LA
CUSTODIA DEGLI ANEDDOTI
Pauline
Melville
La voce dell’attrice arrivò fluttuante, leggermente
alterata, da sopra il camerino:
“
Ma quando mi giro di lato, mi nasconde il viso, vedi?”
Poi fu la volta della voce assecondante del costumista:
“
Non le piaceva quello? Negli anni Cinquanta si indossavano quei
grossi cappelli, sa. Proviamo un attimino con questo.”
Un momento di silenzio poi il tono dell’attrice aumentò e
si acuì:
“
Senti. Io devo entrare in proscenio, posare i guanti sul tavolo,
girarmi e baciare mia madre. Non riusciranno a vedermi il viso.”
“
Ritorniamo allora al color panna e salmone? Lasci che glielo
sistemi.” C’era una carnalità potente, indolente
nella voce del costumista, il prodotto d’anni di cinica
adulazione. Ne risultò un sospiro strozzato:
“
E’ che non mi sembra proprio come se andassi a Wimbledon.”
Il costumista uscì facendosi largo dal camerino con una
brancata di acconciature e si girò, raggrinzendo le guance
gonfie come borse, fingendo collera verso il suo assistente che
girò gli occhi in su per solidarietà e afferrò un’altra
selezione di cappelli a tesa larga con piume. Il costumista girò sui
tacchi e rientrò raggiante nel camerino:
“
Diamo un’occhiatina a cosa abbiamo qui, le va?”
Dall’altra estremità della stanza si sentì il
brusio di dodici spose arrabbiate che, dopo aver aspettato più di
un’ora che un taxi portasse dall'altra parte della città gli
abiti nuziali, stavano finalmente provando i loro costumi.
Il Kerantzis Costumi occupava dei locali che dominavano il Tamigi.
L’atrio era largo e formale con un’aria datata. Il
rivestimento di color blu elettrico attenuava ogni rumore. Fotografie
in bianco e nero autografate da generazioni di star adornavano
le pareti. C’erano due manichini rigidi alle opposte estremità del
foyer, uno vestito in perfetto stile Enrico VIII, l’altro
come una meno identificabile donna dell’epoca vittoriana,
forse Florence Nightingale. I due manichini sembravano delle
dimostrazioni di cattiva recitazione. Un tappeto rosso che girava
sulle scale portava ai piani superiori del magazzino che conteneva
rastrelliere di vestiti di ogni impensabile periodo. Gli spogliatoi
e camerini per provare i costumi stavano al primo piano.
Fuori dal camerino dove l’attrice con crescente disperazione
provava cappelli in successione, c’era un divano rosso
di felpa con gambe dorate. Seduto, sotto una finestra con vista
sul fiume, vi era la figura nota di Max Saunders. La sua presenza
causò un volume ancora più grande di eccitato brusio
nell’alveare delle spose arrabbiate. Di tanto in tanto,
qualcuna sbucava fuori con la testa dalla tenda dello spogliatoio
e gli dava una sbirciata oppure si inventava una scusa per uscire
a sfilare di fronte al lungo specchio vicino a dove lui stava
leggendo una copia abbandonata di “Stage”. Era impossibile
dire, quando lui alzava lo sguardo se fosse per via dei suoi
occhi blu acido fulminati che nelle ragazze si produceva una
sensazione di shock delizioso, o semplicemente per il fatto di
trovarsi così vicine a una grande celebrità.
Ritornavano in fretta agli spogliatoi per giocare a indovinare
la sua età, quarantacinque anni pensavano, per discutere
sui pregi del suo naso, troppo lungo con una gobba leggera, e
per lodare la bocca soffice, familiare con una lieve piega delle
labbra e, naturalmente, gli occhi cerulei, magnetici. Consapevoli
della sua reputazione di reprobo e roué, le spose correvano
dentro e fuori provocanti, conoscendone le conseguenze, e tuttavia
cercando invano di attrarre l’attenzione fatale del loro
Barbablù.
Maximilian Saunders, oltre vent’anni di successi a Hollywood,
considerava Los Angeles lucente di viziata virilità. Le
sue ciglia erano state tinte sotto l’insistenza della casa
di produzione. La carnagione morbida indicava costosi trattamenti
per la pelle. Ma tra un impegno cinematografico e l’altro,
ritornava in Gran Bretagna ogni volta che riusciva per apparire
in palcoscenico. Il suo primo amore era sempre stato i teatro.
