DIETRO L'AUTUNNO

Tiziano Fratus


Amo l'autunno.
Quell'impercettibile rumore di una foglia che si posa sul fondo terroso di un prato.
Tutto, tutto nella mia misera esistenza conta di meno.
Molto di meno.
Non so spiegarne il motivo, o i motivi, ma so che è così.
Sin da piccolo ricordo che spesso mi sorprendevo durante le lunghe e calde giornate
d'estate, quanto le ore velocemente scivolavano via tra giochi, risate, insetti, tuffi e
figurine, a desiderare l'arrivo dell'autunno.
Puntuale, e in punta di piedi, settembre giungeva.
Capivo di essere entrato fisicamente nelle dolci atmosfere dell'autunno la sera che mio
padre, allora falegname, mi caricava sulla canna della sua vecchia bicicletta, e insieme si
andava oltre il ponte nei campi di grano.
Là, su un fazzoletto di terra di proprietà di un signore anziano che aveva visto crescere
mio padre, così come ora vedeva crescere me, staccavamo decine e decine di
pannocchie, infilandole in un grosso sacco di tela bianca e grezza.
Era divertente, anche se il sudore rigava la pelle.
Nel mentre, il cielo si infiammava, le ultime rondini volavano rasenti i tetti TOC TOC entrava la notte.

Nell'arco di pochi giorni nel cortile antistante la caldaia si formava una vera e propria
montagna di pannocchie.
Ogni tanto, ritornando da scuola, assieme a mia madre e talvolta a qualche zio o cugino,
ci si sedeva sopra un secchio rovesciato, e si passavano le ore a sfogliare le
pannocchie, a sgranare il mais.
Cascate variopinte di minuscole confidenze.
Giungeva poi il tempo delle castagne, intere mattinate domenicali spese alla ricerca di
funghi porcini (l'importante comunque era che fossero commestibili) e alla raccolta
affannosa di chilogrammi e chilogrammi di castagne.
Le castagne, in quelle settimane, rappresentavano l'alimento base di molti piatti:
minestra di castagne, castagne bollite, purè di castagne, dolci vari alle castagne,
caldarroste.
Gustosissimi le prime volte, in seguito...
Tutti gli anni la stessa cerimonia.
Piano piano le giornate si accorciavano, le magliette ritornavano in fondo agli armadi, revival di maglie di cotone, camicie, due passi ed eccoci nuovamente alle porte dell'inverno.
Alberi spogli, uno zerbino di foglie che macerava sui prati e ai bordi delle strade battute dalla pioggia insistente di novembre.
Così ho vissuto gli anni della mia infanzia.
Da allora sono passati molti anni, il calendario si è assottigliato svariate volte.
Oggi vivo in un altro paese, a migliaia di chilometri da dove sono nato e dove sono
radicati la maggior parte di quei ricordi.

La malinconia si mesce ad un sottile filo di cordoglio.
Di certo, non è che abbia molto senso recriminare sulle scelte fatte.
"Der Stand der Dinge", recita un famoso film di Wim Wenders.
Lo stato delle cose.
Non ho mai amato quel modo estremamente cinico e spietato di concepire la vita, il
celebrato Carpe diem, ma devo ammettere che con gli anni, da un certo punto di vista, mi ci sono avvicinato.
In questo paese il mio nome di battesimo è andato perduto, l'ho smarrito, come un paio di chiavi di una casa nella quale non si abita più da diversi anni.
Per tutti io sono Törsten.


