SINCRETISMI
E TRASCENDENZA
"Trascendenza"
del cubano José Antonio Baujín e "Sincretismi" del
brasiliano Julio Cesar Monteiro Martins sono le due parole che
loro hanno portato al lavoro interculturale della compagnia di
ventura di Porto Franco "Parola&Scrittura". Una
compagnia di 30 persone provenienti da tutti i mondi, eccetto che
dall'Australia. Abbiamo vissuto e colloquiato tra noi e con
amministratori, centri sociali, gruppi teatrali e altri girando la
Toscana per 20 giorni nell'estate del 2000. Le parole che riporto
sono diventate nostre in questo nuovo modo che annuncia e
sperimenta la transcultura. "Sincretismi" si è
arricchita di un colloquio che continua, tra me e Julio Cesar.
TRASCENDENZA
José Antonio Baujín (L'Avana)
Yo vengo de todas partes
Y hacia todas partes voy
Sono due versi di José Martí che definiscono la vita culturale
dell'uomo dei nostri tempi: un essere che si ridefinisce
costantemente a partire dal permanente incontro con le culture
degli altri mondi. In questo senso il mondo caraibico (il Caribe)
rappresenta un'esperienza esemplare: come l'antemurale europeo
verso le Indie occidentale il Caribe fu la prima terra raggiunta
dai colonizzatori. L'incontro tra le due civiltà fu reso infelice
dalle intenzioni europee, ma mentre si attuava la conquista e si
praticava lo sterminio già iniziava il processo della
contaminazione culturale, quella che l'antropologo cubano Fernando
Ortiz ha chiamato transculturazione: un sistema culturale
assolutamente nuovo. Il Caribe è un mondo della migrazione e
della diaspora, interne ed esterne. I versi di Martí e
l'esperienza caraibica ci comunicano l'importanza dello studio interculturale.
Il processo di conoscenza di una cultura diversa deve partire (o
ripartire) dalla considerazione della propria anima che la
sostiene e alimenta per arrivare alla definizione dei suoi
elementi essenziali. Si deve inevitabilmente raggiungere la trascendenza
se si vuole arrivare ad un vero arricchimento.
Nel processo interculturale la trascendenza
presuppone il trapassamento e il superamento della superficie
delle culture per poter entrare nell'incontro culturale in modo
aperto (oltre i pregiudizi, gli stereotipi e i miti) e per evitare
tutti gli ostacoli messi avanti ad una vera esperienza interculturale.
Così, ad esempio, la grande ondata migratoria galiziana a Cuba
tra il 1870 ed il 1930 circa, provoca il contatto tra due culture
diverse che si sono identificate in un processo interculturale che
rappresenta un vero caso di trascendenza "Galicia esta
probe/ Y a Habana me vou/ !Adios, adios, prendas/ Do meu corazon!"
(La Galizia è povera/ Perciò vado all'Avana/ Addio, addio
gioielli/ Del mio cuore!). Le parole della poetessa galiziana
Rosalia de Castro svelano la lacerazione nascosta in questo
fenomeno migratorio. Quindi, il galiziano ha trovato a Cuba lo
spazio per lo sviluppo di un proprio pensiero nazionale, per la
creazione del suo inno, per dare dignità letteraria ad una lingua
relegata solo all'uso orale e domestico. Questo contatto con la
cultura cubana ha fornito alla Galizia modificazione della sua
architettura (la cosiddetta architettura "indiana", che
è quella europea contaminata da quella americana di ritorno),
della sua cucina, della sua lingua. Cuba, dall'altro lato,
approfittando di una inestimabile forza-lavoro, ha ricevuto
dall'immigrazione galega un contributo importante nel processo di
indipendenza, ha arricchito la stessa norma linguistica cubana
dello spagnolo, la sua gastronomia, la sua arte popolare ecc. Di
ciò è testimonianza la bellissima immagine, che si conserva
ancora oggi nella zona orientale del paese, nella città di
Santiago de Cuba, dell'Apostolo Santiago (S. Giacomo) "Mambì",
termine che identificava nella seconda metà del XIX secolo tutti
quelli che lottavano per l'indipendenza cubana.