Giurava che non vi erano in tutto il mondo attori migliori che
in Gran Bretagna. In cuor suo, sentiva che la sua vita a Hollywood
era effeminata e che in qualche modo lo aveva evirato. Ne aveva
vergogna. Persino le sue infuriate sembravano una recita. Irreali.
Le relazioni pubbliche una esibizione. L’ambizione iniziale
era stata quella di diventare dottore ma aveva abbandonato gli
studi di medicina a metà strada per fare l’attore.
Nonostante fosse ricco, la maggior parte della sua vita lavorativa
era stata ossessionata dall’idea che la professione scelta
non avesse valore, che lui non fosse altro che un buffone professionale.
Non appena riconobbe Maximilian Saunders entrare dalla porta
automatica, la receptionist, una bionda fieno carina in minigonna,
si era spostata i capelli dietro le spalle e si era affrettata
a uscire dal banco per salutarlo. Lui stava di fronte a lei,
con l’impermeabile verde scuro Armani trasandato, aperto
per rivelare casualmente una camicia a collo scoperto.
“
Buon pomeriggio, Mr Saunders. La stavamo aspettando. Conosce
la strada per i camerini o l’accompagno?”
“
Conosco la strada per i camerini ma gradirei mi accompagnasse”,
rispose con un ammiccamento affaticato, civettuolo. La voce aveva
un suono aspro raffinato. Lei salì le scale davanti a
lui, fiera di fargli da guida, come lui sapeva sarebbe stata.
Era una delle cose strane che notava della celebrità – come
bastava poco per far credere alle persone quanto lui fosse una
persona piacevole. Un sorriso e il grato ricevente diceva “Max
Saunders è proprio gentile, sai, per niente sostenuto.” Se
avessero ricevuto un sorriso da un giornalaio, non lo avrebbero
neanche notato.
La receptionist si guardò attorno e si accorse di un secondo
uomo che arrancava goffo su per la scala rotonda dietro a loro.
In cima alla figura corpulenta, l’uomo aveva una testa
semi quadrata che protendeva stranamente indietro e uno scalpo
roseo coperto a malapena da diversi fili fini di capelli biondi.
Indossava una giacca sportiva e pantaloni molto sgualciti. Le
ciglia quasi bianche davano l’impressione che stesse costantemente
ammiccando. La receptionist si accigliò un poco mentre
si chiedeva chi fosse.
“
Il mio sorvegliate”, disse Saunders con una smorfia. Non
si era ancora abituato al fatto di avere una guardia ventiquattr’ore
su ventiquattro.
Di ritorno, la receptionist ricordò la causa di divorzio.
Saunders aveva di recente divorziato dalla moglie attrice a Los
Angeles e, per avere la custodia parziale del figlio, era stato
obbligato a firmare un accordo secondo il quale doveva accettare
di avere un sorvegliante ventiquattr’ore su ventiquattro
che lo tenesse lontano dal bere. I sogni si frantumano nelle
bocche degli avvocati. Aveva sperato di vivere in Inghilterra
con il ragazzo per un po’, ma era stato ostacolato da una
complicata battaglia legale che la casa di produzione, con cui
era sotto contratto, aveva intrapreso in combutta con la moglie.
Nell’interesse di vedere il figlio, aveva firmato con riluttanza
l’accordo.
“
Ah, ma chi avrà la custodia degli aneddoti?” scherzò uno
spiritoso di Hollywood quando il divorzio fu approvato. Saunders
era un famoso raccounter.
Poco prima della sua supposta partenza per Londra, Max Saundres
colse l’opportunità per un’ultima bevuta prima
dell’entrata in vigore del nuovo regime rigido. Intrattenne
alcuni del cast del suo più recente film in un ristorante
di Berverly Hills chiamato Skunky Funk. L’arredamento era
lussuosamente semplice, assi di puro legno sul pavimento, un
soffitto sostenuto da eleganti pilastri di legno, cornici alle
porte e finestre dipinte di turchese tenue, fresco. Vini buoni
frizzavano nei bicchieri. I camerieri in lunghi grembiuli bianchi
erano giovani ed eccessivamente attraenti. Si diceva che si sottoponessero
a un provino per essere assunti.
