PADRONI
DEL MONDO, SAPETE QUELLO CHE FATE?
Pierre Bourdieu
Discorso alla riunione annuale del Consiglio internazionale
del museo della televisione e della radio, del 11/10/1999.
Non
mi renderò ridicolo descrivendo lo stato del mondo mediatico
davanti a persone che lo conoscono meglio di me; persone che sono
tra le più potenti del mondo, di quella potenza che non
è solo quella del denaro, ma quella che il denaro può
donare allo spirito. Questo potere simbolico che, nella maggior
parte delle società, era distinto dal potere politico o
economico, è oggi riunito nelle mani delle stesse persone,
che detengono il controllo dei grandi gruppi di comunicazione,
cioè l'insieme degli strumenti di produzione e di diffusione
dei beni culturali.
Queste persone molto potenti, mi piacerebbe poterle sottomettere
a una interrogazione del genere di quella che Socrate faceva subire
ai potenti del suo tempo (in quel dialogo, domandava, con molta
pazienza e insistenza, a un generale celebre per il suo coraggio,
cos'è il coraggio; in un altro domandava a un uomo conosciuto
per la sua pietà cos'è la pietà, e così
via, facendo sembrare, ogni volta, come se non sapesse veramente
cosa fossero queste cose). Non essendo in grado di procedere in
tale modo, vorrei porre un certo numero di domande, che sicuramente
queste persone non si pongono (soprattutto perché non ne
hanno il tempo) e che si riducono tutte ad una sola: padroni del
mondo, avete voi il dominio del vostro dominio? O, più
semplicemente, sapete veramente quello che fate, quello che state
facendo, tutte le conseguenze di quello che state facendo? Domande
molto imbarazzanti, alle quali Platone rispondeva con la celebre
formula, che senza dubbio si applica qui benissimo: "Nessuno
è malvagio volontariamente".
Ci è stato detto che la convergenza tecnologica e economica
dell'audiovisivo, delle telecomunicazioni e dell'informatica e
la confusione delle reti che ne risulta rendono totalmente inoperanti
e inutili le protezioni giuridiche dell'audiovisivo (per esempio
le regole relative alle quote di diffusione di opere europee);
ci é stato detto che la profusione tecnologica legata alla
moltiplicazione dei canali tematici digitali risponderà
alla domanda potenziale dei consumatori più differenti,
che tutte le domande riceveranno delle offerte adeguate, in breve,
che tutti i gusti saranno soddisfatti. Ci è stato detto
che la concorrenza, soprattutto dal momento che è associata
al progresso tecnologico è sinonimo di "creazione"
(potrei assortire ognuna delle mie asserzioni con decine di referenze,
e di citazioni, in definitiva assai ridondanti).
Ma ci è stato anche detto che la concorrenza dei nuovi
entranti, molto più potenti, che vengono dalle Telecoms
e dall'informatica è tale che l'audiovisivo ha sempre più
difficoltà a resistere; che le quote di destra, in particolare
in materia di sport, sono sempre più elevate; che tutto
ciò che producono e fanno circolare i nuovi gruppi di comunicazione
tecnologicamente e economicamente integrati, cioè tanto
i messaggi televisivi che i libri, i film o i giochi televisivi,
in breve, tutto ciò che si può raggruppare nell'
"acchiappatutto" d'informazione, deve essere trattato
come una merce come le altre, alla quale devono essere applicate
le stesse regole che a qualunque altro prodotto; e che questo
prodotto industriale standard deve dunque obbedire alla legge
comune, la legge del profitto, al di fuori di tutte le eccezioni
culturali sanzionate da limiti regolamentari (come il prezzo unico
di un libro o le quote di distribuzione). Ci è stato detto
infine che la legge del profitto, cioè la legge del mercato,
è eminentemente democratica, poiché sanziona il
trionfo del prodotto che è stato portato a plebiscito dalla
maggioranza.
