FELLINI
E GLI INCONTRI PAUROSI
Dino Buzzati
Roma,
agosto 1965
Federico
Fellini è attualmente in Italia la persona più carica
di misteri.
Per il suo nuovo film, Giulietta degli spiriti, Fellini
ha girato penisola e isole per oltre due mesi visitando i più
strani o addirittura inverosimili personaggi, maghi, indovini,
streghe, invasati, medium, astrologi, operatori metapsichici,
depositari di occulte potestà, ne ha fatto una scorpacciata,
ne è rimasto saturo.
Non è che volesse utilizzare questi tipi per il suo film.
Giulietta degli spiriti non è un documentario di
prodigi tradotti in chiave fantastica. È una favola inventata
di sana pianta nella vicenda, nei personaggi e nell'ambiente.
Di tutti i maghi interpellati, compare in carne ed ossa soltanto
Genius (pronuncia "ginius" all'inglese) lo sconcertante
e pittoresco indovino di Roma che per il modo di vestire e di
atteggiarsi ricorda il sarto Schubert.
Il pellegrinaggio è servito a Fellini soltanto come preparazione
psicologica indiretta. Il contatto con quelle creature in certo
modo dava impulso alla carica magica che già Fellini aveva
dentro di sé, così come in certi scrittori la musica
serve a promuovere le idee. E a giudicare dai risultati il sistema
è stato ottimo. In Giulietta degli spiriti, che
Fellini mi ha fatto vedere, il clima di sortilegio, di inquietudine,
di attesa, non viene mai meno, con una varietà abbacinante
di motivi e fantasmagorie.
Fellini però ne parla con cautela, cercando di minimizzare
la sua impresa. Va da sé che il regista ha una grande fiducia
in sé, altrimenti non oserebbe mai tentare film come questo.
Ma poi, quando ne discorre, entra in gioco il suo istintivo understatement.
La classe, anche come uomo, è rivelata subito da questa
disarmante quanto spontanea semplicità. Un altro autorevole
esempio a conferma che il talento e il darsi importanza non possono
andare d'accordo.
Ora,
fra tanti personaggi dell'Italia magica - gli chiedo - chi gli
ha fatto più impressione?
La maggioranza, anche se si trattava di fenomeni notevoli, non
aveva niente di eccezionale. I soliti tavolini semoventi, le solite
decifrazioni chiromantiche, le solite letture delle carte, le
solite interpretazioni degli astri, le solite operazioni taumaturgiche;
con risultati spesso curiosi o addirittura impressionanti. Nulla
però che si staccasse dal classico repertorio.
Molti di questi maghi, o sedicenti maghi, pareva avessero smarrito
ogni personalità, come se fossero posseduti da un potere
estraneo a loro; risultavano quindi alquanto stolidi, o assolutamente
infantili, o inesistenti come creature umane. Agivano come automi,
non tentando neppure una interpretazione di ciò che facevano.
Comunque, Fellini mi cita Pasqualina Pezzolla, di Porto Civitanova,
che riesce a "vedere" l'interno del corpo umano quasi
i visceri fossero completamente scoperchiati ed esposti alla luce.
Ed è quindi in grado di fare delle diagnosi di una precisione
tremenda. "Sembra un Macario vestito da donna" racconta
Fellini. "È una ex-contadina, priva di studi ma dotata
di un notevole orecchio; a espressioni rozze e popolaresche mescola
una terminologia medica d'accatto che coi clienti le conferisce
un certo tono. Per farsi visitare vengono anche da lontanissimo,
intorno alla sua casa c'è sempre una folla che aspetta,
bivaccano perfino nella strada per non perdere il turno. Come
fa a visitare i malati? Pasqualina siede, fissando il cliente,
con respinti sempre più affannosi e contratti. Cade insomma
in una specie di lieve trance. La si vede trasformarsi,
e dalla sua faccia sembra uscire un altro volto più aguzzo.
Intanto tiene una mano a visiera sopra gli occhi, come per ripararsi
dalla luce. Poi si alza in piedi. Biascica e parlotta tra sé
forse delle formule magiche. Si risiede. Ha due tre violenti scossoni.
Sorride. È pronta. Comincia a parlare: vedo lo stomaco
un po' spostato in basso, vedo tre calcoli uno grosso e due piccoli
nel sacchetto della bile... Tale e quale che se invece degli sguardi
avesse i raggi X."
Mi parla a lungo anche di "zio Nardu", un bizzarro vecchio
che diventava cavallo. Abitava in una povera bicocca fuori Nuoro.