Bambù piazzati con ingegno e paraventi di vimini nascondevano
il gruppo di Saunders dallo sguardo pubblico.
Le palpebre gli si abbassavano per l’acol. Un cono inclinato
di cenere pendeva dal mozzicone della sigaretta. Qualcuno tolse
una coppetta di cocaina da dove la cenere era in prossimità di
cadere e la passò in giro. Saunders parlava nel suo usuale
modo laconico, soffocandosi di tanto in tanto col fumo della
sigaretta:
“
Non appena l’allarme antincendio suonò in questo
bordello di Stoccolma, non potete immaginare il panico. Mi colpì che
un bordello avesse persino un allarme antincendio. Abbi fede
negli svedesi. A ogni modo, me ne andai fuori velocemente, se
avete colto il senso. Nel momento in cui mi resi conto che la
cosa era preoccupante e battagliavo con i pantaloni, c’era
già un alone di fumo nell’atrio. Scesi in strada.
All’improvviso, la porta d’ingresso si spalancò e
una delle ragazze salterellò fuori come un canguro sbronzo,
tuta nuda, tette al vento, gambe e piedi legati con nastro isolante.
Aveva nastro isolante persino sulla bocca. C’era così tanto
nastro isolante che pensai doveva essere stata con uno degli
elettricisti della nostra squadra. Comunque, era una notte gelata.
La poveretta salterellò oltre e cercò di premere
il campanello di una casa confinate con il naso e qualcosa successe,
non so come, ma c’era un freddo boia lì, e il naso
le si gelò sul campanello. Mentre stava accadendo questo,
un uomo vestito da cameriera francese, con un piumino per la
polvere in mano, corse fuori precipitandosi giù verso
una delle principali strade di negozi di Stoccolma a mezzanotte,
con il piumino davanti alla faccia, per non essere riconosciuto.
Prima che arrivassero i pompieri, la maggior parte delle persone
era fuori. Liberarono dal campanello la ragazza che salterellò nell’ambulanza.
Pensavo di crepare dal ridere. I pompieri cercarono di tirarne
fuori un altro che evidentemente non voleva essere riconosciuto.
Alla fine lo trascinarono fuori. Era in costume da bagno con
le pinne e con i rimasugli di un uovo lesso in testa – uno
degli avvocati svedesi più in vista, pare. Che notte.
In ogni caso sempre meglio di quel parlour per massaggi dove
andai una volta a Melbourne dove ci sfregarono con un olio da
cucina australiano, ci lasciarono per ore in bidoni neri rivestiti
e ci costò una fortuna.”
Alcune risate erano genuine, altre adulatorie. Max aveva già raccontato
questi aneddoti. Dopo il ristorante, la gara prolungata a chi
beve di più continuò e si concluse quando entrò carponi
nella stazione della polizia cercando di denunciare la sparizione
dei piedi. Dopo di che, passò cinque settimane nella irreale
umidità di Corpus Christi, in Texas, disintossicandosi
in una clinica privata.
Adesso era a Londra a fare le prove per una produzione di Bassifondi di Gor’kij. Faceva la parte dell’Attore alcolizzato,
poverissimo. Tutti concordavano che avrebbe dato grande profondità e
veracità alla parte, senza contare che era anche una attrazione
per il botteghino.
A ogni modo, alla porta del suo appartamento di Mayfair arredato
anonimamente, il cuore di Max aveva sobbalzato alla vista dei
tratti pronunciatamene maialeschi e delle ciglia albine dell’uomo
che sarebbe diventato il suo sorvegliante. Ma decise di essere
collaborativo. Le perdite di memoria e gli enormi buchi del cervello
stavano diventando più frequenti. Il bere poteva intaccare
il suo lavoro in scena. E poi era sicuro di potersi fare qualche
bevuta se ne sentiva veramente il bisogno.
Il sergente ex-detective Frank Edwards si sedette su una sedia
di legno ai Kerantzis Costumi a pochi passi dal suo uomo, chinato
in avanti con i gomiti sulle ginocchia, girando i pollici. Non
voleva ammetterlo, ma il nuovo lavoro lo aveva disorientato.