A ciascuna di queste idee si potrebbe opporre, non delle idee,
col rischio di apparire come un ideologo perduto nelle nuvole,
ma dei fatti: all'idea di differenziazione e di diversificazione
straordinaria dell'offerta, si potrebbe opporre la straordinaria
uniformità dei programmi di televisione, il fatto che le
reti multiple di comunicazione tendono sempre più a diffondere
lo stesso tipo di prodotti, giochi, soap operas, musica commerciale,
romanzi sentimentali del tipo telenovelas, telefilm polizieschi
che non guadagnano niente, anche ad essere francesi, come Navarro,
o tedeschi, come Derrick, altrettanto dei prodotti usciti dalla
ricerca del profitto massimo con costi minimi, o, in tutt'altro
dominio, l'omogeneizzazione crescente dei giornali e soprattutto
dei settimanali.
Altro esempio, alle "idee" di concorrenza e di diversificazione,
si potrebbe opporre il fatto della concentrazione straordinaria
dei gruppi di comunicazione, concentrazione che, come mostra la
più recente fusione, quella di Viacom e di CBS, un gruppo
orientato verso la produzione dei contenuti e un gruppo orientato
verso la distribuzione, sfocia in una integrazione verticale tale
quale la distribuzione che comanda la produzione.
Ma l'essenziale è che le preoccupazioni commerciali, e
in particolare, la ricerca del profitto massimale a breve termine
si impongono sempre più e sempre più largamente
all'insieme delle produzioni culturali. Così, nel campo
dell'edizione di libri, che ho studiato di recente, le strategie
degli editori, e specialmente dei responsabili dei grandi gruppi,
sono orientati senza equivoco verso il successo commerciale.
E' qui che dovremmo cominciare a porre delle domande. Ho appena
parlato di produzioni culturali. E' ancora possibile oggi, e sarà
ancora possibile a lungo di parlare di produzioni culturali e
di cultura? Quelli che fanno il nuovo mondo della comunicazione
amano evocare il problema della velocità, dei flussi d'informazione
e delle transazioni che diventano sempre più rapide, e
senza dubbio hanno parzialmente ragione quando pensano alla circolazione
dell'informazione e alla rotazione dei prodotti. Detto questo,
la logica della velocità e del profitto che si riuniscono
nel perseguimento del profitto massimale a breve termine (con
l'Audience per la televisione, il successo di vendita per il libro
- e, evidentemente, il giornale - il numero di anni per il film)
mi sembrano incompatibili con l'idea di cultura. Quando, come
diceva Ernst Gombrich, le "condizioni ecologiche dell'arte"
sono distrutte, l'arte e la cultura non tardano a morire.
Per prova, potrei contenermi nel menzionare ciò che ne
è stato del cinema italiano, che fu uno dei migliori al
mondo e che non sopravvive più che attraverso un piccolo
pugno di cineasti, o del cinema tedesco, o del cinema dell'Europa
dell'Est. Oppure la crisi che conosce ovunque il cinema d'autore,
fatto come noto di circuiti di distribuzione. Senza parlare della
censura che i distributori di film possono imporre a certi film,
di cui il miglior esempio è quello di Pierre Carles.
O ancora, il destino di tale canale di radio culturale, oggi lasciata
alla liquidazione nel nome della modernità, dell'Audience
e delle connivenze mediatiche.
