DOPO
L’IMPERO
-
Ouverture -
Emmanuel
Todd
Gli
Stati Uniti stanno diventando per il mondo un problema. Eravamo
abituati piuttosto a vedervi una soluzione. Garanti della libertà politica
e dell'ordine economico per mezzo secolo, essi appaiono sempre
più come un fattore di disordine internazionale, mantenendo,
là dove possono, incertezza e conflitto. Esigono dal
pianeta intero che riconosca che certi Stati di importanza
secondaria costituiscono un "asse del male", che
dev'essere combattuto e annientato: l'Iraq di Saddam Hussein,
verboso
ma insignificante in quanto potenza militare, la Corea del
Nord di Kim Jong-II, primo (e ultimo) comunismo ad avere instituito
una successione per primogenitura, residuo di un'altra epoca
votata a sparire in assenza di tutti gli interventi esterni.
L'Iran, altro bersaglio ossessivo, è un paese strategicamente
importante ma chiaramente incamminato in un processo di rasserenamento
interno ed esterno. Eppure il governo americano lo stigmatizza
come membro a pieno diritto di questo asse del male. Gli Stati
Uniti hanno provocato la Cina bombardando la sua Ambasciata
a Belgrado durante la guerra del Kosovo, riempendo di microfoni
facilmente reperibili un Boeing destinato ai suoi dirigenti.
Tra tre abbracci pubblici e due accordi di disarmo nucleare,
hanno anche provocato la Russia appoggiando attraverso l'intermediazione
di Radio Free Europe delle emissioni in lingua cecena, inviando
in Georgia dei consiglieri militari, stabilendo delle basi
permanenti nell'ex-Asia centrale sovietica, di fronte all'armata
russa. Infine, somma teorica di questa febbre militarista:
il Pentagono lascia filtrare dei documenti progettanti impatti
nucleari su paesi non nuclearizzati. Il goveno di Washington
applica così un modello strategico classico ma inadatto
a una nazione di scala continentale, la "strategia del
fuoco", che raccomanda di apparire irresponsabili ad eventuali
avversari per meglio intimidirli. Quanto all'installazione
di uno scudo spaziale, che spezza l'equilibrio nucleare e lo
sviluppo definitivo che permetterebbe agli Stati Uniti di regnare
su tutto il mondo con il terrore, ci costringe a proiettarci
in un universo degno della fantascienza. Come stupirsi del
nuovo atteggiamento di sospetto e di paura che coglie, gli
uni dopo gli altri, tutti coloro che stabilirebbero la loro
politica estera a partire da un assioma rassicurante: l'unica
superpotenza è prima di tutto responsabile?
Gli
alleati e clienti tradizionali degli Stati Uniti sono tanto
più inquieti quanto più si trovano vicini alle
zone designate dal loro leader come sensibili. La Corea del Sud
ricorda, ad ogni occasione, che non si sente minacciata dal suo
vicino archeo-comunista del nord; il Kuwait afferma di non avere
più contenziosi con l'Iraq.
La Russia, la Cina e l'Iran, tre nazioni la cui priorità assoluta è lo
sviluppo economico, non hanno che una preoccupazione strategica:
resistere alle provocazioni dell'America, non fare niente; o
meglio, in un capovolgimento che sarebbe parso inconcepibile
dieci anni fa, militare per la stabilità dell'ordine del
mondo. Per quel che riguarda i grandi alleati degli Stati Uniti
sono sempre più perplessi, sempre più a disagio.
In Europa, dove solo la Francia si impuntava per l'indipendenza,
osserviamo con una certa sorpresa una Germania irritata e un
Regno Unito, fedele tra i fedeli, decisamente inquieto. Dall'altro
lato dell'Eurasia, il silenzio del Giappone esprime un malessere
sempre crescente piuttosto che un'adesione senza difetto.
Gli Europei non comprendono perché l'America si rifiuti
di regolare la questione israeliano-palestinese, quando ne ha
l'assoluto potere. Cominciano a chiedersi se Washington non sia
in fondo soddisfatta che un focolaio di tensione si perpetui
nel vicino Oriente e che i popoli arabi manifestino un'ostilità sempre
maggiore verso il mondo occidentale.
L'organizzazione Al Qaida, banda di terroristi malati e geniali, è emersa
da una regione definita e limitata del pianeta, l'Arabia Saudita,
anche se Bin Laden e i suoi luogotenenti hanno reclutato quialche
transfuga egiziano e un pugno di miserabili venuti dalle periferie
dell'Europa occidentale. L'America si sforza comunque di trasformare
Al Qaida in una potenza tanto stabile quanto malefica, il "terrorismo",
onnipresente - dalla Bosnia alle Filippine, dalla Cecenia al
Pakistan, dal Libano allo Yemen - legittimando così qualsiasi
azione punitiva ovunque e in ogni momento. L'elevazione del
terrorismo a status di forza universale istituzionalizza uno stato di
guerra permanente su scala planetaria: una quarta guerra
mondiale, secondo certi autori americani che non hanno già più paura
del ridicolo considerando la guerra fredda come la terza. Tutto
accade come se gli Stati Uniti cercassero, per un'oscura ragione,
il mantenimento di un certo livello di tensione internazionale,
una situazione di guerra limitata ma endemica.
Appena un anno dopo l'11 settembre, una tale percezione dell'America è paradossale.