Dopo essere andato in pensione presto, questo era il suo primo
tentativo nella sicurezza privata. Come la maggior parte delle
persone, era lusingato di essere nel mondo delle celebrità.
Ma essendo abituato a un ambiente di lavoro con ordine e con
una gerarchia rigida, si sentiva ora distintamente intimidito
dal mondo incostante e ingannevole dello show business. Sentiva
nostalgia del mobilio funzionale da ufficio, delle tazze di poliestere
della macchinetta del caffè e del cameratismo pieno di
cliché della polizia. Inoltre, era abituato a essere una
figura di autorità, di un qualche potere. La gente gli
aveva obbedito. Questo mondo non familiare di spose bisbiglianti,
cappelli piumati e tappezzeria su misura lo riduceva a un silenzio
inquieto.
“
Senti qua.” Saunders picchiettò il giornale e lesse
volutamente con toni recitativi una sezione della pagine dei
necrologi dello Stage:
“
E’ con grande dolore che annunciamo la morte di mio padre
Charlie ‘Trombettiere’ Bovington, di anni settantotto,
artista e compagno di lavoro amatissimo. Ci mancherai, papà.
Firmato la mamma, Julie e il tuo devoto figliolo, Arnold Bonvington,
attualmente in scena con Il gatto con gli stivali al De la Warr
Pavilion, Bexhill-on Sea.”.
Max scoppiò in una fragorosa risata. Edwards era confuso.
Non ci vedeva niente di divertente.
“
E’ il ‘attualmente in scena con…’” spiegò Saunders
pazientemente. “E’ riuscito a usare il necrologio
del padre per fare pubblicità al suo spettacolo. Non siamo
stupendi noi attori?” Ridacchiò e tornò alla
lettura.
“
Ah…capito”. Frank Edwards copiò spontaneamente
la risata. In quello stesso momento, l’attrice scappò fuori
dal camerino con un’espressione di intenso martirio lamentandosi
amaramente. Appena vide Max Saunders si fermò sui suoi
passi e sorrise. Lui non la notò. Delusa, camminò lentamente
giù per le scale, fingendo di cercare qualcosa nella borsetta.
Frank Edwards prendeva seriamente il suo nuovo lavoro. La produzione
lo pagava bene. Quella mattina aveva condotto un’indagine
attenta e professionale nell’appartamento di Mayfair alla
ricerca di una qualsiasi traccia di droghe o alcol. L’aveva
trovato pulito. Sapeva doveva sorvegliare Maz ovunque andasse.
Doveva assicurarsi che vi fosse acqua minerale o puro succo di
frutta nel bicchiere del suo uomo ai ristoranti e alle cerimonie
e alle prove. Lo accompagnava in bagno. Si sedeva fra le quinte
quando Max era in scena. Adesso era posizionato proprio in un
punto da dove poteva guardare dentro il camerino per assicurarsi
che il costumista, che con un mucchio di spilli in bocca stava
sistemando Saunders negli stracci e cenci appropriati al suo
nuovo ruolo, non stesse passandogli qualcosa.
Durante alcune sere successive, per cercare di superare l’iniziale
imbarazzo fra loro, Max chiese a Frank di ascoltarlo nella parte.
All’inizio Frank lesse le altre parti con gli stessi toni
monotoni inespressivi che usava per deporre in tribunale. Ma
dopo un po’ incominciò a prendere il ritmo e a dare
un ritratto energico e umoristico, anche se crudo, ai personaggi.
Ascoltare le esperienze di Frank come ufficiale di polizia nel
trattare con i senza casa e i bisognosi era utile per Max come
forma di ricerca per Bassifondi. Max iniziò a invidiare
i rapporti di Frank con il mondo reale. Gli ricordavano una volta
di più l’illusoria natura del suo mestiere e lo
facevano sentire vuoto dentro, come se non avesse ottenuto nulla
nonostante la sua fama. Incominciò ad avere tenui attacchi
d’ansia, palpitazioni. Frank, invece, si rilassò e
divenne più sicuro nel proprio nuovo lavoro.
