IL GIORNO DI BAJRAM
Francesca Caminoli
Prologo
Non cercatemi. Non troverete la
mia tomba. Non ho terra per la sepoltura.
Sono una foglia di un ciliegio della mia valle. Aspetto ottobre.
Quando il vento che scende da Jahorina mi farà cadere, tornerò
figlia di Bosnia.
E pensare che non avevo nessuna voglia di andare a visitare i
morti. Non lo conoscevo nemmeno il cugino Ismir, ucciso dai
cetnici nel 1992. E non ho neanche mai conosciuto il nonno Osman,
ucciso dai cetnici nel 1942, vent'anni prima della mia nascita.
Ma la mamma mi aveva telefonato dalla Norvegia. Povera mamma.
Profuga. Sono quattro anni che non ci vediamo. Piange sempre le
poche volte che riusciamo a sentirci. Piangeva anche l'altro
giorno. "Tra poco è Bajram,' Jasmina", mi ha detto.
"Forse ci lasciano andare ai cimiteri, vai, ti prego, porta
un lillà sulle nostre tombe".
"Ma cosa ti importa dei morti?", avrei voluto chiederle.
Le ho detto: "Sì, mamma, andrò dal cugino Ismir a dal nonno
Osman e pregherò per te e dall'alto del cimitero guarderò giù,
sulla Drina, e manderò un bacio alla nostra vecchia casa".
Così cercai di informarmi su come fosse possibile andare in zone
serbe, la domenica di Bajram, per visitare i cimiteri. Non fu
facile. Dovevo muovermi in un mondo che conoscevo poco. Non sono
mai stata praticante, non ho mai fatto un Ramadan, non ho mai
pregato, mi piacciono la vodka e il vino. Ho chiesto un po' in
giro, tra amici, ma loro sono come me e nessuno sapeva nulla.
Allora un pomeriggio, dopo il lavoro, decisi di andare a trovare
zia Hadzira. Era inutile che le telefonassi, è completamente
sorda. E poi mi piace andare da lei, nella sua vecchia casa sopra
la fabbrica delle Drina. Ci sono andata sempre anche durante la
guerra: un bel pezzo di strada a piedi, alla faccia dei cartelli
"pazi snajper", attenti ai cecchini. Come se per fregare
i cecchini fosse bastato guardarsi un attimo attorno.
Le portavo qualcosa da mangiare e ne approfittavo per andare da un
suo vicino che lavora alto stabilimento e, durante la guerra,
vendeva le sigarette a prezzo di fabbrica e non da mercato nero.
Benedette Drina, unico sollievo che non è mai mancato in quattro
anni di assedio.
Zia Hadzira fu felice di vedermi, mi offrì subito una fetta di
baklava, il dolce di Bajram. Quello lo so fare anche io. Non
c'entra con la religione. È che mi piace da morire. Le dissi che
mi aveva telefonato la mamma. Si mise subito a piangere. Le dissi
cosa voleva che facessi. Si illuminò.
"Avrei voluto chiedertelo io, Jasmina", disse. "Se
te lo ha chiesto anche la mamma, allora lo devi proprio fare. Non
deve essere pericoloso, adesso c'è l'Ifor, vedrai che scorteranno
i pullman fino ai cimiteri".
I soldati dell'Ifor li vedevo soprattutto al bar e in giro a fare
foto ricordo tra le macerie. Ma non commentai e mi feci spiegare
dove avrei potuto trovare questi pullman.
"Partono domenica mattina dalla vecchia stazione degli
autobus. Vengo anche io".
"No, zia Hadzira, non mi sembra il caso, la tua gamba non è
ancora a posto", le dissi decisa.
"La mia gamba si è già presa una scheggia di granata, non
se ne prenderà un'altra proprio adesso che c'è la pace", si
infervorò. "E poi, credi che non lo sappia, tu non sapresti
nemmeno quali preghiere dire".