Infatti nelle ore che avevano seguito l'attentato al World Trade
Center, avevamo avuto la rivelazione della dimensione più profonda
e simpatica dell'egemonia americana: un potere accettato, in
un mondo che ammetteva, in grande maggioranza, che un'organizzazione
capitalistica della vita economica, e democratica della vita
politica erano le sole ragionevoli e possibili. Si era visto
allora chiaramente che la forza dell'America era la sua legittimità.
La solidarietà delle nazioni del mondo era stata immediata;
tutte avevano condannato l'attentato. Dagli alleati europei era
venuto un desiderio attivo di solidarietà, espresso nell'impegno
dell'Otan. Da parte sua la Russia aveva scelto l'occasione di
mostrare che più di tutto desiderava delle buone relazioni
con l'Ovest. E' lei che ha fornito all'Alleanza del Nord afghana
gli armamenti di cui necessitava e aperto alle forze armate
degli Stati Uniti lo spazio strategico indispensabile in Asia
centrale.
Senza la partecipazione attiva della Russia, l'offensiva americana
in Afghanistan sarebbe stata impossibile.
L'attentato dell'11 settembre ha affascinato gli psichiatri:
la rivelazione di una fragilità aveva destabilizzato un
pò dappertutto non solo gli adulti, ma anche i loro figli.
Una vera crisi psichica aveva messo allora a nudo l'architettura
mentale del pianeta, di cui l'America, unica ma legittima superpotenza,
costituiva come una chiave di volta incosciente. Pro e antiamericani
erano come bambini, privati dell'autorità di cui avevano
bisogno, sia per sottomettervisi, sia per combatterla. In breve,
l'attentato dell'11 settembre aveva rivelato il carattere volontario
della nostra servitù. La teoria del soft power di Joseph
Nye era magnificamente verificata: l'America non regnava soltanto
o principalmente con le armi ma per il prestigio dei suoi valori,
delle sue istituzioni, della sua cultura.
Tre mesi più tardi, il mondo sembrava ritornato al suo
equilibrio normale. L'America aveva vinto, ridivenuta, in forza
di qualche bombardamento, onnipotente. I vassalli credevano di
poter ritornare ai propri affari, essenzialmente economici e
interni. I contestatori si apprestavano a riprendere, là dove
l'avevano lasciata, la loro denuncia eterna ed incantatoria
dell'impero americano.
Ci si aspettava comunque che la ferita dell'11 settembre -
molto relativa se si pensa a cosa furono le esperienze europee,
russe,
giapponesi, cinesi o palestinesi della guerra - riavvicinasse
l'America alla sorte comune dell'umanità, la rendesse
più sensibile ai problemi dei poveri e dei deboli. Il
mondo fece un sogno: il riconoscimento da tutte, o quasi tutte,
le nazioni della legittimità del potere degli Stati
Uniti avrebbe condotto all'emergere di un vero impero del bene,
i dominati
planetari accettando il potere centrale, sottomettendosi i
dominanti americani all'idea di giustizia.
E' allora che il comportamento internazionale degli Stati Uniti
cominciò a determinare un cambiamento di percezione. Si
vide riemergere, in tutto l'arco del 2002, la tendenza all'unilateralismo
già manifesto nella seconda metà degli anni 90,
con il rifiuto di Washington, nel dicembre del 1997, del trattato
di Ottawa che proibiva le mine anti-uomo, nel luglio del 1998,
dell'accordo istituente una Corte penale internazionale. La storia
sembrò riprendere il suo corso anteriore con il rifiuto
degli Stati Uniti del protocollo di Kyoto sulle emissioni di
gas carbonico.
La lotta contro Al Qaida, che avrebbe potuto istituzionalizzare
la legittimità degli Stati Uniti se fosse stata condotta
modestamente e ragionevolmente, ha messo in evidenza un'irresponsabilità demultiplicata.
L'immagine di un'America narcisistica, agitata e aggressiva
ha rimpiazzato, in qualche mese, quella della nazione ferita,
simpatica
e indispensabile al nostro equilibrio. Siamo a questo punto.
Ma dove siamo veramente?
Perché il fattore più inquietante nella situazione
attuale è in fondo l'assenza di un modello esplicativo
soddisfacente del comportamento americano. Perché la "superpotenza
solitaria" non è più, conformemente alla tradizione
stabilita all'indomani della seconda guerra mondiale, fondamentalmente
bonaria e ragionevole? Perché è così attiva
e destabilizzatrice? Perché è onnipotente? O, al
contrario, perché si sente sfuggire dalle mani il mondo
che sta per nascere?
Prima di procedere all'elaborazione di un modello esplicativo
rigoroso del comportamento internazionale degli Stati Uniti,
dobbiamo sbarazzarci dell'immagine standardizzata di un'America
il cui solo problema sarebbe l'eccesso di potenza. Gli antiamericani
professionisti non ci saranno dunque di alcuna utilità,
ma gli ideologi dell' establishment saranno delle guide molto
sicure.
Ritorno
alla problematica del declino.
Gli
antiamericani strutturali propongono la loro risposta abituale:
l'America è cattiva per natura, incarnazione dello stato
della malvagità del sistema capitalistico. E' oggi un
gran momento per questi antiamericani di sempre, che siano
o meno ammiratori di piccoli despoti locali come Fidel Castro,
che abbiano o meno compreso il fallimento senza appello dell'economia
dirigistica. Infatti possono finalmente evocare senza sorridere
il contributo negativo degli Stati Uniti all'equilibrio e alla
felicità del pianeta. Non sbagliamoci, il rapporto al
reale e al tempo di questi antiamericani strutturali è quello
degli orologi fermi che sono comunque in orario per due volte
al giorno. I più tipici di loro sono americani. Leggete
i testi di Noam Chomsky: non vi troverete alcuna coscienza
dell'evoluzione del mondo. Dopo come prima del crollo della
minaccia sovietica, l'America è la stessa, militarista,
oppressiva, falsamente liberale, in Iraq oggi come in Vietnam
un quarto di secolo fa. Ma l'America secondo Chomsky non è solo
cattiva, è onnipotente.