A metà del periodo delle prove, il figlio di Max tornò a
casa per fine semestre. Il ragazzo, un languido biondino, si
scostava dietro i capelli in modo vanitoso ogni qualvolta gli
cadevano sulla fronte. Max, nonostante si vantasse delle sue
origini proletarie, aveva ceduto alla lusinga delle classi superiori
e aveva iscritto il ragazzo a Eton. Il Figlio lo aveva premiato
a sua volta coll’essere selezionato per giocare nella squadra
di tennis della scuola. Max andava a guardarlo ogni volta che
poteva, assaporando segretamente la misticità e le tradizioni
della scuola. Non riuscì a fare a meno di riportare i
passati incontri a Frank:
“
La scorsa estate fui presentato all’ex re di Romania, Michele.
Il figlio sta nello stesso collegio del mio ragazzo. Metà degli
ex-monarchi d’Europa erano lì a progettare il loro
ritorno. E io ero lì a incoraggiarli tutti…mentre
bevevo il loro champagne, naturalmente.” E in quel momento,
per un secondo, colse uno sguardo di disprezzo sul viso di Frank – se
era per via della confidenza con re o perché disapprovava
lo champagne, non lo capì, ma quello sguardo sbigottì Max.
In qualche modo lo destabilizzò. Era abituato alla deferenza
amichevole. Avendo menzionato lo champagne, improvvisamente pensò a
quanto sarebbe stato bello farsi una bevuta. Ma Frank teneva
Max sotto scrupolosa sorveglianza, sia a casa che a lavoro. La
gente notò che Max stava perdendo un po’ della sua
joi de vivre.
Da parte sua invece Frank prese un vivo interesse nell’attività della
nuova professione in cui si era ritrovato. Gradatamente, divenne
familiare con il gergo degli attori. Capì che gli attori “fanno
scena muta”, “mangiano le battute”, sono “messi
in ombra”, e si “fanno il verso”. Studiò i
meccanismi dell’arte e prese confidenza con le quinte,
l’angolo del suggeritore, sopra le quinte, il materiale
scenico e l’auditorio. Quando il set si preparava in velocità alle
prove costumi, lui camminava in giro esaminando attentamente
la costruita illusione di povertà. La scenografia per
Bassifondi consisteva in uno scantinato di pietra scura con archi
anneriti, umidi, illuminato da una finestrella vicino al soffitto.
Una grossa stufa a legna occupava un angolo dello squallido alloggio
dove vivevano i poveracci e i derelitti del dramma. Frank gironzolava
per il palcoscenico vuoto, provando la finestra con la curiosità di
vedere se funzionava ed esaminando i mobili per vedere come avevano
fatto a farli così decrepiti alla vista. Controllava anche
per assicurarsi che non vi fosse alcuna fessura dove Max poteva
riuscire a nascondere una bottiglia, seppur piccola, di liquore.
Una volta, quando fu abbastanza sicuro che nessuno fosse a portata
di ascolto, si piantò ritto al centro del palcoscenico
buio e cantò con toni squillanti il verso di una vecchia
canzone di musical che aveva imparato dalla madre:
“A
Trafalgar Square io sto
quattro leoni veglian su me”.
Quando
ebbe finito scoppiò da solo in una fragorosa risata
e cacciò un grido di trionfo, ridendo di nuovo fino
a piegarsi sui fianchi grassi.
La prima cosa che l’Attore, il ruolo interpretato da Max,
doveva fare nella commedia era di alzarsi dalla stufa sulla quale
dormiva e dire: “Ieri alla clinica il dottore mi ha detto
che il mio fisico è completamente rovinato dall’alcol”.
Max temeva sempre che, data la sua reputazione, questo poteva essere
accolto dal pubblico con una risata. Ma la commedia ebbe una incredibile
entusiastica accoglienza all’Old Vic Theatre di Londra.
Ogni notte Frank accompagnava Max fuori dal camerino e poi si sistemava
senza dare nell’occhio su una sedia tra le quinte. Le voluttuose
quinte buie, dove Frank faceva la guardia, erano rigonfie su ogni
lato del palcoscenico. A volte un raggio dell’impianto luci
da sopra le quinte catturava la sua testa rosea mentre era chino
in avanti a controllare il suo uomo. Con occhio da poliziotto per
i dettagli, Frank si accorse che tutto il materiale scenico era
disposto per gli attori esattamente nello stesso posto ogni sera.