Con zia Hadzira non si poteva discutere troppo, così rimanemmo
d'accordo di trovarci ai pullman la domenica di Bajram.
Fui svegliata alle sei del mattino da un colpo sordo, seguito
subito dopo da una sventagliata di mitra. Non mi mossi. Guardai
Izmir, mio marito. Immobile. Un'altra mitragliata, questa
vicinissima.
"Mamma",chiamò terrorizzato il mio bambino dalla sua
camera.
Saltai giù dal letto urlando. Corsi alla finestra. La spalancai.
"Bastardi", urlai, "bastardi maledetti, che vi
scoppino le mitragliatrici in mano, che diventiate sordi e ciechi
e che vi saltino via la mani".
Ismir mi afferrò e mi tirò dentro casa. "Calmati, Jasmina,
calmati, Stanno solo festeggiando".
"Festeggiando, e cosa c'è tanto da festeggiare?" urlai.
"E' Bajram".
"Fanculo Bajram".
"Come?".
"Fanculo, fanculo, è una delle prime parole che ho imparato
nei pochi mesi che sono
stata profuga in Italia. Che ci vadano tutu quanti".
Abbracciai mio figlio che intanto era piombato disperato in camera
nostra.
"Non è niente", gli dissi stringendolo, "non è
niente, stanno festeggiando Bajram".
Andai in bagno a lavarmi e truccarmi. Era un'abitudine nuova per
me, quella del trucco.
Avevo cominciato durante la guerra. Se fossi morta in mezzo a una
strada, almeno sarei
morta bella.
Arrivai ai pullman un quarto d'ora prima della partenza. Zia
Hadzira era già lì e chiacchierava con un gruppetto di anziani.
"Ecco mia nipote", gridò non appena mi vide. Mi
abbracciò rumorosamente. Aveva una grossa borsa con sé.
"Quanta roba ti sei portata dietro?" le chiesi.
Aprì la borsa, con aria complice. C'erano pita e baklava
abbastanza per un esercito.
"Ma zia, stiamo via solo poche ore", risi.
"Non si sa mai, e così ce n'è per tutti, anche per i miei
amici", mi rispose soddisfatta.
Me li presentò. Zelimir e Rasema, a occhio tutti e due sui
settanta anni, lui magrissimo, lei grassa. "Loro figlia
Fatima con la nipotina", mi spiegò "era profuga a
Spalato. Pensa, torna proprio oggi". Alja a Merima,di poco
più giovani, anche lui magrissimo e lei grassa. "Il figlio
è stato ucciso da un cecchino, della nuora a dei nipoti non hanno
notizie da tre anni". Leila, un seno da proteggere tutta la
famiglia. "È rimasta sola, il marito è morto d'infarto e la
figlia se n'è andata con un casco blu".
L'unico pensiero che mi venne in mente fu come mai, dopo quattro
anni di fame, le donne anziane fossero rimaste così in carne.
Forse, pensai, nel metabolismo delle nonne c'è qualcosa che
scatta nel momento del pericoto e le fissa nella loro grassezza
così che, con il solo aspetto, possano tranquillizzare marito e
figli e nipoti.
Salimmo sul pullman. L'età media dei passeggeri era alta. Non
riuscivano ad abbassarla un uomo che poteva avere una trentina
d'anni e nemmeno un bambino sui sei e una ragazzina sui dodici.
Mi sedetti di fianco a zia Hadzira, che non ne volle sapere di
mettere la sua borsa sulla reticella. Il profumo di pita al
formaggio saliva direttamente dalle sue ginocchia al mio stomaco.
Nel sedile di fianco ai nostri si sedette 1'uomo sui trent'anni.
Era solo. Guardava fisso fuori dal finestrino.
Partimmo. Il leggero brusio causato dall'eccitazione della
partenza finì di colpo. Tutti quegli anziani avevano passato
quattro anni quasi segregati, avevano visto saltare i vetri delle
finestre, sentito le granate scoppiare nella stanza accanto,
avevano fatto la coda per 1'acqua e per il pane, ma non erano mai
più usciti dalle vie intorno a casa. Adesso rivedevano la loro
città per la prima volta.
