L'UOMO
CHE SI DAVA ARIE
Dino Buzzati
L'umiltà del dottore Antonio Deroz cominciò a declinare verso la
fine dell'anno, quando la stagione secca regnava sul bassopiano
con grandissimo sole. Antonio Deroz era nuovo medico dell'ospedale
e alla fine febbraio scadeva il suo periodo di prova. Era zelante
e preciso ma nessuno l'aveva preso sul serio, forse proprio per la
sua aria dimessa di uomo che si sente generalmente inferiore,
sempre servizievole, mai seduto se qualcuno era in piedi. Lo vidi
parecchie volte, passando per la cittadina, ma non mi ricordo più
la sua faccia, per quanto mi sforzi.
L'umiltà sua scomparve progressivamente nello spazio di pochi
giorni durante i quali tuttavia egli sembrava deperire, la sua
faccia facendosi sempre più magra. Era smilzo, di statura media.
Quando il professore Dominici, parassitologo, lo fece chiamare per
avere da lui certi medicinali, Deroz mandò a dire che non aveva
tempo. La risposta fu proprio questa e parve incredibile perché
fino allora un sorriso benevolo del professore Dominici bastava a
farlo arrossire di gioia. (Il parere di Dominici avrebbe avuto
grande importanza per la sua convalida al posto dell'ospedale; e
per ingraziarselo il giovane medico gli portava molto spesso
zanzare, zecche, pidocchi. Ma di solito senza successo. Lo
scienziato riceveva il materiale come tributo doveroso e per lo
più derideva Deroz con arguzie tecniche, facendogli capire che
perdeva tempo per niente. Data una breve occhiata agli insetti,
rovesciava i tubetti di vetro lasciando cadere le bestiole a terra
e le schiacciava coi piedi.).
Il Dominici, avuta la risposta, credette in un malinteso e mandò
di nuovo il servo nero a chiamare Deroz. Questa volta ebbe un
bigliettino che diceva così: "Caro professore, le fiale da
voi richieste sono finite. Mi dispiace di non potere venire da
voi, ma ho parecchio da fare. Arrivederci." Lo scienziato
sorrise con un certo sforzo (sebbene nessuno lo vedesse) e
stracciò la carta. Gli era dato di volta il cervello a quel
disgraziato di Deroz? Al professore Dominici un nudo e crudo
"arrivederci"? Avrebbe pensato lui, nella prossima
occasione, a ristabilire le distanze. E pensare che la carriera
del giovanotto era nelle sue mani. Sarebbe bastata una parolina
con l'ispettore di Sanità, una frase lasciata cadere come per
caso. O che invece Deroz si sentisse male? Che gli fosse venuta la
febbre?
No, non gli era venuta la febbre. Alla sera, quando il sole stava
per immergersi nell'orizzonte desolato di rupi, il dottore Deroz
comparve al caffè Antinea vestito tutto di bianco, con camicia di
seta e cravatta, come non era mai avvenuto. Sedette a un tavolino
accavallando le gambe, accese una sigaretta e si mise a fissare il
muro della casa di fronte (che aveva le grate chiuse) come
discorresse con sé di argomenti grati. Un sorriso infatti gli
illuminava il volto stanco.
"Deroz! E perché non siete venuto?" gli gridò
improvvisamente alle spalle il professore Dominici che arrivava in
compagnia di due amici.
Lui volse appena un poco la testa, senza accennare ad alzarsi, e
disse semplicemente: "Non ho potuto, professore. Non ho
proprio potuto". Poi riprese a fissare il muro della casa di
fronte che lo aveva fino allora affascinato.
"Che vi salta in mente, Deroz?" ribatté lo scienziato,
acre. "È il modo di rispondere questo? Vi rendete conto?
Dite, vi rendete conto?" E i due amici guardavano il
giovanotto con occhi non buoni, pregustando la sua mortificazione.