Vi era un tavolo per questo scopo sul quale c’erano un samovar
malconcio, un paio di occhiali, una fetta di pane nero, un libro
a brandelli, un morsetto, una piccola incudine, due grossi mazzi
di chiavi, una bottiglia di vino (in verità pieno di succo
d’uva Ribena) e un fazzoletto. Si ritrovò automaticamente
a controllare tutto, come se fossero prove indiziarie.
Il materiale scenico eseguiva ogni sera la stessa danza attorno
a Frank, intessendo lo stesso ordito dentro e fuori il palcoscenico
nel momento in cui veniva preso, usato e depositato da un’altra
parte o portato fuori nei momenti di buio. Una sera, diventando
sempre più familiare a questo nuovo ambiente, Frank indicò a
un riconoscente direttore di scena che mancava lo sgabello per
il Terzo Atto. Iniziava a capirci. Gli altri attori cominciarono
ad accettare la figura maialesca sulla sedia che stava lì a
tenere d’occhio Max Saunders. Di tanto in tanto Frank si
chinava di traverso per fissare le prime file del pubblico, illuminato
tenuemente dalla luce del palcoscenico, seduto inclinato all’indietro…come
bimbi nel passeggino che aspettano la pappa, pensava.
Raramente il pubblico si rende conto di essere giudicato.
“
Com’è stasera?” Frank imparò a domandare
a Max all’uscita dal palcoscenico.
“
Tranquillo. Un po’ lento nel cogliere. Non hanno molto senso
dello humour ma credo che stiano ascoltando.”
Ovunque andasse Max, era certo che la testa a forma di proiettile
di Frank Edwards stesse ballonzolando lì in giro. Frank
iniziò a vestirsi più alla moda. Anche lui comprò un
impermeabile Armani, ma il suo era nero. Con sua sorpresa, Max
notò che ogni tanto le donne facevano cadere su Frank sguardi
di ammirazione. Sebbene fosse un brutto tipo, aveva un piglio vigoroso
e c’era in lui una certa animalità robusta, moderata,
che lo rendeva in qualche modo attraente. Max, d’altra parte,
spesso si sentiva debole a confronto, come una pianta eziolata.
Qualche volta si ritrovò a osservare Frank con una punta
di invidia.
Una sera molto fredda camminarono dal teatro oltre il Waterloo
Bridge fino all’Hotel Savoy dove dovevano cenare con due
dei Lord attori più conosciuti d’Inghilterra. Un vento
d’acciaio si affilava sulle loro teste nude come fossero
pietre. Lungo il percorso, mendicanti e derelitti giacevano negli
atri in scatole di cartone e borse di plastica nera. Al riparo
infine dal vento, grazie ai palazzi circostanti, Max si fermò a
guardare un mucchio di ovatta e giornali che coprivano a malapena
una donna che dormiva nell’atrio di un negozio.
“
Che ironia che io sia pagato cinquemila sterline a settimana per
fingere di essere una di queste persone”, disse pensieroso.
“
Gentaglia schifosa”, ribatté Frank e sghignazzò mentre
lanciava un pezzo di giornale accartocciato sulla figura dormiente.
Quel gesto frenò Max e gli fece capire che la sua commiserazione
era una debolezza.
A Max piacque il brusio di riconoscimento all’entrata nella
sala da pranzo del Savoy. Il viso raggiante di Sir Arthur Henry
si alzò per salutarli. L’altro cavaliera, Sir Edward
Tucker, anche lui animato con prosperità e con due ciocche
di capelli bianchi che sporgevano su entrambi i lati della testa,
stava per alzarsi ma Max gli fece cenno con la mano di rimanere
seduto. Frank si unì a loro dopo aver sistemato i cappotti.
Il suo stato di sorvegliante era noto e accettato. Fu benevolmente
incluso nella conversazione.
“
Stavo proprio raccontando ad Arthur delle prove di stamattina”,
continuò Sir Edward che stava recitando nella parte di Edipo. “Il
regista se la stava prendendo con un povero ragazzo del coro dicendo “Per
la miseria. Non sai camminare? Guarda Sir Edward.” Così mi
sono fatto avanti velocemente per salvare la faccia del povero
ragazzo e ho detto, “Mio caro, non copiare la mia camminata,
per amor del Cielo. Io sgambetto…Mi chiamano l’unicorno.