Quest'anno non ce l'ho fatta, a restare a Stoccolma.
Così, forse per ritrovare me stesso, forse per appagare una bizzarria che mi frullava nella
zucca da tanto tempo, ho deciso di "inseguire" l'autunno.
Mi muovo, spostandomi da un paese all'altro, abbracciando un orizzonte e cullato da
un'alba, alla ricerca di un modo per vivere diversi autunni tutti in un ristretto lasso di
tempo.
Un progetto a cui ho dedicato strati guarniti di squisiti silenzi.
Non tutti sanno che le piante reagiscono all'autunno in maniera differente.
Alcune piante iniziano a perdere le foglie sin da settembre, ma sono le ultime a spogliarsi
completamente. Altre, invece, iniziano a cadere quando la maggior parte degli aceri e
delle betulle sono già a metà dell'opera.
In pochi giorni voila, les jeux sont faits.
Autunni differenziati, uno dietro l'altro, uno dentro l'altro.
Scatole cinesi.
Un enorme spogliarello.
Tonalità di gialli, di arancioni, di rosa, di rossi.
Il rosso...
Il colore del cuore, il colore del sangue, della passione; ma anche il colore della
menzogna, il colore delle bugie.
Ritrovarsi in viaggio perché si è giunti a un punto dell'esistenza nel quale avere un
equilibrio è quantomeno necessario.
Ed è senza dubbio altrettanto vero che da almeno un decennio accarezzo, senza
particolari pretese, il sogno di una rincorsa "virtuale" all'autunno.
Ma al di là dei bei discorsi, non riesco a lasciarmi alle spalle un problema in carne ed
ossa, un problema che si è fatto sempre più pressante con tutto il suo carico di
drammatica insostenibilità.
Quattro lettere, uno schizzo d'inchiostro. Agda.
Capelli corti, biondi, il volto lungo, occhi chiari come il ghiaccio, capaci di penetrare il
marmo.
- Devo dirti una cosa.
- Su, parla.
- Sono incinta.
Un attimo di attesa per constatare gli stati d'animo.
- Sono al secondo mese. Il dottore me l'ha detto due settimane fa. E' certo, non c'è
alcuna possibilità di errore. Lo voglio. Non ti azzardare a dire che non lo vuoi. Se non lo
vuoi stai zitto. Se non lo vuoi puoi fare soltanto una cosa: uscire da quella porta.
Sparato tutto d'un fiato.
Senza ostentare alcun sentimento mi hai detto tutto guardandoti le dita intrecciate sul
 tavolo, nella tua cucina verde di cedro.
Ti guardo, ma mi ignori.
O quantomeno sembri farlo, con lo sguardo.
Rimaniamo in silenzio, immobili, per minuti e minuti.
Nella confusione della testa si rincorrono semplici operazioni, addizioni, sottrazioni,
moltiplicazioni, divisioni: non è che sia un granché esser disoccupato, da parte non aver
che pochi spiccioli, ritrovarsi in un paese solo come un cane.
Dopo un tempo incalcolabile, mi alzo, lascio la stanza.
Mi fermo davanti all'attaccapanni, indosso la giacca di pelle ed esco dalla porta di casa.
Da allora sono trascorsi trentasette giorni, e di te, mia piccola, non ho avuto più notizie.
Ecco, in definitiva, la ragione principale della mia rincorsa all'autunno: fuggire, scappare
lontano dai fumi di una realtà che non riesco ad affrontare.
La gestione, spesso, si dimostra la prova più ardua.