La trascendenza interculturale deve portare ad una
vera trasformazione nel rapporto tra le culture: meglio di noi,
come sempre, lo dice lo scrittore. In questo caso. Alejo
Carpentier, nel romanzo Il regno di questo mondo:
"E capiva, adesso, che l'uomo non sa mai per chi soffre e
spera. Soffre e spera e lavora per individui che mai conoscerà, e
che a loro volta soffriranno e spereranno e lavoreranno per altri
che, neppure questi, saranno felici, perché l'uomo brama sempre
una felicità sita oltre la porzione che gli è stata assegnata.
Ma la grandezza dell'uomo consiste proprio nel voler migliorare
quello che è. Nell'imporsi Doveri. Nel Regno dei Cieli non c'è
grandezza da conquistare, visto che là tutto è gerarchia fissa,
incognita svelata, esistere senza termine, impossibilità
di sacrificio, riposo e diletto. Per questo, oppresso da pene e
Doveri, bello nella sua miseria capace di amare in mezzo a piaghe,
l'uomo può trovare la sua grandezza, la sua piena misura solo nel
Regno di questo Mondo." (Torino, Einaudi 1990, le pagine
finali: 119-120).
SINCRETISMO
Julio Monteiro Martins (Rio de
Janeiro)
La parola è antica, viene dal greco e vuol dire riunione,
contaminazione tra
filosofie, religioni, costumi. Oggi torna, diversa, in Occidente
dall'America Latina, dal Brasile e dai Caraibi, dove indica da
tempo – dal
tempo della deportazione delle popolazioni yoruba, bantu, baulè,
ibo,
mandinga e tante altre ancora dall'Africa occidentale nelle
Americhe – una delle caratteristiche della civiltà caraibica e
del grande Brasile. Da allora, anzi, fin dalla pancia della nave
negriera che attraversa l'Atlantico, dove tutti i prigionieri sono
stati
mischiati tra loro dai mercanti europei, spaccando i villaggi, i
clan, le
famiglie e le lingue - gli schiavi - i "migranti nudi",
come li chiama Edouard Glissant - mascherano le loro radici e le
loro identità tagliate e disperse sotto la superficie della
lingua
portoghese (o spagnola ecc.), del culto cristiano, delle abitudini
oppressive dei padroni europei e creoli.
Il primo Sincretismo, spontaneo e miracoloso, nella sua
realizzazione
latino-americana, è questa contaminazione che nasconde, questo
mascheramento
doloroso, circospetto, coatto: ma è già una forma di libertà e
di creazione.
Come il candomblé brasiliano, la religione che sovrappone i santi
cristiani
al pantheon yoruba, analoga alla santeria cubana.
C'è un sincretismo obbligato e ce ne è uno nuovo utopico,
cercato, voluto,
inventato.
Il sincretismo moderno è latino-americano, o non è. Esso è
diventato la
filosofia pratica e nuova dell'umano che verrà, in tutti i mondi.
È la
grande libertà del Carnevale brasiliano, in cui il mascheramento
è anche
gioioso svestimento e apertura di tutti verso tutti, dentro la
musica.
Sincretismo significa stare con gli altri nella massima apertura
della
presenza e della contaminazione quotidiana. Vuol dire scegliere
nei
caratteri degli altri e delle altre culture, senza timore di
perdere la
propria identità (e quale?), il meglio per sé. Il sincretismo è
la proposta
vitale dei Sud del mondo a tutti gli altri mondi per danzare
insieme il
futuro. Ed è utopia al di là dell'oppressione e del dolore.
Non credi che sia possibile
individuare nel sincretismo latino-americano il nuovo orizzonte
storico dentro cui saper vedere e concepire un sincretismo
mondiale che riguarda l'immaginario e la letteratura? Quella che,
non sapendo come chiamarla, Milan Kundera ne I
testamenti traditi (1993)
ha definito come "tropicalizzazione del romanzo
europeo", ad esempio?
