LA LAVAGNA DEL SABATO -
12 ottobre 2002
LA
GUERRA PREVENTIVA
Lucio
Magri
In modo pacato e razionale - basandomi cioè su innegabili
elementi di fatto organizzati in un ragionamento, e risparmiando
princìpi pur importanti o pur ragionevoli supposizioni
- vorrei sostenere una tesi molto radicale. Che è la seguente.
Di fronte alla guerra all'Iraq e nel contesto in cui si colloca
è giustificato, utile e necessario solo un 'no' secco e
immediato. Ogni complemento che lo precisi ponendo condizioni
circa il modo o il chi, che temporeggi nella speranza che poi
non ci si arrivi, che si limiti a contestarne l'efficacia - persino
ogni rifiuto che lo stemperi in una scelta morale in nome del
principio della non violenza, fuori dal tempo e dallo spazio -
in questo momento non solo è insufficiente a fermare il
corso delle cose, ma al contrario funziona come una copertura,
fino alla complicità. Il copione infatti è ormai
in scena e il messaggio complessivo è inequivocabile.
È
un copione già visto, ricorda drammi recenti, ma richiama,
pur tra tante differenze, addirittura gli anni più foschi
del secolo scorso.
Una tragedia in tre atti:
Atto primo: L'invenzione di un sopruso a cui reagire o
di una minaccia cui far fronte. Una minaccia tanto grave e tanto
incombente da legittimare non solo una "guerra giusta",
ma una "guerra giusta" preventiva. Questa era
la premessa necessaria, e una gigantesca macchina propagandistica
sta già tentando di farla penetrare nel senso comune ancora
dubbioso, senza essere a sufficienza contrastata. Saddam vuole
presto scatenare un'offensiva, non solo in Medio Oriente ma contro
tutto l'Occidente, ha accumulato o sta per acquisire i mezzi di
distruzione di massa per sferrarla, occorre fermarlo in tempo,
prima che l'intenzione possa essere messa in atto. Intervenire
subito per impedirglielo è pertanto un passaggio cruciale
e necessario della lotta al terrorismo e agli Stati che lo sostengono.
Nessuno degli elementi di questa tesi ha sia pure un minimo di
rapporto con la realtà.
La forza aggressiva che l'Iraq sta per 'mettere in campo' non
solo non è infatti provata, ma è smentita anche
da personaggi e settori dell'establishment interno al fronte di
chi la guerra vorrebbe farla al più presto.
Una commissione apposita dell'Onu, che doveva fare una ricognizione
dello stato reale del potenziale militare iracheno dopo la guerra
del Golfo, concluse che essa era ormai ridotta al dieci per cento
di quella precedente e che pure era stata rapidamente sbaragliata
con centinaia di migliaia di morti iracheni e 28 morti tra gli
occidentali (di cui non pochi per gli incidenti). L'Iraq non ha
avuto successivamente una struttura industriale per ricostruire
quella forza, né i mezzi finanziari per acquistare consistenti
e moderni armamenti per renderla più efficiente. Il capo
degli ispettori che pure hanno lavorato per anni a una verifica,
ha solennemente dichiarato che l'Iraq oggi è meno potente
e peggio armato di allora. L'istituto inglese di ricerche strategiche
e militari - la più autorevole autorità in materia
da parte occidentale - afferma più o meno la stessa cosa.
Ma anche se in parte sbagliassero valutazione e Saddam fosse riuscito,
nell'ombra, ad acquistare qualche semimoderna e arronzata arma
di distruzione, certamente egli non ha i mezzi per usarla se non
poco oltre i suoi confini e solo per un orrendo atto dimostrativo,
esponendosi però in poche ore alla totale distruzione,
oltre che di sé e dei suoi fidi, dell'intero Iraq, da parte
dei paesi limitrofi (Israele, anzitutto, come potenza atomica)
e degli americani già militarmente presenti nell'area.
Sarebbe l'atto di una sorta di kamikaze a scala gigantesca.