Soltanto allora Deroz si alzò in piedi e lo fece adagio,
appoggiandosi con una mano al tavolino verniciato di rosso su cui
era scritto: "Bevete il bitter Leopardi". Poi si mise a
ridere non villanamente, in tono aperto e gioviale, di chi sa
stare allo scherzo. Batté una mano sulla spalla dello scienziato
con una certa energia: "Magnifico!" esclamò.
"Sapete che a momenti credevo faceste sul serio? Ma sedete,
posso offrirvi un aperitivo?"
"Ma, dico... non poss... non poss..." balbettò Dominici,
interdetto, e si mise a sedere meccanicamente insieme con gli
altri due. Qualche cosa doveva essere successo perché Deroz
osasse trattarlo così. Che gli fosse stato assegnato un alto
incarico? Era il caso di dargli una lezione? O era più prudente
aspettare?
Fece finta di niente: "Volevo avvertirvi, Deroz" e
assumeva il suo classico tono accademico, che di solito faceva
effetto, "tra quindici giorni bisognerà prendere gli indici
splenici giù a pozzi di Allibad, dovresti usarmi la cortesia…".
"Tra quindici giorni" interruppe Deroz "io non ci
sarò più. O, per essere più precisi, sarò piuttosto
lontano."
"Ve n'andate?" chiese l'altro, sorpreso gradevolmente.
"Ve n'andate in Italia? Ci lasciate dunque?"
Sorrise il giovane medico in tono amaro e insieme di compatimento:
"Oh, non in Italia! Un viaggio soltanto, un viaggetto
abbastanza lungo". E si passò la destra sulla fronte come se
si sentisse sfinito.
Dominici si oscurò nuovamente: dunque non si trattava di
rimpatrio, di punizione, di esonero dal servizio; forse era un
viaggio ufficiale, invece, una missione vera e propria.
"Per incarico del Governo? Non mi avevate detto, Deroz"
fece allora con aria di affettuoso rimprovero, quasi accampando
per titoli di amicizia una precedenza nel sapere il segreto.
"Un incarico, sì" disse Deroz evasivo. "Si può
anche chiamare un incarico. Disposizioni di autorità
superiore..."
C'erano due grandi nubi nel cielo, ancora illuminate dal sole,
mentre la terra già si ricopriva di ombre. Esse avevano forme
abbastanza usuali, ma dai bordi inferiori frange nere pendevano,
che ogni tanto si afflosciavano sulla superficie del mondo.
"Non voglio neanche sapere" replicò Dominici risentito.
"Ma da che parte? Potrete dire almeno da che parte?"
"Ancora non so con precisione" disse Deroz fissando bene
in faccia il professore con atto pressoché insolente. "Ma
credo pressappoco laggiù."
I tre lo guardarono stupefatti. Ed egli si levò in piedi,
facendosi quasi in mezzo alla via, di modo che le case non gli
togliessero la visuale, lentamente additò le terre del
settentrione, il deserto, le pianure non valicabili. Restò così
fermo con la destra tesa, eccezionalmente bianco ai riflessi
smorti delle lampadine del Caffè Antinea.
"Ah, una missione nel deserto?" insisteva Dominici,
letteralmente strisciando ai suoi piedi con la anima meschina.
"Una delle solite ispezioni, vero? E verrà qualcuno
dell'Ispettorato con voi?"
Deroz scosse il capo: "No, no" disse. "Credo
proprio che dovrò andarmene solo".
Dette queste parole barcollò improvvisamente come se un essere
invisibile, correndo lungo la via, gli avesse dato uno spintone.
Poco mancava che andasse a terra, ma poi si riprese e tornò a
sedersi al tavolino.
Il giorno dopo, al Governo, Dominici cercò di sondare il terreno.
Ma del viaggio di Deroz nessuno sapeva niente. L'ispettore di
Sanità tra l'altro disse: "Mi pare disorientato, quel
giovanotto. Ho paura che non resista. Ci sono molti del resto che
non reggono al clima". Parole significative che fecero
piacere a Dominici: tra non molto – pensava – quell'insolente
avrebbe avuto la meritata lezione.
