, ha molto più margine d'azione per decidere di aprire delle ostilità, contro il desiderio di pace che è proprio della maggior parte degli uomini comuni.
Se aggiungiamo all'universalizzazione della democrazia liberale (Fukuyama) l'impossibilità della guerra tra democrazie (Doyle), otteniamo un pianeta installato in una pace perpetua.
Un cinico della vecchia tradizione europea sorriderà, evocando l'immutabile ed eterna capacità dell'uomo di provocare il male e la guerra. Ma, senza soffermarci su questa obbiezione, continuiamo il ragionamento: cerchiamo le implicazioni di un tale modello per l'America. La sua specializzazione planetaria è divenuta, per gioco della storia, la difesa di un principio democratico percepito come minacciato: dal nazismo tedesco, dal militarismo giapponese, dal comunismo russo o cinese. La Seconda Guerra mondiale e poi la guerra fredda hanno, per così dire, istituzionalizzato questa funzione storica dell'America. Ma se la democrazia trionfa dappertutto, noi arriviamo al paradosso finale che gli Stati Uniti divengono, in quanto potenza militare, inutili per il mondo e devono rassegnarsi ad essere una democrazia fra le altre.
Questa inutilità dell'America è una delle due angosce fondamentali di Washington, e una delle chiavi che permettono di comprendere la politica estera degli Stati Uniti. La formalizzazione di questa nuova paura da parte dei capi della diplomazia americana ha preso più spesso, com'è frequente, la forma di un'affermazione inversa: nel febbraio 1998, Madaleine Albright, segretario di Stato di Clinton, tentando di giustificare un lancio di missili sull'Iraq, ha definito gli Stati Uniti come una nazione indispensabile. Come aveva ben visto Sacha Guitry, il contrario della verità è già molto vicino alla verità. Se si afferma ufficialmente che gli Stati Uniti sono indispensabili, è chiaro che si è posta la questione della loro utilità per il pianeta. La dirigenza lascia così filtrare, attraverso dei quasi-lapsus, l'inquietudine degli analisti strategici. Madeleine Albright esprimeva sotto forma di diniego la dottrina Brzezinski che rileva la situazione ex-centrica, isolata degli Stati Uniti, lontani da questa Eurasia così popolata, così industriosa, dove rischia di concentrarsi la storia di un mondo placato.
In fondo, Brzezinski accetta la minaccia implicita del paradosso di Fukuyama e propone una tecnica diplomatica e militare per mantenere il controllo sul Vecchio Mondo. Huntington è meno un buon giocatore: non accetta l'universalismo simpatico del modello di Fukuyama e rifiuta di riconoscere l'eventualità che i valori democratici e liberali si estendano a tutto il pianeta. Si rifugia in una categorizzazione religiosa ed etnica dei popoli, di cui la più parte sarebbero inadatti, per natura, al modello "occidentale".
A questo stadio della riflessione non possiamo scegliere tra le diverse possibilità storiche: la democrazia liberale è generalizzabile? Se sì, porta la pace? Ma dobbiamo capire che Brzezinski e Huntington rispondono a Fukuyama, e che l'eventualità di una marginalizzazione degli Stati Uniti, paradossale nel momento in cui il mondo intero è inquieto per la loro onnipotenza, ossessiona le élites americane. Ben lontana dall'essere tentata da un ritorno all'isolazionismo, l'America ha paura dell'isolamento, di ritrovarsi sola in un mondo che non avesse più bisogno di lei. Ma perché ha ora tanta paura di quella distanza dal mondo che fu la sua ragion d'essere, dalla Dichiarazione d'indipendenza nel 1776 a Pearl Harbor nel 1941?

Dall'autonomia alla dipendenza economica.