Quale plausibilità si può attribuire a questa improvvisa
trasmutazione di un dittatore senza princìpi, ossessionato
dalla continuità e dalla stabilità del suo regime,
ormai quasi ereditario, in un nuovo Bin Laden promotore della
più disperata guerra sante e personalmente pronto al sacrificio?
I pessimi precedenti in questo caso non valgono, anzi dimostrano
il contrario. Il regime iracheno è esecrabile per ottimi
motivi: ha massacrato i suoi oppositori in modo preventivo (comunisti
anzitutto, poi minoranze musulmane o etniche, fino a membri della
sua stessa famiglia e tribù); ha aggredito l'Iran (un milioni
di morti) con l'appoggio americano; ha infine invaso il Kuwait
per allargare il suo potere economico e politico nella regione
(rompendosi le corna e cercando poi di sopravvivere), pur pagando
il prezzo di dieci anni di bombardamenti contro cui non poteva
reagire e di sanzioni che hanno decimato il suo popolo e la sua
economia. E perdendo influenza non solo tra i governi, ma anche
tra i popoli arabi, palestinesi compresi. Cosa lascia sospettare
la sua propensione al martirio? Perfino un fanatico come Hitler
ha esitato di fronte alla guerra prima di poter avere la speranza,
militare e politica, di vincerla.
Vogliamo allora ridurre l'imputazione all'ipotesi che più
semplicemente egli voglia coprire e dotare di mezzi terribili
per servirsene ai suoi fini di potenza regionale frustrata, il
terrorismo islamico? Anche questa ipotesi non regge un minuto.
Il capo attuale dei servizi segreti francesi ha spiegato su "Le
monde" che al Qaeda sopravvive alla guerra in Afghanistan
, e vi ha reagito decentrando i suoi uomini in una rete diffusa
in molti paesi, anche in Occidente, ma soprattutto là dove
esistono forze fondamentaliste - da alimentare per farsi proteggere
ora e per reagire più tardi. Tra i paesi infiltrati da
lui citati manca proprio l'Iraq: non a caso, ma per il carattere
repressivo e monocratico di quel regime, per la sua matrice laica,
per la sua frammentazione religiosa.
Ma ammettiamo pure che tutto ciò non basti a tranquillizzare
l'Occidente dopo il trauma dell'11 settembre. C'è una soluzione
molto semplice: l'invio di nuovi ispettori dell'Onu, con piena
libertà di verifica, offrendo in partenza garanzie precise
sulla loro oggettività e autonomia di giudizio, e offrendo
in cambio, in prospettiva, la fine di sanzioni a quel punto senza
ragione. Ma questa soluzione implica l'iniziativa si un soggetto
terzo, in questo caso l'Onu, e una soluzione politica e diplomatica
negoziata. L'esatto contrario di ciò che è stato
già deciso dall'Onu per medicinali e viveri - e sono state
mantenute in piedi proprio per iniziativa di coloro che chiedono
oggi il rispetto delle decisioni dell'Onu. Una soluzione politica
dunque c'è, come e anzi molto di più facile che
a Rambouiller, ma non la si vuole neppure tentare.
Ecco perché tutti coloro che oggi chiedono "maggiori
prove prima di passare alla guerra" - o quelli che chiedono
soluzioni politiche e intanto accettano la tesi della "minaccia
incombente" imbrogliano se stessi e l'opinione pubblica,
aprono alla guerra il primo varco essenziale. Il primo atto del
dramma sta così per concludersi.
Atto secondo: l'ultimatum. Non si deve e non si può
fare una guerra "unilaterale". cioè non concordata
tra gli alleati nella lotta al terrorismo, senza un mandato, una
legittimazione dell'Onu, dicono i più risoluti; "nel
quadro dell'Onu", dicono quelli che già si impegnano
a sostenere comunque le scelte finali americane. Ma cosa si chiede
all'Onu e cosa si sta tentando di imporre all'Onu? Un vero ultimatum:
immediato rientro degli ispettori, senza condizioni si aggiunge,
e senza trattative; se l'ultimatum sarà respinto la parola
passerà alla forza.