Fellini ci andò accompagnato da un pretino in fama di buon
esorcista. Arrivati alla casa di zio Nardu, dovettero aspettare
due ore perché lui non voleva aprire. Alla fine si spalancò
la porta e zio Nardu apparve, un vecchietto di settant'anni, all'apparenza
niente di straordinario. Come vide il prete, si fece il segno
della croce. Salutò in tono piuttosto servile. Subito il
pretino lo redarguì severamente: "Ti vuoi convertire
finalmente? la devi smettere di trasformarti in bestia! Altrimenti
finirai all'inferno..." E lui diceva di sì, era pentito,
prometteva di non farlo più, lacrime gli colavano dagli
occhi. A questo punto intervenne Fellini; il pretino, continuando
così, gli avrebbe rovinato tutto quanto. "Sì,
zio Nardu, tu devi convertirti" disse il regista. "Sono
venuto apposta da Roma per parlare con te. Ma, per dimostrarti
la sua benevolenza, la Chiesa ti dà il permesso di diventare
bestia ancora una volta." A quelle parole zio Nardu si rianimò,
fece una grande risata, poi si mise a parlare velocemente, non
si capiva una parola, sembrava recitasse una filastrocca di nomi
messi insieme senza nesso.
All'improvviso cominciò a nitrire, non a emettere suoni,
simili a nitriti, ma a nitrire veramente come un cavallo. Ben
presto avvenne una metamorfosi mostruosa. La faccia divenne un
muso, il muso si allungò a vista d'occhio assumendo fattezze
equine; gli occhi si ingrandirono, divennero interamente neri
e lucidissimi, appunto come gli occhi dei cavalli, le orecchie
si spostarono in alto, così da sporgere dalla sommità
del capo. Perfino il corpo, sembrò a Fellini, acquistava
un certo che di cavallino. Allora, sempre cacciando altissimi
nitriti di gioia, l'uomo-cavallo cominciò a scalciare furiosamente.
E il pretino a recitare le formule sacre dell'esorcismo. Fino
a che l'altro si quietò e nel giro di pochi secondi riacquistò
sembianze umane.
Al termine dell'inusitata scena, Fellini si trattenne a discorrere
con zio Nardu. "Spiegami un po'" gli chiese: "perché
ti piace fare il cavallo?". "Ma il cavallo è
il più buono, è il più onesto degli uomini"
rispose il vecchio con entusiasmo. "Non c'è niente
di più bello di un cavallo. Sì, sì, io sono
un cavallo."
Zio Nardu è morto recentemente, del tutto felice perché
nella suprema agonia aveva avuto una delle sue crisi, tramutandosi
in destriero. E i suoi ultimi rantoli furono nitriti. Un matto,
insomma, ma fuori della norma dei matti. Del resto, mi ha fatto
notare Fellini, la pazzia in certi casi è "materializzante"
cioè l'uomo finisce per assomigliare alla persona o alla
cosa in cui si illude di essere trasformato. Così c'è
il pazzo che può assomigliare a Napoleone, il pazzo che
assume le forme di un uccello e così via.
"ma il personaggio di gran lunga più interessante"
racconta Fellini "che sta a sé, completamente fuori
di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il
personaggio portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino.
Anche lei certo ne ha già sentito parlare. Non si tratta
di un "mago" più dotato degli altri. È
un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha
fatto l'università, dipinge, si è dedicato per anni
all'antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce
come non sia famoso in tutto il mondo. Chissà, forse non
è ancora venuto il suo momento.
"Quello che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova
la sensazione di un uomo che sprofonda in un abisso marino senza
scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria
di una trascendenza. Se non si resta terrorizzati è soltanto
per il suo modo gioviale e scherzoso un po' da Fra Ginepro, per
l'atmosfera salutare che si sprigiona da lui. Del resto egli stesso,
prima degli sperimenti, cerca, con opportuni avvertimenti, di
creare un limite alla meraviglia, altrimenti si potrebbe rimanerne
schiantati."
Del prodigioso mondo in cui vive Gustavo Rol, Fellini mi ha parlato
a lungo, senza un dubbio, senza una riserva. Ecco quattro episodi
esemplari.
Erano seduti, Fellini e Rol, in una sala dell'albergo Principe
di Piemonte, a Torino. Accanto a loro un tavolino con sopra un
grosso calamaio d'argento. "Adesso provo un esperimento"
disse Rol. "Guarda però che non mi riesce sempre.
Vedi quel calamaio? Ti prego tienilo d'occhio." Fellini fissò
il calamaio. Subito ebbe la sensazione che "qualcosa succedesse
dentro di lui, qualcosa di obliquo, come un malessere lucido".
A un tratto, mentre continuava a fissare il calamaio gli "viene
a fuoco" il piano del tavolino, con eccezionale evidenza,
ma senza più il calamaio. Sotto i suoi occhi il calamaio
era sparito. E Rol non si era mosso dalla poltrona, non aveva
mosso le mani.
