L'EUROPA E “L'ALTRA
EUROPA”
Predrag
Matvejevic
Confondere la civiltà europea con la civiltà universale, è una
tentazione ben nota in Europa. Dare ad una realtà concreta
e contingente un significato quasi assoluto è un errore
comune. Sarebbe più utile in quest’occasione discutere
delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa
nei confronti dell’altra. Occorre, forse, innanzi tutto
definire o chiarire alcuni concetti e termini.
Europa dell’Est è stata una designazione più politica
e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla Seconda
guerra mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo nome è diventato
desueto, viene sostituito da un altro, altrettanto impreciso:Europa
centrale e orientale. L’Europa centrale comprende anche
paesi che – come l’Austria o la Svizzera – non
sono stati assoggettati dai regimi «comunisti» dell’Est.
L’Altra Europa è anch’essa una nozione mal
definita, forse di proposito. Che cos’è altro in
questa parte dell’Europa e che cos’è europeo
in questa alterità? Nessuno ha risposto a questa domanda,
non so nemmeno se sia mai stata formulata. L’Europa nel
suo insieme non è più ciò che era una volta.
Anche quello che chiamavamo il Terzo Mondo è cambiato
e alcuni parlano già di un Quarto Mondo.
Una parte dell’Altra Europa dei giorni nostri fa apparentemente
parte del Terzo Mondo: resti dell’impero sovietico, vestigia
dell’antica Russia, della Bielorussia o dell’Ucraina,
gran parte della ex-Jugoslavia disgregata, i confini dei Balcani,
della Bulgaria, dell’Albania o della Romania, fors’anche
della Grecia o della Turchia. Dopo un rivolgimento tanto violento
quanto inatteso, le nozioni di Europa occidentale e orientale
sembrano finalmente corrispondere ai punti cardinali.Ci si potrebbe
rallegrare di questo buon uso delle parole se le cose in sé si
presentassero diversamente.
Se l’Altra Europa è una denominazione ambigua, la
realtà cui si riferisce non lo è di meno. Oggi
questa realtà la possiamo scorgere com'è o come
dovrebbe essere. La retorica si adatta a queste ambivalenze.
La politica ne trae vantaggio. La retorica politica ne abusa.
Si
tratta di pensare l’Europa prendendo in considerazione
i valori della cultura e della civiltà che la caratterizzano.
Evitare di adottare solo i progetti particolari, che talvolta
nascondono piatti interessi politico-economici. Questo sembra
essere di massima urgenza nel momento in cui l’Europa
stessa crea la sua definizione e prepara, non senza difficoltà,
una Convenzione sul futuro dell’Europa. L’allargamento
dell’Unione europea conferisce ad un tal compito una
straordinaria rilevanza.
Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda
ad un tempo banale ed imprescindibile: «Quale Europa?» L’abbiamo
sentita, tante volte, in diversi contesti, dall’Europa
del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht
e dell’euro. Forse è utile rievocare alcuni termini
in cui quella domanda era posta e salvare dall’oblio certe
idee dei nostri predecessori. Alcune di esse hanno conservato
tutta la loro attualità: «L’Europa sarà seria
o non sarà... Sarà più scientifica che letteraria,
più intellettuale che artistica. Per molti di noi questa
lezione sarà crudele». Così ci ammoniva
Julien Benda nel suo Discorso alla nazione europea, scritto alla vigilia
di una guerra che sarebbe stata europea prima di diventare mondiale.
Potremmo modificare alcuni accenti di tali messe in guardia o
apportarvi, nello stesso spirito, qualche aggiunta.
Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica
di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo
Mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa
delle nazioni», più Europa dei cittadini e meno
Europa degli stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Una
Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione.
Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile,
più culturale che commerciale, più cosmopolita
che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente
che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista
dal volto umano (nel senso che i dissidenti dell’ex Europa
dell’Est, per esempio un Sacharov, davano a questo termine)
e meno capitalista senza volto.
L’Europa dei valori non permetterebbe che si chiedesse,
per entrare nell’Unione europea, di passare per la Nato: è un
tipo di purgatorio che avrebbe rifiutato.