Questa paura di divenire inutili, e dell'isolamento che potrebbe risultarne, per gli Stati Uniti è più che un fenomeno nuovo: una vera inversione della loro posizione storica. La separazione dal Vecchio Mondo corrotto fu uno dei miti fondatori dell'America, forse il principale. Terra di libertà, d'abbondanza e di perfezionamento morale, gli Stati Uniti d'America scelsero di svilupparsi indipendentemente dall'Europa, senza mischiarsi ai conflitti degradanti delle nazioni ciniche del Vecchio Continente.
L'isolamento del XIX secolo non era in realtà che diplomatico e militare, perché la crescita economica degli Stati Uniti poté nutrirsi dei due flussi continui ed indissolubili venuti dall'Europa, l'uno di capitale, l'altro di forza lavoro. Investimenti europei e immigrazione di una manodopera ad alto tasso d'analfabetismo sono state le vere risorse economiche dell'esperienza americana. Ne consegue che alla fine del XIX secolo, l'America disponeva dell'economia non solo più potente del pianeta, ma anche più autosufficiente, massicciamente produttrice di materie prime e largamente eccedente sul piano commerciale.
All'inizio del XX secolo, gli Stati Uniti non hanno più bisogno del mondo. Se si tiene conto della loro potenza effettiva, i loro primi interventi in Asia e in America latina restarono allora molto modesti. Ma con la Prima Guerra mondiale apparve chiaro che il pianeta aveva bisogno di loro. Gli Stati Uniti resistettero poco all'appello, esattamente fino al 1917. Poi optarono ancora per l'isolamento rifiutandosi di ratificare per il trattato di Versaille. Si dovette attendere Pearl Harbour e la dichiarazione di guerra della Germania all'America perché gli Stati Uniti prendessero infine nel mondo, per iniziativa, si può dire, del Giappone e della Germania, il posto che corrispondeva alla loro potenza economica.
Nel 1945, il prodotto nazionale lordo americano rappresentava più della metà del prodotto lordo mondiale e l'effetto della dominazione fu meccanico, immediato. Certo il comunismo copriva, verso il 1959, il cuore dell'Eurasia, dalla Germania dell'Est alla Corea del Nord. Ma l'America, potenza navale ed aerea, controllava strategicamente il resto del pianeta con la benedizione di una moltitudine di alleati e di clienti la cui priorità era la lotta contro il sistema sovietico. E' con l'accordo di una buona parte del mondo che si installò l'egemonia americana, malgrado il sostegno apportato al comunismo da numerosi intellettuali, contadini e operai qui o là.
Dobbiamo ammettere, se vogliamo comprendere il seguito degli avvenimenti, che questa egemonia fu benefica durante parecchi decenni. Senza il riconoscimento del carattere generalmente giovevole della dominazione americana degli anni 1950-1990, non possiamo comprendere l'importanza del ribaltamento ulteriore degli Stati Uniti dall'utilità nell'inutilità; e delle difficoltà che derivano, per loro come per noi, da una tale inversione.
L'egemonia degli anni 1950-1990 sulla parte non comunista del pianeta ha quasi meritato il nome di impero. Le sue risorse economiche, militari ed ideologiche hanno dato ad un tempo, all'America, tutte le dimensioni della potenza imperiale. La predominanza dei principi economici liberali in una sfera politicamente e militarmente diretta da Washington ha finito per trasformare il mondo - quello che si chiama globalizzazione. Ha anche infettato nel tempo, ma in profondità, la struttura interna della nazione dominante, indebolendo la sua economia e deformando la sua società. Il processo all'inizio è stato lento, progressivo. Senza che gli attori della storia se ne siano resi chiaramente conto, una relazione di dipendenza si è instaurata fra gli Stati Uniti e la loro sfera di predominanza. Un deficit commerciale americano è apparso, dall'inizio degli anni 70, elemento strutturale dell'economia mondiale.
Il crollo del comunismo ha trascinato una drammatica accelerazione del processo di dependenza. Tra il 1990 e il 2000, il deficit commerciale americano è passato da 100 a 450 miliardi di dollari. Per equilibrare i suoi conti esteri, l'America ha bisogno di un flusso di capitale estero di volume equivalente. In questo inizio del terzo millennio, gli Stati Uniti non possono più vivere della loro sola produzione. In un momento in cui il mondo, in corso di stabilizzazione educativa, demografica e democratica, è sul punto di scoprire che può fare a meno dell'America, l'America si accorge che non può più fare a meno del mondo.
Il dibattito sulla "mondializzazione" è parzialmente disconnesso dalla realtà perché si accetta troppo spesso la rappresentazione ortodossa di scambi commerciali e finanziari simmetrici, omogenei, nei quali nessuna nazione occupa un posto particolare. Le nozioni arbitrarie di lavoro, profitto, libertà di circolazione di capitale mascherano un elemento fondamentale: il ruolo specifico della più importante delle nazioni nella nuova organizzazione del mondo economico. Se l'America ha declinato molto in rapporto della potenza economica relativa, è riuscita ad aumentare massicciamente la sua capacità di prelevamento sull'economia mondiale: è diventata obbiettivamente predatrice. Una tale situazione dev'essere interpretata come un segno di potenza o di debolezza? Quello che è certo è che l'America dovrà lottare, politicamente, militarmente, per mantenere un'egemonia ormai indispensabile al suo livello di vita.
Questa inversione del rapporto di dipendenza economica è il secondo fattore pesante che, combinato al primo, la moltiplicazione delle democrazie, permette di spiegare la stranezza della situazione mondiale, il comportamento bizzarro degli Stati Uniti e lo smarrimento del pianeta. Come gestire una superpotenza economicamente dipendente ma politicamente inutile?
Potremmo fermare qui l'elaborazione di questo modello inquietante, e rassicurarci ricordandoci che dopotutto l'America è una democrazia, che le democrazie non si fanno la guerra, e che, di conseguenza, gli Stati Uniti non possono divenire pericolosi per il mondo, aggressivi e fautori di guerre. Attraverso prove ed errori il governo di Washington troverà finalmente le strade per un riadattamento economico e politico a questo nuovo mondo. Perché no? Ma dobbiamo anche essere coscienti che la crisi delle democrazie avanzate, sempre più visibile, sempre più preoccupante, soprattutto in America, non ci permette più di considerare gli Stati Uniti come pacifici per natura.
La storia non si ferma: l'emergenza planetaria della democrazia non deve in effetti farci dimenticare che le democrazie più antiche - gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, naturalmente la Francia - continuano ad evolversi. Tutto sta ad indicare, attualmente, che si stanno trasformando in sistemi oligarchici. Il concetto di inversione, utile per comprendere il rapporto economico degli Stati Uniti rispetto al pianeta, lo è ugualmente per analizzare il dinamismo democratico nel mondo. La democrazia progredisce là dove era debole, ma regredisce dove era forte.