La tua carriera sarà finita per sempre se cammini come me.
Copia la mia voce, se proprio devi, ma la mia camminata, mai.”
Tutti si misero a ridere. Il cameriere versò il vino e Frank
versò un bicchiere d’acqua minerale a Max che, per
qualche ragione, era teso, come se si sentisse fuori posto. Sir
Arthur raccolse la battuta.
“
Oh beh, la voce. Siamo tutti figli dei figli della dura fatica,
ma dateci retta. Cinquant’anni di teatro e tutti noi abbiamo
la stessa voce morbida, profonda del vero “marpione”.
Di dove sei, Frank?”
“
Di Enfield” disse gioviale Frank, abbuffandosi di carne di
maiale.
“
Beh, stai attento. Se te ne vieni in giro con noi troppo a lungo
finirai per sembrare nato in un baule del Princess Theatre.” Risero
tutti. Il viso roseo di Frank era infuocato dal calore del ristorante.
Si stava divertendo. Si pulì la bocca col tovagliolo, sbattendo
le ciglia bianche incessantemente, e si introdusse nella conversazione.
“
Siamo stati vicino al disastro stasera, vero Max? Uno degli attori
invece di dire, ‘Dovresti mostrare la spilla alla stampa’,
ha detto per sbaglio, ‘Dovresti mostrare alla sposa la gamba’.
Mi sono quasi pisciato addosso. Ero seduto tra le quinte cercando
di non ridere a squarciagola.”
Max finse di mangiare con entusiasmo come scusa per non parlare.
Ma la verità è che era stato improvvisamente sopraffatto
da un totale senso di insicurezza. I muscoli dello stomaco e i
piedi erano bloccati. Sentì di iniziare a sudare. Era come
se stesse indietreggiando davanti al nulla. Aveva bisogno di bere.
Tutto il suo parlare sembrava essersi prosciugato. Nessuno sembrava
notarlo e le storielle di Frank galvanizzarono gli altri in una
raffica di reminiscenze di battute sbagliate.
“
La prima volta che ho interpretato Amleto, invece di dire ‘Mio
buon Amleto, togliti il colore della notte’, Geltrude si
rivolse a me dicendomi ‘Mio buon Amleto, togliti il completo
da notte’. Dovemmo quasi tirare giù il sipario.”
Max fece un debole tentativo di raggiungere uno dei bicchieri sulla
tavola sporco di vino, ma Frank lo scoprì e, ridendo, chiuse
la mano robusta su quella di Max per impedirgli di bere. Max finse
fiaccamente di aver preso per errore il bicchiere sbagliato.
Quando rientrarono a casa quella sera, Frank era di umore espansivo
e voleva continuare a parlare. Max si scusò e andò a
letto dove si coricò raggomitolato cone un feto sotto le
lenzuola ruvide per l’appretto, senza dormire. La luce grigia
dell’alba entrò nella stanza. Aveva la strana sensazione
che Frank gli stesse in qualche modo succhiando via l’energia.
Stava anche manifestando il terrore di essere impotente. Cercò di
masturbarsi, invano.
La sera seguente, Max persuase uno degli assistenti dei direttori
di scena a mettere una bottiglia di brandy in miniatura nella tasca
sbrindellata del suo cappotto di scena. Quando uscì dal
palcoscenico per il cambio veloce, la bottiglia non c’era
più. Né lui né Frank ne parlarono, ma Max
si sentì umiliato. Quella sera Max sognò che Frank,
preoccupato, gli raccontava di un complotto contro la sua vita
e che, per salvarlo, Frank avrebbe recitato quella sera la sua
parte così lui poteva mettersi in salvo nell’angolo
del suggeritore. Ma nel sogno, mentre osservava Frank fare i movimenti
dell’Attore in scena, sentì la fredda canna di un
fucile sul collo e come il fucile sparò, si alzò paralizzato
e incapace di muoversi per alcuni minuti.
Non molto più tardi, a una festa in una taverna alla moda,
la testa virile e luccicante a forma di proiettile di Frank fu
vista attorniata da un gruppo di ascoltatori divertiti che sembravano
incantati dalla sua potente energia.