È legittimo
chiedere quale sarebbe l’«altra Europa»,
che si trova di fronte a queste alternative. Nella maggior
parte dei cosiddetti «paesi dell’Est», il
post-comunismo non è ancora riuscito a «raggiungere» i
regimi che si dicevano comunisti (come livello di vita e di
produzione, scambi economici, sicurezza sociale, regime pensionistico,
eccetera). Per citare solo un esempio: la Slovenia, uno dei
nuovi stati meglio partiti, ha messo quasi otto anni per raggiungere
la stessa Slovenia – la sua produttività dell’inizio
degli anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di
riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che
si è autoproclamato «reale». Le transizioni di questi paesi durano molto più a lungo del previsto.
Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni.
(Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata
su ipotesi, la trasformazione è un risultato).
Il cattivo odore dell’ancien régime ristagna ancora
in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta
di una realtà che sembra già compiuta pur senza
concludersi o raggiungere una forma accettabile. E' una situazione
difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare.
Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi
delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.
Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia
senza pervenire a fornirne un’apparenza appena credibile:
tra passato e presente si determina un iato, tra presente e avvenire
si svolge l'ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione
e un residuo di assoggettamento. Da più di otto anni,
io chiamo questo non-luogo ambiguo con il nome di «democratura».
Vi si fanno spartizioni senza che rimanga granché da spartire.
Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce
nemmeno ad avere ragione del passato. Vi nascono certe libertà senza
che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne. In questi
paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale – ed
oggi bisogna, in molti casi, difendersi da quello stesso patrimonio.
Altrettanto dicasi per la memoria: si doveva salvaguardarla – ed
essa sembra adesso voler punire quelli stessi che l’avevano
salvata.
So bene che non si possono generalizzare queste constatazioni
un po’ forzate: ciò che vale per l’Albania,
o per certe componenti dell’ex-Jugoslavia, non può essere
applicato allo stesso titolo per la Bulgaria, la Romania o la
Russia. La situazione bulgara, rumena o russa non è comparabile
con quella dell’Ungheria, della Polonia o, soprattutto,
con quella della Repubblica Ceca o della Slovenia. La Croazia
si trova fra i due gruppi – dietro la Slovenia, prima della
Serbia e il Montenegro, di una Macedonia esaurita o della Bosnia
esangue. Io le auguro un avvenire degno di essa stessa.
Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno
del passato è una vera tragedia. Riprendere le forme più primitive
del capitalismo selvaggio – che lo stesso capitalismo contemporaneo
ha abbandonato – non può sostenere nessun tipo di
ricostruzione né incoraggiare rinnovamenti. L’idolatria
dell’«economia del mercato» dà scarsi
risultati laddove manca lo stesso mercato e, qualche volta, fatalmente,
la mercanzia! I risultati della democrazia borghese, che quelle «democrature» cercano
di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali.
I riformatori trascurano questo fatto, le loro conoscenze in
materia sono limitate.
C’è dunque da stupirsi se qualche volta i nostri
discorsi sono così disperati? Probabilmente sono piuttosto
disillusi che disperati.
La
Mitteleuropa è per sicuro uno
spazio più sereno. Vi rimangono comunque le tracce
e le cicatrici della storia moderna: i postumi della Guerra
Fredda, l’incertezza del post-comunismo, le identità incompiute
e l’irritabilità delle coscienze nazionali,
il timore di una nuova egemonia esercitata dai vicini unita
a un sentimento di impotenza, la natura degli stati che si
sono appena formati e delle ideologie che riaffermano, i
conflitti nazionali o etnici che hanno infuocato i Balcani
e che rischiano di estendersi: tutti questi fattori sono
doppiamente legati al passato e al presente. Non bisogna
stupirsi se a volte l’Europa centrale si abbandona
ai ricordi malinconici, lottando con difficoltà contro
il provincialismo che la minaccia, mal preparata a dare un
nuovo splendore alle tradizioni di un tempo.
Da un lato l’Europa centrale non si lascia circoscrivere
in una rappresentazione di sè stessa. Dall’altro,
una presa di coscienza della sua particolarità non
si può fare se non all’interno dei suoi confini.
Alcune sue componenti sono sentite più come «scorie
della storia» che come «soggetti storici».
L’auto-identificazione centro-europea appartiene, in
gran parte, alla sfera della memoria. Un riesame del passato
ne risulta difficile.