Già in sé è una richiesta insensata. Insensata
perché è troppo e troppo poco. Troppo, perché
l'Onu non può emettere un vero ultimatum, dato che la sua
carta costitutiva esplicitamente esclude la legittimità
di un conflitto armato se non come risposta difensiva ad un attacco
già iniziato (e infatti un mandato in questo senso fu possibile
solo - in modo peraltro tormentato - di fronte a due invasioni
già in atto oltre i confini di Stati riconosciuti: la Corea
e il Kuwait. L'Onu può solo formulare risoluzioni impegnative,
come quelle reiterate più volte contro l'occupazione israeliana
dei territori palestinesi, il cui rispetto gli americani stessi
attivamente hanno sabotato. Oppure l'Onu può fornire altrettanto
impegnativi accordi multilaterali, come quello sulla non proliferazione
delle armi nucleari, che gli americani trasgredirono o permisero
di trasgredire ai loro fedele (Israele, Pakistan, ecc).
Troppo poco, perché un ultimatum non definirebbe né
chi, né come, né fino a quale sbocco dovrebbe essere
gestita una 'guerra preventiva' - anzi, nel caso attuale già
si accompagna ad una concentrazione di massicce armate americane
e inglesi sul teatro del conflitto, come elemento di pressione
-, e finirebbe con il lasciare alla decisione unilaterale delle
forze in campo tutte le decisioni successive.
Chi chiede dunque un ultimatum, e chiede "di agire nel quadro
dell'Onu", mente, o meglio predispone una "legittimazione"
fasulla e a posteriori che sovverte dalle radici l'ordine internazionale.
Chiede un atto illegittimo, un mandato in bianco, anche se si
riuscisse ad evitare un veto nel consiglio di sicurezza, tanto
più se si dovesse passarci sopra. Questo "secondo
atto" del copione - nel momento in cui scriviamo, cioè
dopo il discorso di Bush sostenuto da Blair e tra altri da Berlusconi
- sta già andando in scena.
Terzo atto: Proclamato un ultimatum, si aprirà la
strada alle sue diverse interpretazioni, e ai diversi giudizi
sul se e sul quanto esso sia stato, o si avvii a essere effettivamente
rispettato (è già avvenuto in passato sulla questione
degli ispettori e delle sanzioni). Così diventa facile,
quasi scontato, che incidenti, sommosse interne vere o presunte,
o provocazioni bene o male preparate, consentano a chi già
lo vuole di passare subito e da solo a vie di fatto, andando presto
e automaticamente oltre la questione del "disarmo" da
imporre, arrivando subito a una guerra totale che - per rovesciare
un regime (il vero obbiettivo) - massacri un paese e diventi poi
arbitro del suo futuro assetto, fino a un protettorato permanente.
È già avvenuto nel caso del Kosovo (dal fallimento
programmato della trattativa, all'intervento "umanitario"
per fermare la pulizia etnica, allo smantellamento generale della
Serbia, alla fine imposta dalla federazione jugoslava, all'impianto
permanente delle basi americane). Più sinistramente, l'intero
copione riproduce esattamente le antiche vicende dell'Anschluss,
della cancellazione della Cecoslovacchia, del corridoio di Danzica.
C'è
un ragionamento ancora più importante da fare, anch'esso
fondato non su supposizioni, ma su fatti incontrovertibili e conosciuti
da tutti. Riguarda il nesso tra l'intervento in Iraq e la dottrina,
la strategia generale che lo giustificano e lo chiariscono.
Anche qui il dubbio non è lecito.