Ma intanto il contegno di Deroz peggiorava, facendosi addirittura
altezzoso. Non salutava quasi mai per primo, faceva finta di non
sentire quando gli parlavano, la sera se ne restava in casa a
riempire certe casette di legno adatte per viaggio in carovane.
E alla fine, in un pomeriggio molto caldo, si presentò al
professore Dominici per prendere commiato. Era vestito più che
mai di bianco e si appoggiava a un bastone. I piedi si
trascinavano sul terreno come lumache, ciò a che a Dominici parve
soltanto una posa.
"Professore, vengo a salutarvi" disse. "L'ordine
non mi è ancora arrivato ma credo che partirò questa notte, poco
prima dell'alba, alle cinque e mezza, credo."
"Non voglio sapere niente" rispose Dominici gelido.
"Teneteveli, i vostri segreti. E buon viaggio..." Fece
quindi un piccolo sogghigno, sicuro oramai che il viaggio famoso
non fosse che uno stupido scherzo.
Un breve colpo di tosse si udì nello studio pieno di grafici e
strumenti, poi la voce tranquilla del medico Antonio Deroz
"Professore, perché sogghignate? Non fatelo, per
favore".
Si voltò, raggiunse la porta, appoggiandosi tutto al bastone; o
lo faceva apposta o stentava davvero a reggersi in piedi.
"Maledetto impostore!" mormorò tra i denti Dominici,
badando a non farsi sentire.
"Avete detto qualcosa, professore?" chiese Deroz
fermandosi sulla soglia.
"Se fossi in voi aspetterei" rispose l'altro, per
incrudelire. "Voi non state bene, ve l'assicuro. Avete una
faccia cadaverica oggi, proprio cadaverica."
"Proprio così, professore? Aspetteresti a partire se foste
in me? Eh, voi siete bravo, professore, voi sapete molte
cose" fu il commento di Deroz, privo di qualsiasi rancore.
Scomparve dietro lo stipite della porta, i suoi passi incerti poco
dopo non si udirono più.
Quindi si iniziò la notte, periodo di tenebre relativamente breve
paragonato al cammino dei mondi, ma abbastanza considerevoli nella
circostanza attuale; non consolata dal lume di luna ma dal solo
luccichio delle stelle, sparse a miriadi nella cupola. Essa
passava placidamente sulla piccola città coloniale, sui deserti
circostanti, sui misteriosi cimiteri delle montagne (pur rimanendo
accesa una finestra nella casa del dottore Deroz). Bisogna
aspettare le cinque del mattino per assistere a cose nuove: a
quell'ora si ode infatti un passo avvicinarsi alla casa ed ecco,
alle luci gialle dei lampioni residenziali, la lunga figura del
professore Dominici.
Egli non era tuttavia solo ma accompagnato da due amici. E insieme
si proponevano di ridere alle spalle di un uomo che simulava
grandi viaggi dandosi arie, e invece, probabilmente, era soltanto
ubriaco, disteso su una poltrona, per dimenticare le miserie della
vita.
Essi dunque si avvicinarono alla casa, sebbene i loro passi
risuonassero con eco spaventosa tra le mura addormentate. Tutto
era immobile e tranquillizzante. Un cane randagio dormiva dinanzi
alla porta. Né vi erano autocarri in attesa, autoveicoli carichi
di viveri, casse e medicinali, come sarebbero occorsi per una
spedizione attraverso i deserti. Nessun dubbio quindi che il
viaggio di Deroz fosse una fantasia ridicola, atta a ricadere su
di lui con molta vergogna.