Il concetto di sincretismo in
quel che riguarda le culture e i popoli è abbastanza conosciuto,
e penso che sia chiaro anche il concetto, tutto nuovo, di
"sincretismo utopico" sul quale ho fatto riferimento
durante i giorni di Porto Franco. Ma poi, già verso la fine del
nostro andarcene in giro per la Toscana, mi è venuto in mente uno
sviluppo nell'ambito letterario di quelle idee: se è vero che la
letteratura è un riflesso molto fedele – anche se a volte per
strade sinuose e deliranti – di quello che accade con la piccola
fetta di umanità che la produce, allora quello stesso
"sincretismo" ci sarà per forza anche nel campo
letterario. E cioè, se le caratteristiche più marcate, e più
fertili da un punto di vista creativo, degli scrittori di questo
periodo storico a cavallo tra due millenni è
l'extraterritorialità – linguistica incluso – e l'interculturalità,
è inconcepibile che la loro narrativa non rechi questi segni, non
manifesti in sé questi "sintomi" del nostro tempo.
Ma l'inconscio dello scrittore – la sorgente di base della
narrativa – non è in grado, lo sappiamo, di distinguere ciò
che sarebbe input diretto (esperienze vissute in prima
persona) e input indiretto (esperienze vissute attraverso
l'assorbimento di un discorso altrui: un film, un libro, un
racconto orale, una foto, una canzone). Così, l'universo
epistemologico di partenza di uno scrittore attuale, anche se lui
non è mai uscito dal suo paese natale, è per forza un fenomeno
sincretico. Quando si dice a uno scrittore del XXI secolo una
parola come "savana", o "nirvana", o
"nomenklatura", o "gang", il suo potere
evocatorio è oggi molto più esteso e profondo che, diciamo, 40
anni fa; e infatti questi concetti sono già parti integranti,
inseparabili, del suo immaginario, e non solo come segni astratti,
ma come "intrecci". È come se loro avessero, anche a
scapito di loro stessi, tutto il mondo dentro la testa, e le loro
scritture saranno scintille scaturite da questo mondo – outputs
– verso lo esterno, verso il lettore.
Stiamo parlando finora dal punto di vista delle tematiche, ma lo
stesso accade con lo stile. Nessun'altra generazione di scrittori
è stata così consapevole del processo interno della scrittura,
degli "attrezzi" psicologici e tecnici disponibili,
delle scelte stilistiche possibili, come questa generazione
attuale. Una gran parte degli scrittori, magari proprio quelli con
più talento, le vocazioni più radicate e inflessibili,
guadagnano da vivere come professori di Scrittura Creativa e di
Narratologia di scrittori più giovani. Allora, oltre a saper
scrivere, devono anche trafficare benissimo dietro le quinte della
scrittura, per poter spiegare e insegnare agli altri. Sono
scrittori che hanno letto un'enormità di titoli, nazionali e
stranieri, classici o moderni, se non per altra ragione, almeno
per stare all'altezza dei loro allievi, lettori voraci. Allora, il
loro stile, anch'esso, riflette questa cultura e presenta un
ventaglio molto più ampio di scelte, come se loro fossero in
grado – e lo sono di solito – di appropriarsi di certe
caratteristiche specifiche di stile di tutta la storia della
letteratura, a seconda delle loro convenienze. Non a caso i
teorici della "narrativa postmoderna" sono unanimi nel
considerare l'intertestualità e le tecniche del
"pasticcio" come segni innegabili di questo periodo
storico.
Il "sincretismo
utopico" sarebbe la facoltà di scegliere tra le altre
culture gli elementi che servono, e incorporarli senza gli
"scrupoli nazionalisti" o culturocentrici del passato.
Il "sincretismo letterario" sarebbe la stessa attitudine
nel terreno letterario. Quando, per esempio, lo scrittore
nippo-britannico Kazuo Ishiguro – un ottimo prodotto dei
Creative Writing Workshops – sceglie un universo tematico
tradizionale della cultura inglese, quello del mondo sotterraneo
dei maggiordomi per il suo romanzo Quel che resta
del giorno e subito dopo prende dalla cultura
tradizionale giapponese, quello della pittura ukio-e, il tema del
romanzo seguente (L'artista del mondo galleggiante)
mette in atto un ragionamento apertamente "sincretico".