Le vecchie utopie che ancora incantano alcuni nuovi zelatori
dovrebbero essere confrontate con i giudizi più realistici,
formulati dagli spiriti critici appartenenti alla stessa
Europa centrale. Il pensatore politico ungherese István
Bibó, scomparso troppo presto per vedere il vero disgelo nel suo paese, ha formulato uno straordinario inventario «delle
miserie dei piccoli stati dell'Europa centrale e orientale»,
che ha potuto osservare nel corso del secolo scorso. Le sue
diagnosi (che cerco qua e là di completare) sembrano
conservare tutta la loro attualità anche dopo il crollo
del comunismo. «Il carattere meschino e aggressivo
del nazionalismo» riappare sotto varie forme, come «l'odio
che queste nazionalità provano l'una per l'altra,
oppure «le isterie comunitarie che restringono i loro
orizzonti intellettuali», accompagnate da dispute linguistiche «insensate
e incomprensibili» o da «trovate arcaiche» tanto
strampalate quanto infantili. A tutto questo si aggiungono
una perpetua «tendenza all'irrealismo» e una
premura di «formulare rivendicazioni e invocare prerogative»,
diverse sorte di lamentele e di accuse reciproche, di manifestazioni
pubbliche «subordinate esclusivamente a fini nazionali»,
di fioriture di teorie e filosofie confuse «che sommergono
la vita di queste comunità», «un'eloquenza
e un pensiero caotici, basati su false categorie», «l'irresponsabilità nelle
grandi questioni europee», «simulazioni aristocratiche
con un particolare gusto per la rappresentazione» e,
in corollario, «un'appropriazione del paese da parte
del nazionale, non accompagnata dalla liberazione dell'individuo».
Per violenta che sia, questa requisitoria non cessa di trovare
conferma in alcuni paesi che gravitano intorno al centro
dell'Europa. (Quando evocavo «queste convulsioni che
colpiscono a tratti quasi l'intera comunità» e
il cui trattamento dovrebbe costituire uno dei compiti più urgenti,
mi fu chiesto, più di una volta, se István
Bibó fosse ebreo.) Le caratteristiche che ha elencato
non sono state prese in considerazione da quelli che, non
molto tempo fa, si erano messi a difendere l'Europa centrale
invocando i loro argomenti di circostanza.
Occupata
dai propri problemi organizzativi e dal suo allargamento verso
l’Altra Europa, l’Unione Europea non dovrebbe dimenticare
che il Mediterraneo è la culla della nostra civiltà.
Purtroppo, questo mare assomiglia sempre di più ad una
frontiera che si estende da Levante a Ponente per separare
l’Europa non solo dall’Africa e dall’Asia
Minore, ma anche dalle sue proprie sponde del Sud. C’è forse
un interesse economico prevalente nei rapporti con i paesi
europei più sviluppati, finora esclusi dallo scambio,
ma esistono ragioni profonde, storiche, culturali e tante altre
per non lasciare il Mediterraneo ad un destino che non merita.
La
sorte dell’Est europeo non dipende più, come prima,
dall’ex Unione Sovietica. Tuttavia, sono molti coloro
che non smettono di interrogarsi sull’avvenire del nuovo
stato russo e sull’influenza che potrà esercitare.
Come sarà, in realtà, la Russia di domani? Tradizionale
e conservatrice come un tempo, oppure moderna e liberale? «Santa» o
profana, ortodossa o scismatica? Più «bianca» che «rossa» o
viceversa? Meno slavofila che occidentalista? Sia europea sia
asiatica? Più collettivista che «populista»?
Mistica e messianica a modo suo, oppure laica e secolarizzata?
Una Russia che «non si può comprendere con l’intelletto» e
nella quale «si può soltanto credere» (come
diceva il poeta Tjutcev nel XIX secolo) o la Russia «dura» e «dal
grande culo» (tolstozadaja) cantata da Aleksandr Blok?
Con Cristo o «senza croce»? Una vera democrazia o
una semplice «democratura»? Solo russa (russkaia)
oppure «di tutte le Russie» (rossiskaia)? Quale che
debba essere, dovrà comunque tener conto sia di quel che
rimane dopo l’Unione Sovietica sia di ciò che in
essa ha forse irrimediabilmente perduto.