" Il calamaio era sparito" spiega Fellini. "Si
trattava però come di un'eco. L'operazione, come dire?,
era avvenuta su di un altro piano, io ne percepivo soltanto una
rifrazione." Rol era sudatissimo, quasi uscisse da un lungo
e spossante sforzo. Ma scherzava: "Adesso mi arresteranno
come ladro. Adesso come facciamo? Riuscirò a far tornare
il calamaio? Quel signore laggiù ci sta guardando. Lo conosci
tu quel signore laggiù in fondo?". Fellini si voltò
a guardare. Non c'era nessun signore. Riportò gli sguardi
al tavolino. Il calamaio era tornato.
"Come può fare cose simili? Da quello che ho vagamente
intuito, Rol deve compiere una serie di operazioni mentali in
cui crea un certo ordine che si traduce in realtà fisica.
Chissà, si direbbe che conosca la famosa legge di Einstein
per cui la materia può trasformarsi in energia e viceversa;
solo che lui la realizza sul piano mentale."
Un altro prodigio avvenne in un ristorante, pure a Torino. Avevano
finito di pranzare, era già stato pagato il conto. "Andiamo?"
propose Fellini. "Andiamo pure" rispose Rol. Fellini
fece per avviarsi all'uscita ma si accorse che Rol stava seduto.
"Non ti alzi?" gli chiese. "Ma io sono già
alzato" fece Rol. "Io sono in piedi." Fellini guardò
meglio: Rol era alzato, infatti, ma aveva la statura di un nano.
Il dottor Gustavo Rol, che sfiora il metro e ottanta, non era
più alto di un bambino di dieci anni. Qualcosa di folle,
di allucinante: come Alice nel paese delle meraviglie. "Su,
andiamo, andiamo" fece Rol a Fellini annichilito. Ma a Fellini
mancò di nuovo il fiato; senza che egli avesse potuto percepire
il mutamento, Rol di colpo si era trasformato in un gigante, stava
accanto a lui come un cipresso, lo sovrastava di almeno una spanna.
Ed eccoli al parco del Valentino, Rol e Fellini, in un pomeriggio
sonnolento. Contrariamente al solito, Rol è malinconico,
parla poco, insegue certi suoi sconosciuti pensieri. Si siedono
in silenzio su una panchina. Più in là, seduta a
un'altra panchina, una nurse dormicchia con dinanzi la
carrozzella del bambino. Sopra la carrozzella si mette a girare
un grosso calabrone. "Guarda là" dice Fellini
"bisogna andare a cacciare via quella bestiaccia" "No,
non occorre" risponde Rol, e tende la mano destra in direzione
dell'insetto. Uno schiocco di dita, e il calabrone cade a piombo,
fulminato secco. "Ah, mi dispiace" deplora l'uomo misterioso
e affascinante. "Mi dispiace. Questo non dovevo fartelo vedere!"
Quarto caso. Per avere disobbedito, Fellini stette male, per due
giorni non riuscì né a mangiare né a dormire.
"Mi fa scegliere una carta da un mazzo. Era, mi ricordo,
il sei di fiori. Prendila in mano, mi dice, tienila stretta sul
tuo petto e non guardarla; ora, in che carta vuoi che la trasformi?
Io scelgo a caso. Nel dieci di cuori, gli dico. Mi raccomando,
ripete lui, tienila bene stretta e non guardarla. Lo vedo concentrarsi,
fissare con intensità spasmodica la mia mano che tiene
la carta. Intanto io penso: perché mai non devo guardare?
Sì, me lo ha proibito, ma il tono non era troppo severo.
Che me lo abbia detto apposta per indurmi a trasgredire? Insomma,
non resisto alla tentazione. Stacco un po' la carta dal petto
e guardo. E allora ho visto... ho visto una cosa orrenda che le
parole non possono dire... la materia che si disgregava, una poltiglia
grigiastra e acquosa che si decomponeva palpitando, un amalgama
ributtante in cui i segni neri dei fiori si disfacevano e venivano
delle venature rosse... A questo punto ho sentito una mano che
mi prendeva lo stomaco e me lo rovesciava come un guanto. Una
inesprimibile nausea... E poi mi sono trovato nella mano il dieci
di cuori."
Per ultimo ho chiesto a Fellini: "Di tutte queste esperienze,
di tutte queste stregonerie, c'è stata qualche ripercussione
nella realizzazione del film?"
"È difficile rispondere" dice Fellini. "Certo,
mi sono trovato di fronte a una quantità di imprevedibili
e strane opposizioni, quasi che una forza oscura mi volesse scoraggiare.
Cose vaghe, però, forse soltanto mie assurde sensazioni...
E poi, a motivo di questo film, alcune amicizie si sono guastate,
perdute, distrutte. Si intende, amicizie apparenti, di superficie...
Contro la vera amicizia non credo che la magia possa fare molto."
(Tratto dal libro I misteri d'Italia, Oscar Mondadori,
1978, Milano)
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