In un genere più culturale e più moderno, possiamo
evocare il Jihad vs. Mc World di Benjamin Barber, che ci disegna
il quadro di un mondo devastato dallo scontro fra una disprezzabile
infracultura americana e dei non meno disprezzabili tribalismi
residuali. Ma la vittoria annunciata dell'americanizzazione suggerisce
che Benjamin Barber rimane, al di là della sua posizione
critica, e senza esserne pienamente cosciente, un nazionalista
americano. Anche lui sovrastima la potenza del proprio paese.
Nello stesso registro di sovraestimazione troviamo la nozione
di iperpotenza americana. Qualunque sia il rispetto che può ispirare
la politica estera condotta da Hubert Védrine quando era
ministro degli Affari esteri, dobbiamo ammettere che questo concetto,
che lui predilige, acceca gli analisti più di quanto non
li illumini.
Queste rappresentazioni non ci sono d'aiuto per comprendere la
situazione attuale. Presuppongono un'America esagerata, spesso
nella dimensione del male, sempre in quella della potenza. Ci
impediscono di penetrare il mistero della politica estera americana
perché la soluzione dev'essere ricercata sul fronte della
debolezza e non della potenza. Una traiettoria strategica instabile
ed aggressiva, in breve l'andatura ubriaca della "superpotenza
solitaria" non può essere spiegata in maniera soddisfacente
se non attraverso la messa a nudo di contraddizioni non risolte
o irrisolvibili, e dei sentimenti di insufficienza e di paura
che ne derivano.
La lettura delle analisi prodotte dall'establishment americano è più chiarificatrice.
Al di là di tutte le loro divergenze, troviamo in Paul
Kennedy, Samuel Huntington, Zbigniew Brzezinski, Henry Kissinger
o Robert Gilpin, la stessa visione misurata di un'America che,
lontana dall'essere invincibile, deve gestire l'inesorabile
riduzione della propria potenza relativa in un mondo sempre più popolato
e sviluppato. Le analisi della potenza americana sono diverse:
economica in Kennedy o Gilpin, culturale e religiosa in Huntington,
diplomatica e militare in Brzezinski o Kissinger. Ma sempre ci
troviamo al cospetto di una rappresentazione inquieta della forza
degli Stati Uniti, di cui il potere sul mondo appare fragile
e minacciato.
Kissinger, al di là della sua fedeltà ai principi
del realismo strategico e dell'ammirazione nei confronti dell'intelligenza
sua propria, manca oggi di una visione di insieme. La sua ultima
opera, Does America need a Foreign Policy?, non è che
un catalogo di difficoltà locali. Ma noi troviamo in The
Rise and Fall of Great Powers, di Paul Kennedy, opera già vecchia
perché datata 1988, la rappresentazione molto utile di
un sistema americano minacciato di imperial overstretch, di cui
la sovraestensione diplomatica e militare deriva classicamente
da una caduta di potenza economica relativa. Samuel Huntington
ha pubblicato, nel 1996, The Clash of Civilisation and the
Remaking of World Order, versione allungata di un articolo apparso nel
1993 nella rivista Foreign Affairs, il cui tono è decisamete
deprimente. Si ha spesso l'impressione leggendo il suo libro
di scorrere un pastiche strategico del Declino dell'Occidente di Spengler. Huntington si spinge fino a contestare l'universalizzazione
della lingua inglese e raccomanda un ripiegamento modesto degli
Stati Uniti sull'alleanza ovest-europea, blocco cattolico-protestante,
rigettando gli "ortodossi" est-europei e abbandonando
al loro destino gli altri pilastri del sistema strategico americano
che sono il Giappone e Israele, tracciati col marchio dell'alterità culturale.
La visione di Robert Gilpin combina considerazioni economiche
e culturali; è molto universitaria, molto prudente ed
intelligente. Poiché crede nella persistenza dello Stato-nazione
Gilpin scorge, nel suo Global Political Economy, le debolezze
virtuali del sistema economico e finanziario americano, con questa
minaccia fondamentale di una "regionalizzazione" del
pianeta: se l'Europa e il Giappone organizzano ciascuno da parte
propria le loro zone di influenza, renderanno inutile l'esistenza
di una centralità americana nel mondo, con tutte le difficoltà che
implicherebbe, in una tale configurazione, la ridefinizione di
un ruolo economico degli Stati Uniti.
Ma è Brzezinski che, nel 1997, in The Grand Chessboard,
si è mostrato più chiaroveggente, malgrado la sua
mancanza di interesse per le questioni economiche. Per capire
meglio la sua rappresentazione delle cose, bisogna fare girare
davanti a sé un mappamondo e prendere coscienza dello
straordinario isolamento geografico degli Stati Uniti: il centro
politico del mondo è in realtà lontano dal mondo..
Si accusa spesso Brzezinki di essere un semplice imperialista,
arrogante e brutale. Le sue raccomandazioni strategiche possono
certo fare sorridere, in particolare quando designa l'Ucraina
e Uzbekistan come oggetti necessari dell'attenzione dell'America.