E in modo simile lo fanno o lo hanno fatto, quando vivi, Kureishi,
Lispector, Rushdie, Calasso, Octavio Paz, Breitenbach, Maalouf,
Ondaatjie, Tabucchi, Honwana, Singh (e molto umilmente questo
cannibale tupiniquim, tuo amico).
Direi che il sincretismo
letterario – tematico e stilistico – più che un modello o un
progetto, sarà piuttosto una conseguenza naturale dei
condizionamenti e dei cambiamenti in corso nello stile di vita
degli scrittori, delle nuove e limitate scelte che la carriera
impone: esilio, cosmopolitismo, multilinguismo, migrazione, fuga.
Però, al di là delle scelte e dei percorsi individuali, sembra
esistere, in un modo magari un po' misterioso, qualcosa di
"sistemico" in questo processo, come se l'inconscio
collettivo, il mondo stesso, il nuovo mondo con le sue
contraddizioni, volessero cercare delle penne che li
interpretassero nel loro insieme, che li aiutassero a capirsi e a
chiarire le loro prospettive.
Continua, oceano…
Caro proconsole dei Mondi,
Il tuo testo è molto bello e coraggioso ["Il dominio del
disumano"] non esita a proporre quello che mi sembra la
grande missione della nostra generazione (e magari delle
seguenti): prendere in mano nostra le redini di una inevitabile
mondializzazione - strapparle, quindi, dalle mani di chi oggi le
tiene -
perché essa avvenga secondo modelli ideali e armonici, molto
diversi da
quelli in corso. Secondo me, è meno un processo di critica - la
critica è
dipendente ontologicamente da quello che critica - che un processo
di
creazione, di esuberante fantasia utopica.
È infatti un ottimo testo per Praga. Dev'essere letto però nel
contesto
giusto, accompagnato dal testo scritto, in mano ai partecipanti,
perché
possa essere apprezzato e assorbito correttamente. Ci sarebbero
tante cose
importanti da sottolineare nel tuo testo... Bellissime idee: la
"tesi
feroce", per esempio, la precisione con cui tu chiami
"era della
mondializzazione" il momento attuale, la giusta e opportuna
attenzione alla
colonizzazione russa in Asia e dintorni (la Russia vede l'Europa -
ma non lo
dice apertamente - come una sua penisola ad Ovest, così come la
Corea
sarebbe una sua penisola ad Est), i concetti di "dominio del
disumano" e di
"stabilizzazione del disumano" - quest'ultimo ancora
più vicino, secondo me,
alla realtà di oggi, e finalmente il delicato,
"ecologico", brano di poesia
di Ungaretti e il brano di Calvino, "riconoscere che cosa, in
mezzo all'
inferno, non è inferno". In quest'ultimo c'è anche
l'ammissione che il
nostro sforzo è, tra l'altro, uno sforzo epistemologico,
"riconoscere" è
stata la parola scelta. Ma, ragioniamo: uno ri-conosce solo dopo
aver
conosciuto, il "riconoscimento" è il campanello che
suona quando un riflesso
nuovo si sovrappone perfettamente a un'immagine antica. Quale
sarebbe per
noi, allora, quest'immagine antica, che potrebbe permettere un
"riconoscimento" adeguato e chiaro? I classici
occidentali? I classici
universali? Le religioni? Le favole? I nostri principi etici
profondi? L'
"Imperativo Categorico" di Kant? L'istinto? Un senso
laico di giustizia
consensuale? Ma possiamo fidarci interamente di qualunque di
questi
"modelli"? Come essere sicuri che proponiamo il meglio
per il mondo del
futuro, se a volte le prospettive sono piene di ambiguità, e
qualunque
scelta si prenda comporta un costo morale, implica sacrifici e
danni a
qualcosa di grande? E soprattutto, come non permettere che la
consapevolezza
della nostra precarietà intellettuale e morale non ci
immobilizzi, non ci
faccia girare in circoli come una gallina sola nell'aia, mentre il
nemico
avanza diritto e senza sosta? Come non essere colonialista nello
stile del
nostro sforzo di decolonizzare? Come affermare senza pontificare,
e come
ascoltare l'altro con un rispetto più profondo di quello che
quell'altro -
colonizzato nell'anima anche lui - sente di meritare di fronte a
te, al tuo
discorso articolato, alla tua sicurezza nel parlare, alle tue
certezze da
"patrizio", alla tua dimestichezza con una lingua
europea "nobile" e i suoi
congiuntivi? Come scorgere fierezza e dignità, intelligenza e
lucidità,
probabilmente superiore alla nostra, a partire dal volume
instabile della
voce emanata da un capo chino per la modestia, dalla goffaggine di
non
trovare il codice giusto, i segnali precisi? Come, nel calore del
discorso,
non approfittare di questo squilibrio circostanziale e così
rischiare di
fare, magari con le migliori intenzioni, un "colonialismo
retorico"?