Eppure, nonostante stia sempre più solo con me stesso, ho la netta sensazione di avere
una visione più nitida di quello che devo o non devo fare.
Tre più due meno cinque, moltiplicato due.
Non sto fuggendo, sto soltanto rinviando alcune scelte.
La sostanza non cambia, anche se il sapore...
Ma qui entra in gioco un piccolo particolare.
Si tratta di un mio segreto.
Non ne ho mai parlato con nessuno, neppure con te, Agda.
Si tratta di una storia, una sorta di credenza popolare che mi insegue dall'infanzia.
Me la raccontò mia nonna, una sera, nonna Giulia, la madre di mia madre.
Ero a casa sua, ci fu un temporale, e rimanemmo senza corrente.
A fatica nonna Giulia trovò una candela, l'accese con un lungo fiammifero di quelli
svedesi.
Sotto quella luce, le sue parole presero forma nella mia piccola testa.
Una povera fanciulla, sopravvissuta alle tragedie della guerra, era senza lavoro.
Una madre e un padre da mantenere.
Non sapeva più che fare, povera ragazza!
In mezzo alla strada, seduta sul selciato, le mani affondate nei capelli color fieno, un
giorno un vecchio si avvicinò.
- Che posso fare per lei, caro signore?
Lui le prese le mani fra le sue.
Aveva mani calde, grezze, da contadino.
- Mi crederai pazzo, ma ascolta il consiglio di un uomo che è arrivato in fondo alla sua
via.
Il vecchio indicò un boschetto.
- Che intendi dire? - chiese la ragazza.
- Le foglie, piccola mia, le foglie. Il tuo futuro sta in quelle foglie.
Lei lo guardava con ovvio sospetto.
- Non devi fare altro che ascoltarle.
La ragazza percepì qualcosa in quel calore, le fronde sbocciarono magicamente in mezzo alla sua fronte.
Il vecchio sparì sotto ai suoi stessi occhi.
La ragazza si recò per molti giorni sotto quegli alberi che il vecchio le aveva indicato.
Le settimane volarono via, senza che nulla accadesse.
Ma un bel giorno, a ricompensa della tenacia, una voce raggiunse finalmente le sue
 orecchie.
Un consiglio, una rivelazione, questo nessuno lo ha mai saputo.
Ma da quel giorno, la vita di quella ragazza cambiò.
Si inventò un lavoro, la gente parlava di lei e le tasche presto si riempirono di monete.
Sulla tavola della sua casa, non mancò mai più un piatto caldo.
E' una storia che rimane impressa nella mente.
Tatuata. Oggi, una storia del genere verrebbe sicuramente derisa.
I quotidiani griderebbero al maniaco, al pedofilo.
Si scomoderebbero chiese e sacerdoti, politici e riconosciuti moralisti, nel buon nome
dell'etica dell'informazione.
In ricordo di quell'infanzia, prima di prendere una decisione che potrebbe segnare una
volta per tutte la mia esistenza, ho deciso di raccogliere un po' di pareri.
Le foglie, quelle che si staccano improvvisamente dai rami volteggiando nell'aria e
posandosi infine da qualche parte, parlano.
A me, intendo. E' come se le foglie vivessero solo in quei pochi istanti tra i quali abbandonano la madre e raggiungono la tomba. Secondi tic tac tic tac tic tac tic tac tic tac... frazioni oscillanti di impercettibilità.
Riesco ad ascoltarle.
Alcune di loro raccontano delle storie, altre un episodio a cui hanno assistito, altre di un amore con una foglia vicina.
Le più divertenti sono quelle che lanciano strali contro la natura del mondo e dell'universo.
Mpf, chissà poi perché lo fanno!
Potrei scrivere un saggio: Psicologia delle foglie.
Con la mia solita fortuna, non o comprerebbe nessuno.
Mi toccherebbe pagare tutte le spese di stampa, e risarcire l'editore la sua pazienza e la
brutta figura.
Innanzitutto direi che non tutte le foglie sono uguali, tutt'altro.
E di fatti io sono alla ricerca di una categoria speciale, in via di estinzione.
Forse per colpa del buco dell'ozono.
Queste foglie si riconoscono per un dettaglio: non fanno che ripetere infinite volte la
stessa domanda.
Domande particolari.
Bizzarre. Sono domande in grado di generare migliaia di altre domande, non per giungere a una o a più risposte ma per allenare la sensibilità smarrita dell'essere umano.
Foglie che parlano, foglie che ne dicono di tutti i colori, un tizio che le sa ascoltare.
Talvolta penso di non avere tutte le rotelle al loro posto.
Forse, dovrei fare un check-up.
Poi, ragionandoci sopra, mi convinco che nelle cose che non si conoscono l'incredulità
tenta di vanificare una realtà inaccessibile.
Si capisce, è più facile negare che cercare di comprendere.
Si fa molta meno fatica, e si risparmia di mettere in dubbie le tre certezze che ci si porta
dietro. Ma è tirannia, soltanto tirannia.