La degenerazione della democrazia americana e la guerra come possibilità.

La forza di Fukuyama è di avere identificato molto velocemente un processo di stabilizzazione del mondo non occidentale. Ma la sua percezione della società, l'abbiamo visto, resta influenzata dall'economismo: non fa del fattore educativo il motore centrale della storia e si interessa poco alla demografia. Fukuyama non vede che l'alfabetizzazione di massa è la variabile indipendente, esplicativa, al cuore della crescita democratica ed individualista che lui rileva. Da cui il suo errore maggiore: dedurre una fine della storia dalla generalizzazione della democrazia liberale. Una tale conclusione presuppone che questa forma politica è stabile se non perfetta, e che la sua storia si ferma una volta che è realizzata. Ma se la democrazia non è che la sovrastruttura politica di una tappa culturale, l'istruzione primaria, la continuazione della crescita educativa, con lo sviluppo degli insegnamenti secondari e superiori, non può che destabilizzarla laddove era apparsa in principio, nel momento stesso in cui si afferma nei paesi che raggiungono soltanto lo stadio dell'alfabetizzazione di massa.
Educazione secondaria e soprattutto superiore reintroducono nell'organizzazione mentale e ideologica delle società sviluppate la nozione di ineguaglianza. Coloro che godono di un'educazione superiore, dopo un periodo di esitazione e di falsa coscienza, finiscono per credersi realmente superiori. Nei paesi avanzati emerge una nuova classe, che pesa, semplificando, per il 20% della struttura sociale sul piano numerico, e per il 50% sul piano monetario. Questa nuova classe ha sempre più difficoltà a sopportare l'obbligo del suffragio universale.
La crescita dell'alfabetizzazione ci ha fatti vivere nel mondo di Tocqueville, per cui la marcia della democrazia era "provvidenziale", quasi l'effetto di una volontà divina. La crescita dell'educazione superiore ci fa oggi vivere un'altra marcia "provvidenziale" e calamitosa: verso l'oligarchia. E' un sorprendente ritorno al mondo di Aristotele, nel quale l'oligarchia poteva succedere alla democrazia.
Nel momento stesso in cui la democrazia comincia ad impiantarsi in Eurasia, si indebolisce dunque nel suo luogo di nascita: la società americana si trasforma in un sistema di dominazione fondamentalmente inegualitario, fenomeno perfettamente concettualizzato da Michael Lind in The Next American Nation. Troviamo in particolare in questo libro la prima descrizione sistematica della nuova classe dirigente americana postdemocratica, the overclass.
Non siamo gelosi. La Francia è quasi altrettanto avanzata degli Stati Uniti da questo punto di vista. Curiose "democrazie" dei sistemi politici in seno ai quali s'affrontano elitarismo e populismo, dove sussiste il suffragio universale, ma nelle quali le élites di destra e di sinistra si trovano d'accordo nell'interdire tutti i ri-orientamenti della politica economica che condurrebbero ad una riduzione delle ineguaglianze. Universo sempre più strambo nel quale il gioco elettorale deve portare, dopo un titanico confronto mediatico, esclusivamente allo statu quo. La buona intesa all'interno delle élites, riflesso dell'esistenza di una vulgata superiore, impedisce che il sistema politico apparente si disintegri, anche quando il suffragio universale suggerirebbe la possibilità di una crisi. George W.Bush è scelto come presidente degli Stati Uniti, al termine di un processo opaco che non permette certo di affermare che ce l'ha portato al senso aritmetico. Ma l'altra