“
A dire il vero, è una battuta da attori molto conosciuta,
vero capo?” Si rivolse con deferenza momentaneamente a Max
che se ne stava in piedi silenzioso a lato accendendosi un’altra
sigaretta. Max annuì. Frank continuò in ebollizione:
“
Due attori camminano per la strada. Uno a con sé una scatola
di sigari. ‘Ah, di-scena, vedo’ dice uno. ‘No,
di-soccupato’, l’altro”.
Una risata di apprezzamento lo incoraggiò a continuare.
Lanciò uno sguardo furbo, sprezzante a Max e continuò:
“
Ma la mia preferita è quella che qualcuno ci ha raccontato
l’altro giorno su di un’altra produzione di Bassifondi di alcuni anni fa. Wilfried Lawson – il grande attore – interpretava
Luka, quello che racconta bugie alla gente per farla felice. Beh,
si dice che Lawson fosse un terribile bevitore, bevevo durante
tutte le prove, non imparava la sua parte e il resto, si presentava
tardi e così via. Alla fine, uno degli attori più giovani
si voltò contro di lui alle prove e gli urlò: ‘Vecchio
stronzo del cazzo. Stupido bastardo. Perché non puoi essere
in orario? Ci stai incasinando tutti quanti. Stai rovinando l’intera
produzione. Non me ne frega un cazzo della tua reputazione. Non
riesco a lavorare in questo modo. E’ intollerabile. Dovrebbero
disfarsi di te. Non l’hai ancora neanche imparata, vecchiaccio
schifoso.’ Ma sembrava che il vecchio non ne fosse neanche
sfiorato. Se ne stava lì a sfogliare nervosamente il copione
e poi disse: ‘Scusate. Pensavo che tutta quella parte fosse
stata tagliata’.”
Max digrignò i denti nell’ilarità che seguì.
Finse un sorriso e sorseggiò l’acqua minerale cercando
di sembrare rilassato. I tratti maialeschi, raggianti di Frank
si raggrinzivano con le risate e il rotolo di carne dietro al collo
luccicava mentre continuava:
“
Com’era quella di quando stavano facendo il Giulio Cesare e qualcuno entrò in palcoscenico vestito in toga con la
bolletta della luce del teatro e cercò di darla al tipo
che recitava Giulio Cesare perché stavano per mettere al
buio la sala?” Frank si girò verso Max offrendogli
la possibilità di raccontare la storia. Aspettò un
secondo. Ma Max sentì come se le guance fossero diventate
di cartone. Tutto quello che riuscì a pensare furono alcune
parole di T.S. Eliot che gli giravano in testa… ‘Siamo
gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati’. La gente
lo guardava strano.
“
Vai avanti. Raccontala tu” lo spronò Frank. “Che
c’è? Allegro. Non potrebbe mai succedere a te.” Poi
dalla sua camicia partì un bottone mentre si lanciò improvvisamente
in una grottesca mimica gotica da gigione, assumendo la posa di
orrore e citando il penultimo verso da Bassifondi:
“
Venite. Venite qui…nel cortile…l’Attore…si è impiccato.”
Max cercò di sorridere ma non ci riuscì. Il sergente
ex-detective Frank Edwards si girò verso di lui e batté le
ciglia bianche più veloce che mai mentre citava con malizia
proprio l’ultimo verso del dramma:
“
Oooooh…i capricci ci rovinano la festa…il buffone.”
Si voltò e si lanciò con gusto in un altro aneddoto
teatrale. Adesso aveva carta bianca. Gli invitati alla festa si
raccolsero attorno a lui. Max Saunders sgattaiolò via al
bar.
(Tratto
da Riti di primavera – nuovi racconti londinesi – Centroscuola
edizioni, Mantova 2000. Traduzione di Paola Taffarello.)
Pauline
Melville è l’autrice
di due raccolte di racconti: Shapeshifter (che ha vinto il Premio
per la Narrativa del Guardian, il Silver Pen Award della Macmillan
e il Premio per Miglior Primo Libro degli Scrittori del Commonwealth)
e The Migration of Ghosts. Il suo primo romanzo, The
Ventriloquist’s
Tale (che ha vinto il Whitebread First Novel Award, oltre ad essere
stato nominato per l’Orange Prize), fu pubblicato nel 1997.
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