Ma la sua rappresentazione di una popolazione e di un'economia
mondiale concentrata in Eurasia, un'Eurasia riunificata dalla
caduta del comunismo e dimentica degli Stati Uniti, isolati nel
loro nuovo mondo, è in qualche modo fondamentale, un'intuizione
folgorante della reale minaccia che incombe sul sistema americano.
Il
paradosso di Fukuyama: del trionfo dell'inutilità dell'America
Se
vogliamo comprendere l'inquietudine che rode l'establishment americano, dobbiamo anche riflettere seriamente sulle implicazioni
strategiche per gli stessi Stati Uniti dell'ipotesi di una
fine della storia proposta da Francis Fukuyama. Datata 1989-1992,
questa teoria ha divertito gli intellettuali parigini, stupiti
dall'uso semplificato ma altamente fruibile che Fukuyama fa
di Hegel. La storia avrebbe un senso e il suo punto d'arrivo
sarebbe l'universalizzazione della democrazia liberale. La
caduta del comunismo non sarebbe che una tappa in questo cammino
della libertà umana, successiva ad un'altra tappa importante
che fu la caduta delle dittature dell'Europa del Sud: in Portogallo,
in Spagna o in Grecia. L'emergere della democrazia in Turchia
si iscrive in questo movimento, così come il consolidamento
delle democrazie latino-americane. Proposta nello stesso momento
del crollo del sistema sovietico, questo modello della storia
umana è stato recepito nell'insieme in Francia come
un esempio tipico dell'ingenuità e dell'ottimismo americani.
Per chi si ricorda dell'Hegel reale, sottomesso alla Prussia,
rispettoso dell'autoritarismo luterano, venerante lo Stato,
questa rappresentazione in democratico individualista può divertire.
E' piuttosto un Hegel addolcito dagli studi Disney che ci ha
proposto Fukuyama. E poi, Hegel si interessava alla marcia
dello spirito nella storia ma Fukuyama, lui stesso, quando
evoca l'educazione, privilegia sempre il fattore economico
e sembra spesso più vicino a Marx, profeta di una tutt'altra
fine della storia. Il carattere secondario dello sviluppo educativo
e culturale nel suo modello fanno di Fukuyama un hegeliano
ben strano, certamente contaminato dall'economismo delirante
della vita intellettuale americana.
Espresse queste riserve, bisogna comunque riconoscere a Fukuyama
un colpo d'occhio empirico molto vivo e pertinente sulla storia
in costruzione. Osservare, nel 1989, che l'universalizzazione
della democrazia liberale diveniva una possibilità meritevole
d'esame era in sé una bella performance. Quanto agli intellettuali
europei, meno sensibili al movimento della storia, andavano concentrando
le loro facoltà di analisi sul processo del comunismo,
ovvero sul passato. Fukuyama ha avuto il merito di speculare
sull'avvenire: è più difficile ma più utile.
Da parte mia penso che la visione di Fukuyama contiene una parte
importante di verità ma che non percepisce in tutta la
sua ampiezza educativa e demografica la stabilizzazione del pianeta.
Lasciamo da parte per un istante il problema della validità dell'ipotesi
di Fukuyama sulla democratizzazione del mondo e concentriamoci
sulle implicazioni a medio termine per gli Stati Uniti.
Fukuyama integra al suo modello la legge di Michael Doyle sull'impossibilità della
guerra tra democrazie liberali, che data dell'inizio degli anni
80, ispirata a Kant più che a Hegel. Con Doyle ci troviamo
a confrontarci con un secondo caso di empirismo anglosassone,
ingenuo in apparenza ma produttivo in pratica. Che la guerra
sia impossibile tra democrazie è verificabile con l'esame
della storia concreta che prova che, se le democrazie liberali
non sfuggono alla guerra con dei sistemi avversi, non si combattono
mai fra di loro.
La democrazia liberale moderna propende verso la pace in tutte
le circostanze. Non si può certamente rinfacciare alle
democrazie francesi e britanniche degli anni 1933-1939 il loro
bellicismo; non si può che constatare, con rammarico,
l'isolazionismo della democrazia americana fino a Pearl Harbor.
Senza negare una spinta nazionalista in Francia e in Gran Bretagna
prima del 1914, bisogna ammettere che sono l'impero Austrungarico
e la Germania, dove il governo non era, in pratica, responsabile
davanti al Parlamento, che hanno trascinato l'Europa nella Prima
Guerra mondiale.
Il semplice buon senso suggerisce che un popolo di un livello
educativo elevato e di un livello di vita soddisfacente avrà difficoltà a
produrre una maggioranza parlamentare eletta capace di dichiarare
una guerra maggiore. Due popoli organizzati in maniera similare
troveranno inevitabilmente una soluzione pacifica alla loro controversia.
Ma la combriccola incontrollata che dirige, per definizione,
un sistema non democratico e non liberale, ha molto più margine
d'azione per decidere di aprire delle ostilità, contro
il desiderio di pace che è proprio della maggior parte
degli uomini comuni.
Se aggiungiamo all'universalizzazione della democrazia liberale
(Fukuyama) l'impossibilità della guerra tra democrazie
(Doyle), otteniamo un pianeta installato in una pace perpetua.
