PASSAGGIO IN OMBRA
( – brano del romanzo – )
Mariateresa
Di Lascia
(...) Mia madre ed io abbiamo vissuto a lungo sole, innamorate
senza rimedio l’una dell’altra, con una piccola
folla di creature benefiche che si occupava di me, nelle
molte ore in cui Anita era fuori a lavorare.
Avevo una guardiana brunetta e magrolina, con le gambe lunghe
come un ragno e un carattere festoso e improvviso, che si chiamava
Rosina e mi teneva con sé intere mattinate. Quando si
faceva l’ora di mangiare, arrivava l’intera famiglia
di Rosina e la casa si riempiva di odori e di voci; allora venivo
messa su un seggiolone di legno dove non potevo intralciare quel
grande viavai di cose e di persone. Inutilmente lanciavo urla
per essere lasciata sul pavimento a giocare con Maurino, il più piccolo
della famiglia che aveva cinque anni più di me ed era
timido e affettuoso. Dall’alto del seggiolone sovrastavo
la sua statura e gorgheggiavo scambiando con lui pezzetti di
carta, bottoni e mille sorrisi. Seduti a tavola a mangiare eravamo
un numero di persone incalcolabile per la mia mente infantile,
e nessuna delle tavolate a cui ho partecipato da adulta, mi è sembrata
mai tanto grande e felice come quelle di allora.
Anita non si staccava da me un solo istante e mi teneva in braccio
dandomi da succhiare le dita intinte di assaggi misurati, mentre
mi stampava in viso e sui capelli baci pieni di briciole. Alle
mie richieste più insistenti, si toglieva rapida dalla
bocca un poco di cibo e me lo dava, come ho visto fare agli uccelli
con i loro piccoli, e mi cullava fino a quando gli occhi non
si chiudevano nel gusto. Allora scivolavo con la testa nel punto
più caldo del seno: dove questo si incava con l’ascella
a fare una nicchia, creata apposta per cullarci il sonno dei
bambini.
Che ci fosse la guerra io non lo seppi mai, se si esclude la
volta in cui andammo tutti a ripararci alle grotte di S. Pietro,
poco fuori dal paese, perché il bollettino delle forze
armate aveva annunciato che c’erano stati nuovi bombardamenti
a sessanta chilometri da noi e che si stavano avvicinando alla
stazione. Partimmo la mattina come per una scampagnata, con le
borse piene di stracci e di pane, un’intera processione
di paesani che avanzava con passi diversi, tirandosi dietro bambini
e vecchi genitori in un silenzio opaco.
Rosina, la mia balia, aveva voglia di cantare perché quella
era la strada di quando si andava alla festa della Madonna del
Pozzo e il prete intonava: “Miiira il tuo popolooo, beeella
Signoooora, che pieeem di giubilooo oggiii ti onooora”.
ma, ogni volta che provava a dire a sua madre che la conosceva
tutta, perché l’aveva imparata dalle suore quando
aveva fatto la comunione, si prendeva un pizzicotto e lanciava
un urlo come la sirena del coprifuoco.
Io ero in braccio a mia madre e, da quel nido amoroso, guardavo
il mondo sconosciuto che si apriva davanti. Con Rosina non ci
eravamo mai spinte così lontano, e non certo perché i
miei passi fossero un ostacolo alla sbrigliatezza della guardiana
(che, anzi, non teneva in nessun conto la mia piccola età)
ma perché era stata severamente ammonita che non facesse
troppo la scriteriata e che non mi succedesse niente.
La mattina, quando veniva a casa, mi trovava già vestita
con i pannicelli di lana fatti a ferri e il fiocco in testa che
Anita mi metteva perché i capelli non andassero negli
occhi. Rimanevamo sole che ci eravamo già scambiati alcuni
dispettucci e qualche carezza. Rosina voleva sempre uscire, qualunque
fosse il tempo, e Anita ci nascondeva i cappotti quando l’aria
era troppo fredda. Con lei ero andata in fondo al paese, dove
non c’è più nessuna casa e non si vede più nulla,
se non i campi affollati di erbacce e di sterpi, cresciuti senza
regola. Una volta mi ero anche sbucciata un ginocchio scivolando
in quella via scoscesa, ed ero rotolata per qualche metro con
la incredibile leggerezza dei bambini. Tornate a casa con il
fiocco disfatto e i vestiti sporchi di terra, Rosina negò ogni
cosa, e disse di non sapere né quando, né come
mi fossi fatta male. Anita, sfiduciata, smise di domandare perché a
volte era meglio parlare con il muro che con Rosina, e rivolse
a me tutte le attenzioni. E mentre mi lallava soffiandomi il
naso e mi scaldava le mani coi respiri, io balbettai la prima
frase compiuta della mia giovane vita, esplodendo in una grande
risata: “Iaia tùmpete!” dissi in un sospiro
di prova. Eppoi, fatta sicura di me, lo ripetei sempre più forte,
rotolando a terra sotto gli occhi contenti di Anita, a dimostrazione
di quel mio glorioso tùmpete.
Rimanemmo nella grotta di S. Pietro una notte e un giorno intero,
senza che nell’aria si sentisse il rombo annunciato dei
motori e neanche si levassero i rumori dei bombardamenti che
si avvicinavano. Per noi bambini fu festa grande, e nessuna minaccia
o rimprovero servì a tenere tranquilli il nostro sangue
e il nostro argento mescolati, in un luogo dove la proibizione
e la regola cadevano senza peso, come piume.
Ma il massimo della felicità fu quando, nell’aria,
risuonò lo scampanellio lungo di un intero gregge di pecore,
che veniva a ripararsi nella grotta prima che arrivasse la sera.
Mi addormentai fra belati di agnelli e grida di bambini, senza
che la guerra passasse su di me con la sua ombra di morte. (...)
(Tratto
dal romanzo Passaggio in ombra, Feltrinelli Editore, Milano,
1995)
Scomparsa
prematuramente all’età di quarant’anni,
Mariateresa Di Lascia si è sempre battuta per le cause
della democrazia e dei diritti civili e umani all’interno
del Partito radicale, di cui è stata anche vicesegretaria
nel 1982 e deputato della nona legislatura. È stata
fondatrice della Lega Internazionale Nessuno tocchi Caino per l’abolizione della pena di morte nel mondo. Nel
1988 aveva scritto il romanzo La coda della lucertola, che
allora non volle pubblicare; dal 1988 al 1992 si è dedicata
alla stesura di questo romanzo; ha poi composto quattro racconti,
di cui uno, Compleanno, ha vinto il Premio “Millelire”.
Il suo nuovo romanzo, Le relazioni sentimentali, rimasto
incompiuto. Questo Passaggio in ombra ha vinto il Premio
Strega nel 1995.
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