Sarebbe presuntuoso, e forse arrogante, concludere quest’argomento. È un
compito che spetta alla Storia.
Il
discorso accademico ammette con difficoltà i ricordi
e le confidenze. Tuttavia cercherò di raccontare alcuni
episodi di un tempo lontano, che influirono sul mio rapporto
con l'Italia. Senza di loro, forse, non mi sarei deciso a stabilirmi
in questo Paese. Il mio racconto potrebbe essere intitolato «Come
ho conosciuto l'italiano». Il ragazzino di allora non
distingueva «un italiano» dall’ italiano
in genere.
Era primavera, primi giorni di aprile. Allora cominciò la
guerra nel nostro paese. Ricordo uno strano contrasto: da una
parte le giornate luminose e serene, dall'altra i volti scuri
e preoccupati. Nel cielo volavano aerei e sganciavano bombe sulla
città dove vivevo con mia madre e una sorellina. Mio padre
era stato mobilitato nell'esercito e mandato al fronte. All'epoca,
nel 1941, non conoscevo neppure il significato della parola fronte,
né sapevo dove potesse trovarsi.
A Mostar ci sono diversi ponti sul fiume, tra questi lo Stari
Most (il ponte vecchio), che dà il nome alla città.
Vi correvo quasi ogni giorno per osservare la Neretva che continuava
a scorrere, come aveva sempre fatto, come scorre tuttora. Guardavo
nell'acqua e, nell'aria, i gabbiani che venivano dal mare per
posarsi accanto a me sul parapetto in pietra. In Erzegovina ci
sono più pietre che terra. E la vita è dura.
La nostra città fu occupata dalle truppe italiane. Guardavo
quei soldati con sospetto e timore. Il primo che incontrai aveva
in testa un elmetto dal quale scendeva un ciuffo di penne: sentii
che quei soldati con svolazzanti piume di gallo erano chiamati
bersaglieri. Ne fui spaventato, avevo appena compiuto otto anni.
Mi parve che fosse mio dovere proteggere la famiglia, essendo «l'unico
maschio di casa».Sopratutto difendere mia sorella, di alcuni
anni più piccola di me. Divenni, ai miei stessi occhi,
il suo protettore. Mi sentivo molto più adulto, più grande
della mia età. La sera, prima di addormentarmi, pregavo
con sincero ardore. Smisi di giocare. Evitavo d’incontrare
i compagni di giochi. Avevo un cagnolino bianco che si chiamava
Buska, divenne il mio migliore amico. Soffrivo nel vedere mia
madre costretta a faticare tutta la giornata fuori casa. Era
ancora giovane e bella, per me la più bella madre del
mondo. Diventavo geloso quando si fermava a parlare con qualcuno: «Andiamo
via, su!», la tiravo per la gonna.
Mio padre non ci dava notizie, presto venimmo a sapere che era
finito in un campo di lavori forzati, in qualche parte della
lontana Germania. Avevano scoperto che era nato ad Odessa e questo
bastò per sbatterlo nel lager. Cominciai a scrivergli
lettere, le spedivo a un indirizzo che, accanto al nome e al
cognome, comprendeva soltanto due parole: «lager» e «Deutschland».
Nella mia innocenza pensavo che i postini sapessero certamente
dove si trovava mio padre. Fu così che cominciai a scrivere.
Talvolta, ripensandoci, ho l'impressione di non aver fatto altro
che scrivere lettere per tutta la vita. Spesso spedite a indirizzi
sbagliati...
Eravamo privi di tutto: mancavano il pane e il vestiario, la
legna e il carbone per scaldarsi. Mia sorella si faceva sempre
più pallida col passare dei giorni. La prese in cura un
anziano dottore che da poco era riuscito a fuggire dalla «zona
di occupazione» tedesca in Croazia trovando rifugio nella «zona
italiana», dove gli ebrei - e lui era un ebreo - si sentivano
più sicuri. Il dottor Jungwiert – così si
chiamava, ricordo bene il suo nome - pronunciò un giorno
una parola che al solo sentirla mi gelò il sangue nelle
vene: «tubercolosi». C'era un solo rimedio, spiegò: «Bisogna
nutrirla bene». E con cosa, dottore?