Caro amico mio, non è mica facile affrontare il nemico interno,
il
sabotaggio del carattere e, mentre s'impara ad essere fortissimi
contro i
forti, perfezionare ogni giorno l'indispensabile
"debolezza" con i deboli,
la nuova "soavità".
Un'ultima cosa. Mi preoccupo sì della divisione
"Nord-Sud" geograficamente
determinata, quella classica, ma sono ancora più preoccupato con
la
divisione "Nord-Sud" all'interno di ogni piccola
frazione del Nord e del
Sud, ovunque sia geograficamente - una divisione che non è
nemmeno più tra
"have" e "have nots" come si diceva fino a
qualche tempo fa, ma più grave
oggi, tra "quelli che sono" e "quelli che non
sono", utilizzando il verbo
Essere, più ampio, al posto del concettualmente più limitato
verbo
Avere. In qualunque quartiere di Belo Horizonte, di Manilla, di
Los Angeles,
troviamo esseri Alfa ed esseri Beta, come nel romanzo di Huxley, e
la distanza e
l'incomunicabilità tra queste due "caste neoliberali"
si amplifica enormemente. Per questo,
l'unica
rivoluzione possibile d'ora in poi, secondo me, sarà culturale,
etica e
universale, o non sarà. Si tratta di cambiare qualcosa
nell'essenza stessa
dell'Uomo, un intervento nell'"alchimia spirituale" di
tutti, e non più
soltanto un cambiamento nella distribuzione delle ricchezze e
della
giustizia sociale, che sarebbe per altro impossibile, o fragile ed
effimero,
se non sarà preceduto da un vero e proprio capovolgimento
mondiale dei
valori.
Bene, amico. Ora ti presento qualche riflessione complementare che
ho
fatto - tra cucinare per il bimbo, rispondere alle telefonate
della ragazza
paraibana e prendere l'acqua alla fontana qui vicino casa - sul
Sincretismo
letterario:
Allora, per fare un altro passo in avanti mi sono ricordato delle
mie
letture degli anni '70, della feconda Fenomenologia di Husserl,
che offre
qualche concetto utile per capire l'attualità, come ad esempio i
concetti di
noematica e di noetica. Se mi ricordo bene, noematica sarebbe il
Mondo com'
è, nella sua totalità materiale, e quindi irriducibile ai sensi
e alla
conoscenza intellettuale. Di tutta la noematica ci è permesso
l'accesso
soltanto ad una piccola frazione: la noetica. La noetica
individuale, che è
diversa in ogni soggettività. Si tratta della frazione del Mondo
che
riusciamo a trasformare in concetto, a costruire come
rappresentazione
mentale, ossia, l'universo personale di ogni individuo.
Allora, quale sarebbe la "materia prima" del lavoro
dello scrittore al
momento della sua creazione? Quale sarebbe il cosmo dal quale la
fantasia
letteraria scaturisce? La noematica? Il Mondo? No. Il mondo è
impenetrabile,
indecifrabile e sta al di fuori della soggettività dello
scrittore. Sarebbe
la noetica allora? Sì, esattamente, sarebbe l'insieme di in-puts
che per
via diretta (il contatto fisico dei sensi) o per via indiretta
(attraverso l'arte e i media), si
sono accumulati dentro di lui, durante la sua esistenza e che,
soggetti a processi
psichici particolari, produrranno gli out-puts originali,
l'opera insomma.