Verso la strada le finestre erano chiuse e spente; dalla parte
opposta invece ce n'era una illuminata. E bisogna notare che
dietro alla casa cominciava immediatamente la boscaglia,
cosicché, inoltrandosi in quella direzione, presto o tardi si
raggiungeva la scabra solitudine dei deserti; il cui mistero in un
certo senso dilagava quindi fino all'edificio, come onda sulla
scogliera.
Accortosi della finestra accesa, il professore Dominici girò
dietro alla casa e alzandosi sulla punta dei piedi guardò
attraverso la grata. Senza chiedere permesso egli osò guardare
nell'interno dell'abitazione, contaminando la notte stessa che era
venuta da molto lontano, coi suoi passi meravigliosi e si era
chiusa là dentro, a conforto esclusivo del giovane medico.
La presenza della notte era tuttavia elemento troppo sottile
perché Dominici potesse accorgersene. Egli vide al contrario
Deroz disteso su una poltrona (come aveva previsto),
apparentemente assopito. Sopra di lui, sul muro, pendeva una testa
di antilope imbalsamata; al posto degli occhi mancavano però le
solite emisfere di vetro cosicché le orbite risultavano vuote e
sgradevolmente pensierose. Il giovane medico era avvolto in una
vestaglia di seta e varie zanzare giravano intorno al suo capo,
con volo continuo, senza mai osare toccarlo: tanto si era
accresciuto nelle ultime ore il suo prestigio.
Questo particolare delle zanzare naturalmente sfuggiva al
professore Dominici che gongolava dal gusto, ripromettendosi molte
risate. "Che razza di buffone!" esclamò a bassa voce,
convinto che Deroz si fosse semplicemente ubriacato, e si chinò a
terra con l'intenzione di raccogliere un sasso da gettare
nell'interno della stanza, quando uno dei compagni lo afferrò per
un braccio con apprensione.
Si era infatti aperta la porta retrostante della casa e ne era
uscito, non si sapeva come, il dottore Deroz medesimo. Era vestito
di bianco come negli ultimi giorni ma, certo per un curioso
effetto ottico, appariva molto diverso dalla immagine solita, pur
tenuto conto delle tenebre. I suoi contorni anche, a causa di una
specie di fosforescenza, sfuggivano a un preciso controllo, quasi
fossero di fumo.
Dapprima Dominici pensò che il medico, accortosi della visita
indesiderata, cercasse di eclissarsi, per evitare la baia. E
perciò si mise a gridare senza ritegno, nel pieno santuario della
notte: 'Deroz! Deroz! Dove scappate?'. La sua voce però si spense
nel modo più miserevole perché il giovane, anziché voltarsi al
richiamo, si avviava verso la boscaglia, col suo nuovo passo
disdegnoso e ferma determinazione; egli non strascicava i piedi
né adoperava il bastone; un sentimento indicibile si sprigionava
da lui e lo stesso Dominici ne fu sopraffatto, avendo finalmente
compreso che proprio quella era la partenza per il viaggio famoso,
che Deroz non sarebbe tornato più indietro ma a piedi si sarebbe
spinto indefinitamente al nord, verso le massime lontananze,
simile a un pezzente o a un dio.
Egli se n'andava solo, tra le ragnatele delle acacie spinose,
pallido sembiante, in direzione delle città a noi sconosciute;
pure un alone di genii benigni lo seguiva, corteo misericordioso,
sussurrandogli parole gentili ed attributi onorifici come: 'Per di
qua, a destra, prego, Eccellenza!' 'Attento a quella buca!' 'Molto
agile davvero, Eccellenza!' In quanto al professore Dominici,
appena vide sparire l'ambigua figura, entrò con avidità
poliziesca nella casa. Dove, naturalmente, rinvenne disteso sulla
poltrona, sotto la pensierosa testa di antilope, il corpo
corruttibile del dottore Deroz, troppo gracile e insieme troppo
pesante per poter accompagnare il padrone nel lungo viaggio.
(Racconto tratto dal libro
"I sette messaggeri", Casa Editrice Oscar Mondadori)
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