Un cinico della vecchia tradizione europea sorriderà,
evocando l'immutabile ed eterna capacità dell'uomo di
provocare il male e la guerra. Ma, senza soffermarci su questa
obbiezione, continuiamo il ragionamento: cerchiamo le implicazioni
di un tale modello per l'America. La sua specializzazione planetaria è divenuta,
per gioco della storia, la difesa di un principio democratico
percepito come minacciato: dal nazismo tedesco, dal militarismo
giapponese, dal comunismo russo o cinese. La Seconda Guerra mondiale
e poi la guerra fredda hanno, per così dire, istituzionalizzato
questa funzione storica dell'America. Ma se la democrazia trionfa
dappertutto, noi arriviamo al paradosso finale che gli Stati
Uniti divengono, in quanto potenza militare, inutili per il mondo
e devono rassegnarsi ad essere una democrazia fra le altre.
Questa inutilità dell'America è una delle due angosce
fondamentali di Washington, e una delle chiavi che permettono
di comprendere la politica estera degli Stati Uniti. La formalizzazione
di questa nuova paura da parte dei capi della diplomazia americana
ha preso più spesso, com'è frequente, la forma
di un'affermazione inversa: nel febbraio 1998, Madaleine Albright,
segretario di Stato di Clinton, tentando di giustificare un lancio
di missili sull'Iraq, ha definito gli Stati Uniti come una nazione
indispensabile. Come aveva ben visto Sacha Guitry, il contrario
della verità è già molto vicino alla verità.
Se si afferma ufficialmente che gli Stati Uniti sono indispensabili, è chiaro
che si è posta la questione della loro utilità per
il pianeta. La dirigenza lascia così filtrare, attraverso
dei quasi-lapsus, l'inquietudine degli analisti strategici. Madeleine
Albright esprimeva sotto forma di diniego la dottrina Brzezinski
che rileva la situazione ex-centrica, isolata degli Stati Uniti,
lontani da questa Eurasia così popolata, così industriosa,
dove rischia di concentrarsi la storia di un mondo placato.
In fondo, Brzezinski accetta la minaccia implicita del paradosso
di Fukuyama e propone una tecnica diplomatica e militare per
mantenere il controllo sul Vecchio Mondo. Huntington è meno
un buon giocatore: non accetta l'universalismo simpatico del
modello di Fukuyama e rifiuta di riconoscere l'eventualità che
i valori democratici e liberali si estendano a tutto il pianeta.
Si rifugia in una categorizzazione religiosa ed etnica dei popoli,
di cui la più parte sarebbero inadatti, per natura, al
modello "occidentale".
A questo stadio della riflessione non possiamo scegliere tra
le diverse possibilità storiche: la democrazia liberale è generalizzabile?
Se sì, porta la pace? Ma dobbiamo capire che Brzezinski
e Huntington rispondono a Fukuyama, e che l'eventualità di
una marginalizzazione degli Stati Uniti, paradossale nel momento
in cui il mondo intero è inquieto per la loro onnipotenza,
ossessiona le élites americane. Ben lontana dall'essere
tentata da un ritorno all'isolazionismo, l'America ha paura dell'isolamento,
di ritrovarsi sola in un mondo che non avesse più bisogno
di lei. Ma perché ha ora tanta paura di quella distanza
dal mondo che fu la sua ragion d'essere, dalla Dichiarazione
d'indipendenza nel 1776 a Pearl Harbor nel 1941?
Dall'autonomia
alla dipendenza economica.
Questa
paura di divenire inutili, e dell'isolamento che potrebbe risultarne,
per gli Stati Uniti è più che un fenomeno nuovo:
una vera inversione della loro posizione storica. La separazione
dal Vecchio Mondo corrotto fu uno dei miti fondatori dell'America,
forse il principale. Terra di libertà, d'abbondanza
e di perfezionamento morale, gli Stati Uniti d'America scelsero
di svilupparsi indipendentemente dall'Europa, senza mischiarsi
ai conflitti degradanti delle nazioni ciniche del Vecchio Continente.
L'isolamento del XIX secolo non era in realtà che diplomatico
e militare, perché la crescita economica degli Stati Uniti
poté nutrirsi dei due flussi continui ed indissolubili
venuti dall'Europa, l'uno di capitale, l'altro di forza lavoro.
Investimenti europei e immigrazione di una manodopera ad alto
tasso d'analfabetismo sono state le vere risorse economiche dell'esperienza
americana. Ne consegue che alla fine del XIX secolo, l'America
disponeva dell'economia non solo più potente del pianeta,
ma anche più autosufficiente, massicciamente produttrice
di materie prime e largamente eccedente sul piano commerciale.
All'inizio del XX secolo, gli Stati Uniti non hanno più bisogno
del mondo. Se si tiene conto della loro potenza effettiva, i
loro primi interventi in Asia e in America latina restarono allora
molto modesti. Ma con la Prima Guerra mondiale apparve chiaro
che il pianeta aveva bisogno di loro. Gli Stati Uniti resistettero
poco all'appello, esattamente fino al 1917. Poi optarono ancora
per l'isolamento rifiutandosi di ratificare per il trattato di
Versaille. Si dovette attendere Pearl Harbour e la dichiarazione
di guerra della Germania all'America perché gli Stati
Uniti prendessero infine nel mondo, per iniziativa, si può dire,
del Giappone e della Germania, il posto che corrispondeva alla
loro potenza economica.