grande repubblica "storica", la Francia, offre poco tempo dopo, il caso contrario, e dunque fortemente vicino nella logica di Sacha Guitry, di un presidente eletto con l'82% dei suffragi. La quasi unanimità francese è il risultato di un altro meccanismo sociologico e politico di sbarramento delle aspirazioni venute dal 20% del basso per il 20% dell'alto, che al momento controllano il 60% del mezzo. Ma il risultato è lo stesso: il processo elettorale non ha alcuna importanza pratica; e il tasso di assenteismo si eleva irresistibilmente.
In Gran Bretagna, sono in atto i medesimi processi di ristratificazione culturale. Furono precocemente analizzati da Michael Young ne The Rise of the Mediocrity, breve saggio realmente assai profetico poiché data del 1958.
Ma la fase democratica dell'Inghilterra è stata tardiva e moderata: il passato aristocratico tanto vicino, sempre incarnato nella persistenza d'accenti di classe di una chiarezza estrema, facilita una transizione più dolce verso il mondo nuovo dell'oligarchia occidentale. La nuova classe americana è d'altronde vagamente invidiosa, cosa che manifesta con un atteggiamento anglofilo, nostalgico di un passato vittoriano che non è il proprio.
Sarebbe dunque inesatto ed ingiusto restringere la crisi della democrazia ai soli Stati Uniti. La Gran Bretagna e la Francia, le due vecchie nazioni liberali associate dalla storia alla democrazia americana, sono coinvolte in processi di deperimento oligarchico paralleli.
Ma esse sono, nel sistema politico ed economico mondiale globalizzato, dei dominati. Devono tenere dunque conto dell'equilibrio dei loro scambi commerciali. Le loro traiettorie sociali devono, a un certo momento, separarsi da quelle degli Stati Uniti. E non penso che un giorno si potrà parlare di "oligarchie occidentali" come si parlava un tempo di "democrazie occidentali".
Ma questa è la seconda grande inversione che spiega la difficoltà dei rapporti tra l'America e il mondo. Il progresso planetario della democrazia maschera l'indebolimento della democrazia nel suo luogo di nascita. L'inversione è mal percepita dai partecipanti al gioco planetario. L'America maneggia sempre molto bene, per abitudine più che per cinismo, il linguaggio della libertà e dell'uguaglianza. E chiaramente, la democratizzazione del pianeta è lontana dall'essere completa.
Ma questo passaggio ad un nuovo stadio, oligarchico, annulla l'applicazione agli Stati Uniti della legge di Doyler sulle conseguenze inevitabilmente rassicuranti della democrazia liberale. Possiamo postulare dei comportamenti aggressivi da parte di una casta dirigente mal controllata, e una politica militare più avventurosa. In verità, se l'ipotesi di un'America divenuta oligarchica ci autorizza a riestendere il dominio della legge di Doyle, ci permette soprattutto di accettare la realtà empirica di un'America aggressiva. Non possiamo neanche più escludere a priori l'ipotesi strategica di un'America che attacchi democrazie, recenti o antiche. Con un tale schema riconciliamo – non senza una certa malizia, è vero – gli "idealisti" anglosassoni che si aspettano dalla democrazia liberale la fine dei conflitti militari e i "realisti" della stessa cultura che percepiscono il campo delle realizzazioni internazionali come uno spazio anarchico popolato di Stati aggressivi nell'eternità dei secoli. Ammettendo che la democrazia liberale porta alla pace, noi ammettiamo anche che il suo deperimento può riportare la guerra. Anche se la legge di Doyle è vera, non ci sarà una pace perpetua di spirito kantiano.