Ma non si può capire veramente quello che significa la
riduzione della cultura allo stato di prodotto commerciale se
non ci si ricorda come si sono costituiti gli universi di produzione
delle opere che noi consideriamo come universali nel campo delle
arti plastiche, della letteratura o del cinema. Tutte queste opere
che sono esposte nei musei, tutte le opere di letteratura divenute
classiche, tutti i film conservati nelle cinemateche, sono il
prodotto di universi sociali che si sono costituiti poco a poco,
liberandosi delle leggi del mondo ordinario, e in particolare
della logica del profitto. Per fare comprendere, un esempio: il
pittore del Quattrocento ha dovuto - si sa dalla lettura dei contratti
- lottare contro i committenti affinché la sua opera cessasse
di essere trattata come un semplice prodotto, valutata a seconda
della superficie pitturata e del prezzo dei colori impiegati;
egli ha dovuto lottare per ottenere il diritto alla firma, vale
a dire il diritto di essere trattato come un autore, e anche per
quello che sono, solo da recente data, i diritti d'autore (Beethoven
lottava ancora per questo diritto); ha dovuto lottare per la rarità,
l'unicità, la qualità; ha dovuto lottare, con la
collaborazione dei critici, delle biografie di professori di storia
dell'arte, ecc., per imporsi come artista, come "creatore".
Ora, è tutto questo che si trova minacciato oggi attraverso
la riduzione dell'opera ad un prodotto e ad una merce. Le lotte
attuali dei cineasti per il "final cut" (taglio finale)
e contro la pretensione del produttore a detenere il diritto finale
sull'opera, sono l'equivalente esatto delle lotte del pittore
del Quattrocento. Ci sono voluti quasi cinque secoli al pittore
per conquistare il diritto di scelta dei colori impiegati, il
modo di impiegarli, poi, infine, il diritto di scegliere il soggetto,
in particolare nel farlo scomparire, con l'arte astratta, a grande
scandalo dei committenti borghesi; allo stesso modo, per avere
un cinema d'autore, bisogna avere tutto un universo sociale, delle
piccole sale e dei cinema proiettanti film classici e frequentati
da studenti, dei cinéclub animati da professori di filosofia
cinefili formati dalla frequentazione di queste sale, di critici
esperti che scrivono nei "Cahiers du cinema" (quaderni
del cinema), dei cineasti che hanno appreso il loro mestiere guardando
film di cui rendevano conto in quei Cahiers; in breve, tutto un
ambito sociale nel quale un certo cinema di valore, è riconosciuto.
Sono questi universi sociali che sono oggi minacciati dall'irruzione
del cinema commerciale e dal dominio dei grandi distributori,
dove i produttori stessi oggi si trovano coinvolti in un processo
d'involuzione, una sorta di marcia indietro, anziché in
avanti, dall'opera al prodotto, dall'autore all'ingegnere o al
tecnico utilizzando risorse tecniche, i famosi effetti speciali,
e "vedettes", gli uni e gli altri estremamente costosi,
per manipolare o soddisfare la pulsione primaria dello spettatore
(spesso anticipata grazie alle ricerche di altri tecnici, gli
specialisti in marketing).
Reintrodurre il regno del commerciale negli universi che sono
stati costruiti, poco a poco, contro di esso, è mettere
in pericolo le opere più alte dell'umanità, l'arte,
la letteratura, e anche la scienza. Non posso pensare che qualcuno
possa volere realmente questo. Ecco perché, esordivo inizialmente
con la celebre formula platonica "nessuno è malvagio
volontariamente". Se è vero che le forze della tecnologia
alleata con le forze dell'economia, la legge del profitto e della
concorrenza minacciano la cultura, cosa si può fare per
contrastare questo movimento? Che si può fare per rinforzare
le possibilità di quelli che non possono esistere che nel
lungo tempo, quelli che, come i pittori impressionisti in altri
tempi, lavorano per un mercato postumo?
Vorrei convincere, ma mi ci vorrebbe senza dubbio molto tempo,
che la ricerca del profitto immediato massimale, non è
necessariamente, quando si tratta di libri, di film o di pittura,
obbedire alla logica dell'interesse ben conosciuto: identificare
la ricerca del profitto massimale alla ricerca del pubblico massimale,
è esporsi a perdere il pubblico attuale senza conquistarne
un altro, é perdere il pubblico relativamente ristretto
della gente che legge molto, frequentano molto i musei, i teatri,
i cinema, senza guadagnare altri nuovi lettori o spettatori occasionali.