Poi successe qualcosa di peggio: nostra madre tornò dal
lavoro con alcuni denti in meno. L'unica merce che si poteva
vendere o scambiare per procurarsi dei generi alimentari era
l'oro. Mia madre aveva alcuni denti d'oro e se li era fatti estrarre
per venderli in cambio di cibo. Ma non bastarono. Tutto quello
che era stato comprato fu ben presto consumato. E mia sorella
non era ancora guarita.
Qui comincia appunto la storia che voglio raccontare.
Nelle vicinanze della nostra abitazione si trovava una
caserma nella quale si sistemarono i soldati italiani. Cercavo
di non
badarci. Giravo alla larga per non incontrarli, la loro presenza
mi era sgradita. Ma un giorno mia madre m’incoraggiò: «E'
gente che canta, alcuni anche pregano, certamente ci sono delle
brave persone anche fra di loro». Mi suggerì di
avvicinarmi a quei soldati per pregare qualcuno di loro di darci
un po' di riso per la mia piccola sorella. Imparai alcune parole
italiane: dare, riso, sorellina, malata. Passai accanto a un
soldato, poi a un secondo e a un terzo, farfugliando quelle parole,
ma nessuno alzò gli occhi su di me. Probabilmente pensarono
che fossi un mendicante. Il primo suonava l'armonica a bocca,
il secondo guardava delle fotografie, il terzo era semplicemente
immerso nei suoi pensieri. Fermatomi davanti al terzo, pronunciai
per la seconda volta le quattro parole imparate a memoria, stavolta
spiccicando meglio le sillabe. Mancavano le preposizioni, il
verbo non era coniugato. La grammatica era assente ma speravo
d'essere capito. Il soldato, infatti, trasalì, mi guardò,
mi accarezzò i capelli, disse qualcosa che non capivo.
Compresi però di essere di fronte a un uomo mite. Mi fece
segno di aspettare, mi avrebbe portato qualcosa.
Tornò presto con una piccola gavetta militare, di color
verde, con il coperchio di latta zincata. Il recipiente era pieno
di riso cotto e condito. Non lo assaggiai nemmeno, portai subito
tutto a casa.Tornai davanti alla caserma l'indomani, ci tornai
anche dopodomani, e poi ogni giorno, per farmi riempire la gavetta
con la minestra di riso.
Mia sorella, cibandosi di quel rancio militare, prese a star
meglio. Ecco, conobbi così «l'italiano», un
soldato che si chiamava Mario. E questa fu la più bella
storia in una triste infanzia.
Nell'autunno del Quarantatré (’43) l'esercito italiano
in Erzegovina e negli altri territori occupati cessò di
combattere. I soldati fuggirono da varie parti, si dispersero.
Alcuni passarono nelle file partigiane, altri si arresero ai
tedeschi e finirono nello Stalag. Oppure furono trasferiti forzosamente
sul fronte orientale, verso l'inverno russo che i giovani mediterranei
non sopportavano; altri ancora vagarono qua e là per sfuggire
alla cattura, decisi a raggiungere la costa adriatica, mettere
le mani su qualche trabaccolo e passare sulla sponda opposta.
Tornare a casa. A quell'epoca avevo ormai compiuto undici anni
e mi rendevo conto di quello che stava succedendo.
Una sera, sul tardi, qualcuno bussò alla porta della nostra
abitazione. Chi è?
«
Mario».
Entrò in casa, silenzioso e guardingo. A mio zio, che
si trovava nel corridoio d'ingresso, rivolse alcune parole: il
soldato cercava un rifugio, una salvezza. Dietro la nostra casa
era un piccolo locale che serviva da lavanderia. Lo sistemammo «provvisoriamente» in
quel vano. Ma trepidavamo per lui e per noi stessi, nel timore
che potessero scoprirlo. Ogni giorno, verso l’ora di pranzo,
di nascosto, portavo a Mario una parte del poco cibo che noi
si riusciva a trovare. Glielo portavo nella stessa gavetta verde
che proprio lui mi aveva dato. Non so chi di noi due attendesse
con maggior ansia quell'incontro: Mario che rimaneva per l'intero
giorno solo e inquieto nell'angusta lavanderia, oppure io che
all'improvviso ero diventato «grande», pari agli
adulti, complice del loro gioco. A quel punto sapevo già dire
qualcosa di più delle quattro parole d’italiano
e riuscivo anche a capire meglio. Imparai, tra l'altro, alcune
parole di una canzone canticchiata da Mario nella quale si parlava
di Lugano: Addio Lugano bella.... Ma dov'era Lugano? Che città meravigliosa
era mai quella cantata dal mio «amico segreto»?