Nel 1945, il prodotto nazionale lordo americano rappresentava
più della metà del prodotto lordo mondiale e l'effetto
della dominazione fu meccanico, immediato. Certo il comunismo
copriva, verso il 1959, il cuore dell'Eurasia, dalla Germania
dell'Est alla Corea del Nord. Ma l'America, potenza navale ed
aerea, controllava strategicamente il resto del pianeta con la
benedizione di una moltitudine di alleati e di clienti la cui
priorità era la lotta contro il sistema sovietico. E'
con l'accordo di una buona parte del mondo che si installò l'egemonia
americana, malgrado il sostegno apportato al comunismo da numerosi
intellettuali, contadini e operai qui o là.
Dobbiamo ammettere, se vogliamo comprendere il seguito degli
avvenimenti, che questa egemonia fu benefica durante parecchi
decenni. Senza il riconoscimento del carattere generalmente giovevole
della dominazione americana degli anni 1950-1990, non possiamo
comprendere l'importanza del ribaltamento ulteriore degli Stati
Uniti dall'utilità nell'inutilità; e delle difficoltà che
derivano, per loro come per noi, da una tale inversione.
L'egemonia degli anni 1950-1990 sulla parte non comunista del
pianeta ha quasi meritato il nome di impero. Le sue risorse economiche,
militari ed ideologiche hanno dato ad un tempo, all'America,
tutte le dimensioni della potenza imperiale. La predominanza
dei principi economici liberali in una sfera politicamente e
militarmente diretta da Washington ha finito per trasformare
il mondo - quello che si chiama globalizzazione. Ha anche infettato
nel tempo, ma in profondità, la struttura interna della
nazione dominante, indebolendo la sua economia e deformando la
sua società. Il processo all'inizio è stato lento,
progressivo. Senza che gli attori della storia se ne siano resi
chiaramente conto, una relazione di dipendenza si è instaurata
fra gli Stati Uniti e la loro sfera di predominanza. Un deficit
commerciale americano è apparso, dall'inizio degli anni
70, elemento strutturale dell'economia mondiale.
Il crollo del comunismo ha trascinato una drammatica accelerazione
del processo di dependenza. Tra il 1990 e il 2000, il deficit
commerciale americano è passato da 100 a 450 miliardi
di dollari. Per equilibrare i suoi conti esteri, l'America ha
bisogno di un flusso di capitale estero di volume equivalente.
In questo inizio del terzo millennio, gli Stati Uniti non possono
più vivere della loro sola produzione. In un momento in
cui il mondo, in corso di stabilizzazione educativa, demografica
e democratica, è sul punto di scoprire che può fare
a meno dell'America, l'America si accorge che non può più fare
a meno del mondo.
Il dibattito sulla "mondializzazione" è parzialmente
disconnesso dalla realtà perché si accetta troppo
spesso la rappresentazione ortodossa di scambi commerciali e
finanziari simmetrici, omogenei, nei quali nessuna nazione occupa
un posto particolare. Le nozioni arbitrarie di lavoro, profitto,
libertà di circolazione di capitale mascherano un elemento
fondamentale: il ruolo specifico della più importante
delle nazioni nella nuova organizzazione del mondo economico.
Se l'America ha declinato molto in rapporto della potenza economica
relativa, è riuscita ad aumentare massicciamente la sua
capacità di prelevamento sull'economia mondiale: è diventata
obbiettivamente predatrice. Una tale situazione dev'essere interpretata
come un segno di potenza o di debolezza? Quello che è certo è che
l'America dovrà lottare, politicamente, militarmente,
per mantenere un'egemonia ormai indispensabile al suo livello
di vita.
Questa inversione del rapporto di dipendenza economica è il
secondo fattore pesante che, combinato al primo, la moltiplicazione
delle democrazie, permette di spiegare la stranezza della situazione
mondiale, il comportamento bizzarro degli Stati Uniti e lo smarrimento
del pianeta. Come gestire una superpotenza economicamente dipendente
ma politicamente inutile?
Potremmo fermare qui l'elaborazione di questo modello inquietante,
e rassicurarci ricordandoci che dopotutto l'America è una
democrazia, che le democrazie non si fanno la guerra, e che,
di conseguenza, gli Stati Uniti non possono divenire pericolosi
per il mondo, aggressivi e fautori di guerre. Attraverso prove
ed errori il governo di Washington troverà finalmente
le strade per un riadattamento economico e politico a questo
nuovo mondo. Perché no? Ma dobbiamo anche essere coscienti
che la crisi delle democrazie avanzate, sempre più visibile,
sempre più preoccupante, soprattutto in America, non ci
permette più di considerare gli Stati Uniti come pacifici
per natura.
La storia non si ferma: l'emergenza planetaria della democrazia
non deve in effetti farci dimenticare che le democrazie più antiche
- gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, naturalmente la Francia
- continuano ad evolversi. Tutto sta ad indicare, attualmente,
che si stanno trasformando in sistemi oligarchici. Il concetto
di inversione, utile per comprendere il rapporto economico degli
Stati Uniti rispetto al pianeta, lo è ugualmente per analizzare
il dinamismo democratico nel mondo. La democrazia progredisce
là dove era debole, ma regredisce dove era forte.
La
degenerazione della democrazia americana e la guerra come possibilità.
La
forza di Fukuyama è di avere identificato molto velocemente
un processo di stabilizzazione del mondo non occidentale. Ma
la sua percezione della società, l'abbiamo visto, resta
influenzata dall'economismo: non fa del fattore educativo il
motore centrale della storia e si interessa poco alla demografia.