Che lo si creda oppure no, che la Scienza (per l'appunto con la esse maiuscola) lo
dimostri o meno, nel nostro mondo esistono persone in grado di ascoltare la natura e in
fin dei conti chi ha mai detto (nell'ultimo secolo almeno) che le piante non sono
anch'esse degli esseri viventi?
Tutto è vivo, qualsiasi cosa questo voglia dire.
Il segreto?
Basta sapere quali "orecchie" usare, per essere in grado di ascoltare.
Era mio nonno che mi diceva che suo figlio (mio padre) non sapeva ascoltare.
Lui come tutti coloro che sono nati e cresciuti nello stesso tempo.
- Non sanno ascoltare, non vogliono ascoltare - diceva in un tono malinconicamente sconsolato.
Lo vedevo, con i suoi quattro capelli bianchi che di tanto in tanto gli si drizzavano in testa, ricordo di una giovinezza divorata.
La generazione di mio padre, all'incirca quella nata negli anni cinquanta, coloro che hanno vissuto e "praticato" la contestazione degli anni Sessanta, coloro che volevano cambiare le forme e i contorni del mondo nel quale si trovavano, hanno rifiutato tutto, hanno deciso che la loro sarebbe stata la generazione di quelli che avrebbero parlato.
Hanno parlato, ne hanno dette di tutti i colori, hanno abbattuto muri, e ne hanno costruiti altri.
Alla fine molti si sono ritrovati tra le mani i coriandoli della disillusione.
Noi, le generazioni degli anni sessanta e settanta, pur tra diversità e comunanze sostanziali, ci siamo ritrovati dei genitori delusi, tristi, perennemente insoddisfatti, e capaci di tramandarci al più i loro sogni infranti.
Senza quella loro voglia di parlare, qualità che certo non potrebbe essere meno richiesta.
Nei curriculum vitae è richiesto di parlare di sé, possibilmente molto, di sé, mai di ascoltare.
E senza sapere cosa significhi ascoltare.
Noi, i giovani e gli adulti degli anni novanta, la "ME/IO generazione", abbiamo due ordini di valori: noi stessi, e il denaro.
Una generazione che misura il suo tempo a yen dollari e euro.
Una generazione che se ne frega dei problemi del cosiddetto Terzo Mondo, della globalizzazione e degli esiti disastrosi dell'omologazione culturale e linguistica.
Una generazione nata da tanti ideali, ma orfana della coscienza: c'è ironia, nella sorte.
Poche le eccezioni, poche le variabili in materia.


Ora mi trovo negli Stati Uniti, in una piccola cittadina del Wisconsin.
Cerco di godermi, seduto su una panchina, il tenero vociare delle foglie.
"Che vuoi dai tuoi fiori?"
"Chi la fa e chi l'aspetta!"
"Dietro di te, un oceano di merda."
"Il vuoto non è nelle tue labbra."
"I regard the instant as more important than the whole"I.
In questo puzzle di sensazioni e riflessioni, mi chiedo se non sia arrivato il momento di
decidere di prendere una decisione risolutiva.
In fin dei conti le mie tasche iniziano a pesare.
Ho forse bisogno di sapere che tutto è deciso per sentirmi a casa?
E' poi essenziale avere del denaro in banca?
Ho veramente bisogno di contratti prematrimoniali firmati?
Esiste una legge che obblighi a rapporti determinati, sanciti?
Tantomeno mi pare che gli altri debbano sentirsi obbligati nei miei riguardi.
E, ovviamente, io nei loro.
L'unica cosa che voglio è di sentirmi a casa.
Sentirmi a casa.
Seduto, accanto alla finestra, il sole appeso al tramonto.
Insieme a te, dolce Agda, come sugli alberi le foglie, e rimanere in silenzio.
E' tempo di tacere.


Tiziano Fratus, nato a Bergamo il 09/03/1975, residente nella provincia di
Torino, ha seguito seguenti corsi e laboratori su sceneggiatora (Istituto
Fellini - Torino, Osservatorio Letterario Giovanile - Torino, AIACE -
Torino), narrativa (Scuola Holden - Torino), drammaturgia (Laboratorio
Teatro Cassetta Popular - Grugliasco (TO), Archivi del '900 - Milano, Scuola
Sagarana - Lucca).
Ideatore e webmaster dei progetti web:- http://torinomassive.8m.com - http://lines.8m.com
Collaboratore del Progetto Codex, magazine + website sulle culture web, che
sta per nascere a Torino, grazie al contributo del Politecnico di Torino. Artista selezionato per la sezione Art-e-mail all'ultima edizione della fiera di arte contemporanea Mac 21, tenutasi a Marbella, Spagna. Organizzatore e insegnante al laboratorio drammaturgico nell'ambito del progetto ManifatturAE.

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