Non ricordo bene per quanto durarono quei nostri incontri.
Ripensandoci, a volte mi pare che si protrassero a lungo, altre
volte che passarono
presto.Un giorno Mario mi spiegò che desiderava incontrare
di nuovo mio zio, voleva parlargli. Mio zio aveva evitato la
chiamata al fronte per una ferita alla gamba, che gli era valsa
la destinazione a non so quali lavori nelle «retrovie»,
a compiti sulla cui natura non osavamo chiedergli spiegazioni.
S’incontrarono quella stessa sera, senza di me. L'indomani
Mario sparì.
Mi sentivo triste, abbattuto. Perché non mi aveva avvertito?
Come ha potuto? Gli scrissi una lettera piena di rimproveri,
ma non sapevo a quale indirizzo spedirla. Mia madre mi disse
che dovevo gettarla nel fuoco, distruggerla, «per non farla
trovare», per evitare guai. Perché, aggiunse, «Mario
ha raggiunto il bosco». E questo, a quell'epoca, significava
che si era unito ai partigiani.
La guerra continuò. Continuarono anche le nostre tribolazioni,
ma ormai ci eravamo abituati. I parenti che vivevano in campagna
ci portavano ogni tanto quel poco di cibo che bastava a tenerci
in vita. Vendemmo tutto ciò che si poteva vendere. C’indebitammo.
Trascorrevo tutto il tempo libero a suonare su un vecchio pianoforte,
sognando di diventare un pianista famoso e guadagnare, così,
un sacco di quattrini, tanti da poter pagare i debiti, rimettere
a posto i denti della mamma, sfamare tutti i bambini della città.
Mi innamorai di una giovane suora che mi dava lezioni gratuite
di piano, avevo già dodici anni.
Si attendeva da un giorno all’altro che la guerra finisse.
Ogni sera ascoltavamo Radio Londra. A Napoli c’erano già gli
alleati. I russi si avvicinavano ormai ai confini del nostro
Paese e proprio da loro mi attendevo il miracolo: ero sicuro
di trovare fra i soldati russi, quando sarebbero arrivati da
noi, qualcuno dei parenti di mio padre che fino ad allora non
eravamo riusciti a conoscere. Un parente che sicuramente aveva
una bella voce per cantare. Gli davo i nomi che trovai nelle
letteratura russa che cominciavo a leggere in lingua: Anatolij,
Serghej, Vsevolod.
Il 13 febbraio 1945 finalmente Mostar venne liberata. In città entrarono
i partigiani. In mezzo a loro c'erano numerosi combattenti italiani
sparsi tra le varie brigate. C'era anche un intero battaglione
chiamato «Garibaldi». La sera di quel lungo e freddo
giorno di febbraio qualcuno tornò a bussare alla porta
della nostra casa. Il cuore mi salì in gola. Dal suono
o meglio dalla cadenza e dall'intensità di quel bussare
riconobbi qualcosa che già avevo sentito. Era il bussare
di una mano familiare.
«
Sono Mario».
Era tornato! Mi abbracciò, mi piantò sulle sue
ginocchia. Rimase con noi non so quanto nella gelida stanza della
nostra casa. «Tornerò domani», s'accomiatò.
E venne ogni giorno, per tre o quattro settimane fino a quando
il suo battaglione rimase in città. Tornò ad aiutarci.
Le navi alleate avevano cominciato a gettare le ancore nel porto
di Dubrovnik, sbarcando armi, munizioni e viveri per l'esercito
partigiano e per la popolazione. Sui pacchi degli aiuti stava
scritto UNRA. Ancora ricordo com’erano fatti. C'era di
tutto in quei pacchi, dal vestiario alla cioccolata. Aspettavamo
l'arrivo di Mario ogni giorno verso mezzogiorno, chiedendoci
che cosa ci avrebbe portato.