Se si sa che, almeno in tutti i paesi sviluppati, la durata della
scolarizzazione non cessa di crescere, così come il livello
di istruzione medio, come crescono allo stesso modo tutte le pratiche
fortemente correlate al livello d'istruzione (frequentazione dei
musei o dei teatri, lettura ecc), si può pensare che una
politica d'inversione economica in produttori di prodotti di qualità
possa, almeno a medio termine, essere redditizia, anche economicamente
(a condizione tuttavia di poter contare su servizi di un sistema
educativo efficace).
Anche la scelta non è tra la "mondializzazione"
cioè la sottomissione alle leggi del commercio, dunque
al regno del commerciale, che è sempre il contrario di
quello che si intende all'incirca universalmente per cultura,
e la difesa delle culture nazionali o tali forme di nazionalismo
o localismo culturale. I prodotti kitsch della mondializzazione
commerciale, quella dei jeans o della Coca-Cola o della soap opera,
o quella dei film commerciali a grande spettacolo e a effetti
speciali, o ancora quella della "world fiction", di
cui gli autori possono essere italiani o inglesi, si oppongono
sotto tutti i rapporti ai prodotti dell'internazionale letterario,
artistico e cinematografico, di cui il centro è ovunque
e da nessuna parte, anche se è stato molto a lungo, ed
è tuttora forse ancora a Parigi, luogo di una tradizione
nazionale d'internazionalismo artistico, allo stesso tempo che
a Londra e a New York. Allo stesso modo in cui Joyce, Faulkner,
Kafka, Beckett o Gombrowicz, prodotti puri d'Iralnda, degli Stati
Uniti, della Cecoslovacchia o della Polonia, si erano formati
a Parigi, anche numerosi cineasti contemporanei come Kaurismaki,
Manuel de Oliveira, Saatyajit Ray, Kieslowski, Woody Allen, Kiarostami,
e tanti altri, non esisterebbero come esistono senza questa internazionale
letteraria, artistica e cinematografica, di cui la sede sociale
è situata a Parigi. Senza dubbio perché è
là che, per ragioni strettamente storiche, il microcosmo
di produttori, di critici e di ricettori esperti necessario alla
sua sopravvivenza si è costituito da molto tempo, ed è
riuscito a sopravvivere.
Ci vogliono, ripeto, molti secoli per produrre dei produttori
che producano per mercati postumi. E' il modo sbagliato di porre
il problema opporre, come si fa spesso, una "mondializzazione"
e un mondialismo che sarebbero dalla parte della potenza economica
e commerciale, e anche del progresso e della modernizzazione,
a un nazionalismo, attaccato a forme arcaiche di conservazione
e di sovranità. Si tratta infatti di una lotta tra una
potenza commerciale mirata a estendere all'universo gli interessi
particolari del commercio e di quelli che lo dominano e una resistenza
culturale, fondata sulla difesa di opere universali prodotte dall'Internazionale
snazionalizzata dei creatori.
Finirò con un aneddoto storico, che ha anche rapporto con
la velocità, e che spiegherà bene, secondo me, quello
che dovrebbero essere le relazioni che un'arte affrancata da pressioni
del commercio potrebbe intrattenere con i poteri temporali. Si
narra che Michelangelo metteva così poca forma protocollare
nei suoi rapporti con il Papa Giulio II, suo committente, che
questo era obbligato di sedersi velocemente per evitare che Michelangelo
non si sedesse prima di lui. In un certo senso, si potrebbe dire
che ho cercato di perpetuare qui, molto modestamente, ma molto
fedelmente, la tradizione inaugurata da Michelangelo, di distanza
rispetto ai poteri, e, specialmente, di questi nuovi poteri che
sono le potenze coniugate dal denaro e dai media.
(Traduzione dal Francese di Simona Cappellini)
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