Il pullman svoltò nel lungo viale che porta fuori città. A
destra e a sinistra palazzi distrutti, svuotati, anneriti,
fabbriche rase al suolo, automobili bruciate, blindati sventrati,
barriere di sacchetti di sabbia.
Nessuno parlava.
Arrivammo a Ilidza, pochi chilometri fuori Sarajevo, dove durante
la guerra centinaia di disperati, la notte, strisciavano sopra la
pista dell'aeroporto mentre altre centinaia di disperati, la notte
e il giorno, strisciavano sotto, in un tunnel. Un brulichio non di
formiche o di topi, ma di uomini e donne e bambini che scappavano
da quella follia. O andavano a cercare cibo. Medicine. Aria.
Nessuno parlava. Qualcuno si asciugava gli occhi. Una donna, in
fondo al pullman,
singhiozzava.
D'un tratto, da un edificio in macerie, saltò fuori un uomo. Si
lanciò verso il pullman.
Aveva gli abiti laceri, i capelli e la barba lunga. Allungò un
braccio verso di noi, come per
chiedere aiuto. O un pezzo di pane. O forse per sapere qualcosa.
Per un attimo incrociai
il suo sguardo. In quegli occhi sbarrati rividi e risentii tutto.
Zia Hadzira, in silenzio, mi
passò un fazzoletto. Chiusi gli occhi.
Li riaprii quando, di nuovo, un brusio cominciò a serpeggiare per
il pullman. Lieve
dapprima, poi sempre più convinto, inframmezzato da espressioni
di stupore.
Avevamo la Bosnia davanti a noi. Quella che, chiusi in un
gigantesco campo di
concentramento e di sterminio, credevamo fosse solo un lontano
sogno. Era lì invece e
dava il meglio di sé, in quella tersa domenica di aprile. Il
pullman aveva rallentato, anche
1'autista si godeva la sua terra. Dietro ogni curva si aprivano
verdi quinte di valli e
colline e montagne. Le prime foglie, gli abeti, 1'erba giovane, le
grandi querce. I fiori
bianchi dei ciliegi, quelli rosa dei meli, il violetto dei lillà.
E torrenti e ruscelli. Sulle cime
più alte 1'ultima neve. Una serenità che sembrava intoccabile ed
eterna.
Il giovane uomo aveva sempre lo sguardo fisso fuori dal
finestrino. Un sorriso triste gli
increspava leggermente le labbra. Presi coraggio e "di dove
sei?" gli chiesi.
"Di Doboj, ma vivo a Sarajevo", mi rispose, girandosi
lentamente verso di me.
"Ma noi stiamo cercando di andare verso Foca, force hai
sbagliato autobus", lo avvisai.
"No, ho preso un autobus a caso, non vado ai cimiteri. Volevo
solo respirare un po"'.
Infilò una mano nella tasca della giacca. Tirò fuori una
fotografia e me la mostrò. Una
bellissima donna sorrideva con a fianco due bellissimi bambini.
"Sono i tuoi figli e tua moglie?" chiesi.
"Forse", mi rispose.
Lo guardai senza capire.
"Sono in Germania da quattro anni. Mia moglie non vuole
tornare. I bambini parlano solo
tedesco ormai". Si rigirò.
Non bastavano il verde e i lillà e la neve. La distruzione era
dentro di noi.
Ci superarono due fuoristrada dell'Ifor. Fecero cenno all'autista
di rallentare. Rallentò.
Appena le due jeep si allontanarono, il pullman riprese un po' di
velocità.
Le ritrovammo ferme dietro una curva, poco prima di Tmovo.
"Saranno qui per scortarci", pensai.