Ma la guerra non era finita. I partigiani si accingevano a sfondare
le linee tedesche per proseguire la marcia verso il Nord del
Paese. All'inizio di aprile, liberarono Sarajevo. Nel corso della
primavera - l'ultima primavera di guerra - se ne andò anche
Mario per partecipare alle operazioni finali. «Tornerò»,
disse nella nostra lingua: «Vratit ?u se!».
Non tornò.
Non riuscimmo a sapere più nulla di lui. Le ultime operazioni
belliche impegnarono l'esercito in scontri durissimi: i partigiani
erano abituati alla guerriglia, non alla guerra frontale. Molti
persero la vita in quelle battaglie di aprile e nei primi giorni
di maggio. Se avesse potuto, Mario sarebbe certamente tornato.
Sapeva che io lo aspettavo.
Ma non tornò.
La storia che ho voluto raccontare, tuttavia, non è ancora
terminata. La guerra lasciò irrisolti molti problemi su
un territorio verso il quale la grande Storia non è stata
molto tenera. Mi avviai agli studi superiori, ma non a quelli
di musica: m’iscrissi al quadriennio di lingue e letterature
romanze a Sarajevo; presi a studiare seriamente anche l'italiano.
A causa dell’insonnia e della depressione - disturbi cominciati
probabilmente con le notti passate in bianco durante la guerra
- fui costretto a lasciare i libri. Nel frattempo mi chiamarono
alla leva militare. La naia mi toccò nel periodo peggiore:
era scoppiata la cosiddetta «crisi di Trieste» che
minacciava di trasformarsi in una nuova guerra. Dalla caserma
di Zemun, presso Belgrado, dove si trovava il mio battaglione,
fui trasferito sul monte Platak che domina la città di
Rijeka/Fiume. In quella regione di frontiera il nostro addestramento
militare, con tiri, finte battaglie e lunghe marce, continuò giorno
dopo giorno, nelle ore mattutine e in quelle pomeridiane. Eravamo
pronti ad intervenire nel vicino Territorio di Trieste suddiviso
nelle Zone A e B. Le marce si protraevano per diverse ore, cadevamo
a terra per la stanchezza; correvamo all'assalto di immaginari
fortini e trincee nemiche, eseguendo gli ordini, sparando e urlando «hurrah».
Gli allarmi si ripetevano ogni notte, lasciandoci poche ore di
sonno. Servivano a tenerci pronti a qualsiasi evenienza. «Sveglia!
Il nemico non dorme!», urlavano gli ufficiali di picchetto,
ma non dormivo neppure io. Anche dall'altra parte del confine
le giovani reclute italiane si preparavano alla resa dei conti
con "sti slavi", anche loro si addestravano, marciavano,
correvano all'assalto, sparavano contro di noi con tutte le armi.
Mi tormentava un pensiero: «E se Mario avesse un figlio
e quel ragazzo fosse dall'altra parte del confine? Se scoppiasse
la vera guerra e lo colpissi?». Mi consolavo pensando al
fatto che ero un cattivo tiratore, avrei certamente mancato il
bersaglio. Anche oggi, quando in Italia incontro qualche mio
coetaneo, mi chiedo se non sia stato in mezzo a coloro che io
avrei dovuto uccidere o che avrebbero potuto uccidere me.
Una sera, alla periferia di Fiume, sentii tre ragazzi e una ragazza
che, seduti in disparte, cantavano in italiano la canzone Vola,
colomba bianca vola... Cantavano sottovoce, con nostalgia, ma
anche con una punta di orgoglio. Quando scorsero il soldato che
si avvicinava - ero io - se la diedero a gambe. Non riuscivo
a credere ai miei occhi: c'è qualcuno che fugge alla mia
vista, cioè al cospetto di un ragazzo pallido e nervoso,
studente universitario senza laurea, figlio di un emigrante di
Odessa, «amico di Mario»!
Ben presto mi fu raccontata la storia dell'esodo dei nostri italiani
dalle terre istro-quarnerine. Venni a conoscere anche l'altra
storia, quella dei massacri compiuti dalle Camicie nere in Dalmazia
e in Montenegro durante l'occupazione. Non riuscivo a credere
o non volevo credere né all'una né all'altra, eppure
sentivo e intuivo che in entrambe c’era del vero. Fu così che
divenni anch'io un componente della minoranza, non soltanto nazionale
o politica, ma della minoranza in assoluto. Ignoravo dove la
cosa mi avrebbe portato. Forse non soltanto nella letteratura.