Un modello esplicativo.

Svilupperò in questo saggio un modello esplicativo formalmente paradossale, ma il cui nucleo si riassume molto semplicemente: in un momento in cui il mondo scopre la democrazia e impara a fare a meno politicamente dell'America, questa tende a perdere le sue caratteristiche democratiche e scopre che non può fare a meno economicamente del mondo.
Il pianeta deve dunque confrontarsi con una duplice inversione: inversione dei rapporti di dipendenza economica tra il mondo e gli Stati Uniti; inversione della dinamica democratica, ormai positiva in Eurasia e negativa in America.
Postulati questi pesanti processi storico-sociali, possiamo comprendere la stranezza apparente delle azioni americane. L'obiettivo degli Stati Uniti non è più di difendere un ordine democratico e liberale che perde lentamente la sua sostanza nella stessa America. L'approvigionamento in beni diversi e in capitale diventa fondamentale: il fine strategico principale degli Stati Uniti è ormai il controllo politico delle risorse mondiali.
Allo stesso tempo, la potenza economica, militare e ideologica declinante degli Stati Uniti non permette loro di controllare effettivamente un mondo divenuto troppo vasto, troppo popolato, troppo alfabetizzato, troppo democratico. La messa in riga degli ostacoli reali all'egemonia americana, i veri attori strategici che sono la Russia, l'Europa e il Giappone, è un obbiettivo inaccessibile perché smisurato.
Con questi l'America deve negoziare, e più spesso piegarsi. Ma deve trovare una soluzione, reale o fantasmatica, alla sua angosciante dipendenza economica; deve restare almeno simbolicamente al centro del mondo, e per questo mettere in scena la propria "potenza", anzi, la propria onnipotenza. Assistiamo dunque allo sviluppo di un militarismo teatrale, comprendente tre elementi essenziali:
– Non risolvere mai definitivamente un problema, per giustificare l'azione militare indefinita dell'"unica superpotenza" su scala planetaria.
– Concentrarsi su delle micropotenze - Iran, Irak, Corea del Nord, Cuba ecc. Il solo modo di rimanere politicamente nel cuore del mondo è di "affrontare" gli attori minori, valorizzanti per la potenza americana, al fine di impedire, o almeno ritardare la presa di coscienza delle potenze maggiori chiamate a dividere con gli Stati Uniti il controllo del pianeta: l'Europa, il Giappone e la Russia a medio termine, la Cina a più lungo termine.
– Sviluppare nuove armi che implicano mettere gli Stati Uniti molto avanti, in una corsa agli armamenti che non deve mai cessare.
Questa strategia fa certamente dell'America un ostacolo nuovo e inatteso della pace del mondo, ma non è di un'ampiezza minacciante. La lista e la dimensione dei paesi bersaglio definisce obbiettivamente la potenza dell'America, capace al più di affrontare l'Iraq, l'Iran, la Corea del Nord o Cuba. Non c'è alcuna ragione di perdere la testa e di denunciare l'emergenza di un impero americano che in realtà è in corso di decomposizione, un decennio dopo l'impero sovietico.
Una tale rappresentazione dei rapporti di forza planetari condurrà naturalmente a qualche proposta di ordine strategico, il cui fine non sarà di accrescere i guadagni di tale o tal'altra nazione, ma di gestire al meglio per tutti il declino dell'America.



(Emmanuel Todd, "ouverture" de Après l'empire. Essai sur la décomposition du système américain , Gallimard 2003. Traduzione di Mia Lecomte [nei mesi di preparazione della rivista nel frattempo è stata pubblicata la versione italiana del saggio di Todd, con il titolo Dopo l’impero, Marco Tropea ed., Milano, 2003.])


Emmanuel Todd, demografo e saggista, ha pubblicato numerosi libri, fra cui La chute finale che, nel 1976 preannunciava la "decomposizione della sfera sovietica", e nel 1998 L'illusion économique, "saggio sul ristagno delle società sviluppate".



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