Fukuyama non vede che l'alfabetizzazione di massa è la
variabile indipendente, esplicativa, al cuore della crescita
democratica ed individualista che lui rileva. Da cui il suo
errore maggiore: dedurre una fine della storia dalla generalizzazione
della democrazia liberale. Una tale conclusione presuppone
che questa forma politica è stabile se non perfetta,
e che la sua storia si ferma una volta che è realizzata.
Ma se la democrazia non è che la sovrastruttura politica
di una tappa culturale, l'istruzione primaria, la continuazione
della crescita educativa, con lo sviluppo degli insegnamenti
secondari e superiori, non può che destabilizzarla laddove
era apparsa in principio, nel momento stesso in cui si afferma
nei paesi che raggiungono soltanto lo stadio dell'alfabetizzazione
di massa.
Educazione secondaria e soprattutto superiore reintroducono nell'organizzazione
mentale e ideologica delle società sviluppate la nozione
di ineguaglianza. Coloro che godono di un'educazione superiore,
dopo un periodo di esitazione e di falsa coscienza, finiscono
per credersi realmente superiori. Nei paesi avanzati emerge una
nuova classe, che pesa, semplificando, per il 20% della struttura
sociale sul piano numerico, e per il 50% sul piano monetario.
Questa nuova classe ha sempre più difficoltà a
sopportare l'obbligo del suffragio universale.
La crescita dell'alfabetizzazione ci ha fatti vivere nel mondo
di Tocqueville, per cui la marcia della democrazia era "provvidenziale",
quasi l'effetto di una volontà divina. La crescita dell'educazione
superiore ci fa oggi vivere un'altra marcia "provvidenziale" e
calamitosa: verso l'oligarchia. E' un sorprendente ritorno al
mondo di Aristotele, nel quale l'oligarchia poteva succedere
alla democrazia.
Nel momento stesso in cui la democrazia comincia ad impiantarsi
in Eurasia, si indebolisce dunque nel suo luogo di nascita: la
società americana si trasforma in un sistema di dominazione
fondamentalmente inegualitario, fenomeno perfettamente concettualizzato
da Michael Lind in The Next American Nation. Troviamo in particolare
in questo libro la prima descrizione sistematica della nuova
classe dirigente americana postdemocratica, the overclass.
Non siamo gelosi. La Francia è quasi altrettanto avanzata
degli Stati Uniti da questo punto di vista. Curiose "democrazie" dei
sistemi politici in seno ai quali s'affrontano elitarismo e populismo,
dove sussiste il suffragio universale, ma nelle quali le élites di destra e di sinistra si trovano d'accordo nell'interdire tutti
i ri-orientamenti della politica economica che condurrebbero
ad una riduzione delle ineguaglianze. Universo sempre più strambo
nel quale il gioco elettorale deve portare, dopo un titanico
confronto mediatico, esclusivamente allo statu quo. La buona
intesa all'interno delle élites, riflesso dell'esistenza
di una vulgata superiore, impedisce che il sistema politico apparente
si disintegri, anche quando il suffragio universale suggerirebbe
la possibilità di una crisi. George W.Bush è scelto
come presidente degli Stati Uniti, al termine di un processo
opaco che non permette certo di affermare che ce l'ha portato
al senso aritmetico. Ma l'altra grande repubblica "storica",
la Francia, offre poco tempo dopo, il caso contrario, e dunque
fortemente vicino nella logica di Sacha Guitry, di un presidente
eletto con l'82% dei suffragi. La quasi unanimità francese è il
risultato di un altro meccanismo sociologico e politico di sbarramento
delle aspirazioni venute dal 20% del basso per il 20% dell'alto,
che al momento controllano il 60% del mezzo. Ma il risultato è lo
stesso: il processo elettorale non ha alcuna importanza pratica;
e il tasso di assenteismo si eleva irresistibilmente.
In Gran Bretagna, sono in atto i medesimi processi di ristratificazione
culturale. Furono precocemente analizzati da Michael Young ne
The Rise of the Mediocrity, breve saggio realmente assai profetico
poiché data del 1958.
Ma la fase democratica dell'Inghilterra è stata tardiva
e moderata: il passato aristocratico tanto vicino, sempre incarnato
nella persistenza d'accenti di classe di una chiarezza estrema,
facilita una transizione più dolce verso il mondo nuovo
dell'oligarchia occidentale. La nuova classe americana è d'altronde
vagamente invidiosa, cosa che manifesta con un atteggiamento
anglofilo, nostalgico di un passato vittoriano che non è il
proprio.
Sarebbe dunque inesatto ed ingiusto restringere la crisi della
democrazia ai soli Stati Uniti. La Gran Bretagna e la Francia,
le due vecchie nazioni liberali associate dalla storia alla democrazia
americana, sono coinvolte in processi di deperimento oligarchico
paralleli.
Ma esse sono, nel sistema politico ed economico mondiale globalizzato,
dei dominati. Devono tenere dunque conto dell'equilibrio dei
loro scambi commerciali. Le loro traiettorie sociali devono,
a un certo momento, separarsi da quelle degli Stati Uniti. E
non penso che un giorno si potrà parlare di "oligarchie
occidentali" come si parlava un tempo di "democrazie
occidentali".
Ma questa è la seconda grande inversione che spiega la
difficoltà dei rapporti tra l'America e il mondo. Il progresso
planetario della democrazia maschera l'indebolimento della democrazia
nel suo luogo di nascita. L'inversione è mal percepita
dai partecipanti al gioco planetario. L'America maneggia sempre
molto bene, per abitudine più che per cinismo, il linguaggio
della libertà e dell'uguaglianza. E chiaramente, la democratizzazione
del pianeta è lontana dall'essere completa.