Qualche anno più tardi, avendo conosciuto non pochi intellettuali
della minoranza italiana del territorio istro-quarnerino, mi
fu più facile capire i problemi di quegli italiani esuli
e di quelli «rimasti con noi» e talvolta dimenticati
dai loro connazionali. Era possibile collaborare con quel piccolo «popolo
d'Italia» nella Jugoslavia che non era ancora «ex»:
ricordo in questa occasione Eros, Giacomo che mi ha aiutato a
tradurre questo racconto, Nelida, Lucio, Alessandro, Claudio
e altri amici che conobbi prima di arrivare nelle patria di Mario.
Da otto anni sono qui, con voi. L'Italia mi ha concesso
la cittadinanza, ho mantenuto anche la cittadinanza della Croazia.
A Roma, agli
studenti universitari de «La Sapienza» che imparano
la mia lingua materna, racconto talvolta la storia del mio vecchio
amico del tempo di guerra, quella che ora ho raccontato a voi.
Già prima di venire in Italia ho cercato di spiegare alcune
cose a diversi interlocutori. La contesa non induce alla comprensione.
Quasi sempre la vendetta colpisce gli innocenti. Rammentare il
male non libera dal male, l'ho ripetuto tante volte all'una e
all'altra parte. Pochi mi hanno ascoltato. Un mio amico, ex dissidente
russo, ha aggiunto impietosamente: «Hanno ascoltato vari
profeti nel deserto, non vogliono più sentirli».
S’accontentano del deserto.
Sono onorato dell'alto riconoscimento che mi viene concesso dall'Università degli
Studi di Trieste.
(Tratto
dalla Lectio doctoralis, tenuta in occasione della consegna di Laurea
honoris causa all’Università di Trieste [28 giugno 2002].
Traduzione di Giacomo Scotti.)
Predrag
Matvejevic è nato nel 1932 a Mostar (Bosnia-Erzegovina),
da madre croata e padre russo. E' stato docente di Letteratura
Francese all'Università di Zagabria e di Letterature
comparate alla Sorbona di Parigi. All'inizio della guerra nella
ex-Jugoslavia è emigrato scegliendo una posizione "tra
asilo ed esilio": dal 1991 al 1994 è vissuto in
Francia, e dal 1994 lavora in Italia, dove il Governo gli ha
concesso la cittadinanza "per meriti culturali",
ed è attualmente professore ordinario di Slavistica,
nominato "per chiara fama", presso l'Università La
Sapienza di Roma,.
Tra i suoi libri, tradotti in varie lingue, si ricordano i
più famosi: Epistolario dell'altra Europa (Garzanti 1992), Breviario
Mediterraneo (Hefti 1989, poi Mediterraneo.
Un nuovo Breviario, Garzanti 1991)
, tradotto in una ventina di lingue. E poi: Sarajevo ( Motta
1995), Ex Jugoslavia. Diario di una guerra ( Magma 1995, con
prologo di Czeslav Milosz e epilogo di Josif Brodskij), Mondo
Ex - Confessioni ( Garzanti 1996), Tra asilo ed esilio (Meltemi
1998), Il Mediterraneo e l'Europa - lezioni al College de
France ( Garzanti 1998), I signori della
guerra ( Garzanti 1999), Isolario
mediterraneo ( Motta 2000), Compendio d'irriverenza (Casagrande
2001), L'altra Venezia (Garzanti 2003).
Matvejevic è presidente del Comitato Internazionale della
Fondazione Laboratorio Mediterraneo, vice presidente dell'Associazione
mondiale degli scrittori P.E.N. Club e membro fondatore dell'Associazione
Sarajevo a Parigi e a Roma.
Tra i vari altri riconoscimenti internazionali (come il "Premio
Europeo", Ginevra 1992, e il "Prix du meilleur livre étranger",
Parigi 1993), il Governo Francese gli ha consegnato la Légion
d'honneur.
Attualmente riveste la carica di consigliere di Romano Prodi
presso la UE per le politiche del Mediterraneo.
Ha vinto proprio in questo mese di Luglio il Premio Strega europeo
per la letteratura.
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