C'erano anche diversi blindati. E soldati. Tanti soldati. Soldati
di tutto il mondo accorsi in
Bosnia per proteggerci. Ci fecero scendere. Si avvicinò quello
che sembrava il capo, un
ufficiale svedese. Parlava perfettamente inglese.
"Di là i serbi vi stanno aspettando", ci disse.
"Saranno almeno mille. Hanno bastoni e
fucili. Non posso garantirvi 1'incolumità".
Zia Hadzira si fece avanti. "Ma cosa vuole che ci
facciano", disse, "siamo tutti vecchi,
vogliamo solo andare a visitare i nostri morti, poi ce ne torniamo
via".
"Non è possibile, è troppo pericoloso, non posso farvi
passare", continuò con fermezza
1'ufficiale.
"Se ci scortate, non ci faranno niente", intervenne il
giovane uomo.
"Mi spiace, ma non rientra nei nostri compiti", rispose
1'ufficiale.
"Allora impediteci di passare", dissi, facendomi avanti
e incamminandomi a piedi.
Un giovane soldato mi fermò prendendomi per un braccio.
"Nou", disse, "nou".
Si avvicinò il vecchio Zelimir. "Vieni, Jasmina, ci andremo
tutti insieme di là".
Risalimmo sul pullman.
"Chi vuole andare avanti?" chiese il vecchio Zelimir.
Scesero il bambino, la ragazzina e le loro madri.
L'autista accese il motore. L'autobus avanzò di qualche metro. I
blindati si spostarono.
La strada era libera. L'ufficiale svedese scuoteva la testa. I
soldati correvano di fianco al
pullman. "Nou, nou", gridava un gigante biondo,
sbracciandosi. "Cazzo, fermatevi, vi
ammazzeranno", urlava un altro, con la bandiera italiana
sulle mostrine. Un altro ancora,
dalla pelle color ocra, sbraitava qualcosa in una lingua
incomprensibile.
L'autista frenò di colpo, si alzò e si girò verso di noi.
"Scusatemi", disse con le lacrime agli occhi. "Non
me la sento di andare avanti. Ho
famiglia. Io non ho nemmeno morti laggiù, scusatemi". E
scese, asciugandosi gli occhi
con una mano.
Nessuno parlava.
"Madre, madre mia", piangeva la vecchia Rasema.
"Non ti vedrò più, mai più".
"La vedrai", disse qualcuno. Era il giovane uomo. Si
alzò dal suo sedile e si diresse verso
il posto di guida.
"Ho guidato le camionette durante la guerra", disse.
"Volete che non sappia guidare
questo autobus?"
Non aspettò risposta. Accese il motore. L'autobus lentamente
ripartì. Nessuno urlava più,
nessuno tentava di fermarci. Si misero ai lati della strada, i
nostri protettori
internazionali, e ci fecero passare.
Francesca Caminoli, 52 anni,
due figli e una nipote, da quasi ventanni ha lasciato Milano e il
lavoro di giornalista in quotidiani e periodici per ritirarsi a
vivere sulle colline lucchesi. Dopo aver fatto i lavori più
diversi, sempre più o meno collegati alla stampa e all'editoria,
ha scritto nel 1996 il suo primo romanzo "Il giorno di Bajram"
che è stato pubblicato nel maggio 1999 dal Circolo Il Grandvetro/Jaca
Book. Accolto da buone critiche e dal consenso dei lettori, il
libro è stato selezionato per il Premio Viareggio e per il Premio
Società dei Lettori. "Il giorno di Bajram" prende
spunto da un fatto reale successo alla fine della guerra in
Bosnia. Questo fatto costituisce il prologo che presentiamo. Da
qui partono le storie, queste tutte di finzione, di quattro
personaggi che sono tutti collegati a quel fatto e che si muovono
sullo sfondo della città in rovina, che mostra ancora tutte
aperte le sue ferite fisiche e psicologiche. E' il racconto del
faticoso ritorno alla vita dopo tutte le guerre ed è anche un
piccolo affresco dei comportamenti umani in situazioni estreme.
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Copertina
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