Qual è oggigiorno la natura degli in-puts che
costituiscono la
soggettività? Sono sempre più spesso quelli assorbiti per via
indiretta
(soprattutto a partire dal fenomeno Internet e dalla tivù
satellitare) e
sempre meno quelli per via diretta. Inoltre, essi sono sempre più
simili tra
loro, ovunque viva fisicamente lo scrittore, perché l'odierna
distribuzione
dell'informazione è sottomessa allo stesso processo di
omologazione e d'internazionalizzazione degli altri prodotti.
Quindi, la narrativa mondiale che risulta da questo panorama
sarà, anch'essa, il riflesso, sempre più universale, come frutto
della soggettività, delle noetiche, modellate a
seconda dei nuovi in-puts disponibili e condivisi da
tutti. Un esempio: l'immagine televisiva del cielo notturno di Baghdad sotto i bombardamenti statunitensi durante la Guerra del
Golfo: lo schermo televisivo verdognolo, rigato dall'artiglieria
antiaerea irachena, come
da veloci fuochi d'artificio, vermi luminosi che strisciavano tre
le nubi.
Ebbene, queste immagini sono state viste identiche,
simultaneamente in tutti
i paesi del mondo, proprio uguali, con lo stesso impatto
emozionale, a
Osaka, a Kiev, a Lisbona, a La Paz. Di conseguenza una frazione di
soggettività è stata costruita in quel momento come noetica
della
collettività, come "patrimonio epistemologico"
universale. Non sorprende
quindi che uno scrittore indiano, o messicano, o italiano, o
senegalese, si
senta in diritto di narrare quella esperienza come un'esperienza
propria.
Sarà sua. Ma sarà anche, ugualmente, di tutti gli altri.
Questo non sarebbe vero per trent'anni fa. Non solo, a quel tempo,
la
noetica otteneva più elementi dalle esperienze dirette,
molteplici e
variegate, come anche le esperienze indirette erano più
"personalizzate" e
localizzate. Così, una nuova narrativa emerge come patrimonio
universale,
non solo relativamente al suo consumo, ma soprattutto per quello
che
riguarda la sua creazione. Le letterature nazionali spariscono
come concetto
identificabile nella realtà via via che la frazione della
soggettività
formata da in-puts nazionali perde rilevanza
rispetto a quella mondiale.
Ed è quasi spaventosa la velocità con cui, in questi ultimi
anni, questa
sostituzione di "sorgente" si realizza. Non solo la
materia stessa della
noetica contemporanea è diversa, ma anche lo è la sua
"architettura", la
dimensione e la forma della "griglia" dentro la quale
gli stimoli esterni si
inseriscono. Direi che è quasi un Uomo diverso quello che si
presenta al
nuovo secolo, e la letteratura che produrrà sarà per forza
differente: la
sua "origine" stavolta conta meno della sua
"struttura", e dell'universo che
ha scelto o a cui è convinto di appartenere. Sarebbe il caso di
domandare
allo scrittore di oggi non da dove viene o qual è la sua
madrelingua, ma
cosa sa e che lingua ha scelto. Non dov'è la sua patria, ma
dov'è il suo interesse.
Un scrittore brasiliano, Caio Fernando Abreu, ha scritto un
racconto in cui
un uomo malato di AIDS ritorna alla casa materna, dopo 15 anni di
assenza,
per morire vicino alla madre a alla vecchia cagna della sua
gioventù. Questo
racconto, "Principessa, una storia orribile", è
brasiliano o universale? L' AIDS è senza
dubbio altrettanto mondiale quanto lo è Internet, la pizza
o il reggae. O quanto lo è la
nuova narrativa, qualunque sia la lingua in cui essa viene scritta
e ovunque sia in quel
momento il suo autore.
Un abbraccio oceanico,
Julio
.
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