Ma questo passaggio ad un nuovo stadio, oligarchico, annulla
l'applicazione agli Stati Uniti della legge di Doyler sulle conseguenze
inevitabilmente rassicuranti della democrazia liberale. Possiamo
postulare dei comportamenti aggressivi da parte di una casta
dirigente mal controllata, e una politica militare più avventurosa.
In verità, se l'ipotesi di un'America divenuta oligarchica
ci autorizza a riestendere il dominio della legge di Doyle, ci
permette soprattutto di accettare la realtà empirica di
un'America aggressiva. Non possiamo neanche più escludere
a priori l'ipotesi strategica di un'America che attacchi democrazie,
recenti o antiche. Con un tale schema riconciliamo – non
senza una certa malizia, è vero – gli "idealisti" anglosassoni
che si aspettano dalla democrazia liberale la fine dei conflitti
militari e i "realisti" della stessa cultura che percepiscono
il campo delle realizzazioni internazionali come uno spazio anarchico
popolato di Stati aggressivi nell'eternità dei secoli.
Ammettendo che la democrazia liberale porta alla pace, noi ammettiamo
anche che il suo deperimento può riportare la guerra.
Anche se la legge di Doyle è vera, non ci sarà una
pace perpetua di spirito kantiano.
Un
modello esplicativo.
Svilupperò in
questo saggio un modello esplicativo formalmente paradossale,
ma il cui nucleo si riassume molto semplicemente: in un momento
in cui il mondo scopre la democrazia e impara a fare a meno
politicamente dell'America, questa tende a perdere le sue caratteristiche
democratiche e scopre che non può fare a meno economicamente
del mondo.
Il pianeta deve dunque confrontarsi con una duplice inversione:
inversione dei rapporti di dipendenza economica tra il mondo
e gli Stati Uniti; inversione della dinamica democratica, ormai
positiva in Eurasia e negativa in America.
Postulati questi pesanti processi storico-sociali, possiamo comprendere
la stranezza apparente delle azioni americane. L'obiettivo degli
Stati Uniti non è più di difendere un ordine democratico
e liberale che perde lentamente la sua sostanza nella stessa
America. L'approvigionamento in beni diversi e in capitale diventa
fondamentale: il fine strategico principale degli Stati Uniti è ormai
il controllo politico delle risorse mondiali.
Allo stesso tempo, la potenza economica, militare e ideologica
declinante degli Stati Uniti non permette loro di controllare
effettivamente un mondo divenuto troppo vasto, troppo popolato,
troppo alfabetizzato, troppo democratico. La messa in riga degli
ostacoli reali all'egemonia americana, i veri attori strategici
che sono la Russia, l'Europa e il Giappone, è un obbiettivo
inaccessibile perché smisurato.
Con questi l'America deve negoziare, e più spesso piegarsi.
Ma deve trovare una soluzione, reale o fantasmatica, alla sua
angosciante dipendenza economica; deve restare almeno simbolicamente
al centro del mondo, e per questo mettere in scena la propria "potenza",
anzi, la propria onnipotenza. Assistiamo dunque allo sviluppo
di un militarismo teatrale, comprendente tre elementi essenziali:
–
Non risolvere mai definitivamente un problema, per giustificare
l'azione militare indefinita dell'"unica superpotenza" su
scala planetaria.
–
Concentrarsi su delle micropotenze - Iran, Irak, Corea del Nord,
Cuba ecc. Il solo modo di rimanere politicamente nel cuore del
mondo è di "affrontare" gli attori minori, valorizzanti
per la potenza americana, al fine di impedire, o almeno ritardare
la presa di coscienza delle potenze maggiori chiamate a dividere
con gli Stati Uniti il controllo del pianeta: l'Europa, il Giappone
e la Russia a medio termine, la Cina a più lungo termine.
–
Sviluppare nuove armi che implicano mettere gli Stati Uniti molto
avanti, in una corsa agli armamenti che non deve mai cessare.
Questa strategia fa certamente dell'America un ostacolo nuovo
e inatteso della pace del mondo, ma non è di un'ampiezza
minacciante. La lista e la dimensione dei paesi bersaglio definisce
obbiettivamente la potenza dell'America, capace al più di
affrontare l'Iraq, l'Iran, la Corea del Nord o Cuba. Non c'è alcuna
ragione di perdere la testa e di denunciare l'emergenza di un
impero americano che in realtà è in corso di decomposizione,
un decennio dopo l'impero sovietico.
Una tale rappresentazione dei rapporti di forza planetari condurrà naturalmente
a qualche proposta di ordine strategico, il cui fine non sarà di
accrescere i guadagni di tale o tal'altra nazione, ma di gestire
al meglio per tutti il declino dell'America.
(Emmanuel Todd, "ouverture" de Après l'empire.
Essai sur la décomposition du système américain , Gallimard 2003. Traduzione di Mia Lecomte [nei mesi di preparazione
della rivista nel frattempo è stata pubblicata la versione
italiana del saggio di Todd, con il titolo Dopo l’impero,
Marco Tropea ed., Milano, 2003.])
Emmanuel
Todd, demografo e saggista, ha pubblicato numerosi libri, fra
cui La chute finale che, nel 1976 preannunciava la "decomposizione
della sfera sovietica", e nel 1998 L'illusion économique, "saggio
sul ristagno delle società sviluppate".
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