Ancor prima dell'11 settembre, tanto più esplicitamente
dopo, Bush - e particolarmente il suo vicepresidente, il suo ministro
della difesa e il suo consigliere per la sicurezza - hanno annunciato
una svolta generale nella politica estera americana. Il loro discorso
è brutale ed ha il merito della chiarezza. Vale dunque
la pena di riprenderlo. Si scrive, si dice, si ripete: dopo la
fine della guerra fredda il mondo è rimasto senza un governo,
ma non per questo senza conflitti, esso è e sarà
percorso da antagonismi economici, sociali, geopolitici che nel
lungo periodo, ma solo nel lungo periodo, lo sviluppo delle risorse
economiche assicurato dal mercato e la generalizzazione delle
democrazie rappresentative possono e debbono gradualmente e fino
a un certo punto comporre. Ma nel frattempo questo processo non
può avvenire senza ordine e stabilità politica,
anzi, in mancanza di un potere forte e dotato di mezzi coercitivi
adeguati, si moltiplicheranno aree di crisi, episodi di sovversione,
prolifereranno di fondamentalismi etnici e religiosi, di cui il
terrorismo è la espressione fatale e la conseguenza.
L'idea di neutralizzare il terrorismo o di comporre le crisi regionali,
rimuovendone le cause lontane e profonde, è pertanto un'illusione
totale. Al contrario, estirpare il terrorismo con la repressione
senza limiti, e rovesciare gli stati che direttamente o anche
indirettamente contribuiscono al disordine, resistono al mercato
e non si adeguano ai valori e alle regole del modello politico
e culturale oggi di valore universale è la condizione preliminare
per assicurare la soluzione dei problemi reali del mondo e garantirgli
un futuro migliore.
Gli Stati Uniti rappresentano la migliore approssimazione di questo
modello da esportare, e solo essi hanno i mezzi necessari per
garantire l'ordine. A condizione di mantenere una supremazia militare
permanente e soverchiante, di esibirla sul campo come deterrente
assoluto, di non poterla usare senza vincoli. Parole come "guerra
di lunga durata", "paesi canaglia", "missione
americana", hanno un senso in questo ragionamento.
E non è solo una dottrina annunciata. Già si è
tradotta in un chiaro progetto di ristrutturazione della spesa
militare, con un nuovo gigantesco finanziamento programmato, con
l'innovazione dei sistemi d'arma, dei modelli organizzativi, nella
dislocazione delle forze. Gli Stati Uniti devono essere non solo
i più forti, ma capaci di intervenire subito e ovunque,
di fare guerre senza dover subire vittime o perdite, e di poterlo
fare a loro criterio - "legibus soluti" (in parte anche
all'interno del loro campo e del loro paese). E già si
è manifestata con atti concreti in altri campi: il rifiuto
di una corte internazionale che possa imputare loro crimini di
guerra, il rifiuto di vincoli anche molto limitati a proposito
dell'ambiente, le svolte "preventive" quali il sostegno
alla violenza e all'intransigenza di Sharon, i primi segni di
svolta in Venezuela, Colombia, in tutta l'America Latina e l'Asia
centrale.
A
questo punto resistere all'intervento armato in Iraq e contemporaneamente
ribadire la convergenza strategica con la politica americana,
anche nella sua attuale versione, come fa ancora tanta sinistra
di casa nostra, è un puro segno di cecità e di opportunismo,
e finisce con il togliere all'opposizione la sua arma più
importante ed efficace verso Bush, cioè il rischio di una
crisi nei suoi rapporti con l'Europa.
Non voglio dire con questo che anche incrinature, riserve parziali,
nel fronte moderato, siano prive di significato. O che il corso
delle cose sia già definito in partenza, immodificabile,
e il disegno attuale degli Stati Uniti non incontri difficoltà
e sia destinato al successo.
C'è, per l'immediato, un'opinione pubblica in Europa, e
anche negli Stati Uniti, ben più perplessa e incerta che
mai prima d'ora: sull'utilità della guerra e sul valore
universale del modello americano. C'è nel mondo arabo una
difficoltà ad allinearsi ben più grande che rispetto
alla guerra del golfo e quella in Afghanistan. La Cina e la Russia
non possono non avvertire che la dottrina Bush nel lungo termine
le riguarda direttamente. La critica e l'autocritica dell'americanismo
entusiasta e dell'occidentalismo acritico, nel mondo intellettuale,
dopo un picco emotivo, è in netta ripresa: basta leggere
la stampa internazionale o vedere i film sull'11 settembre dopo
un anno.
Voglio solo dire che siamo a un confine oltre il quale la prudenza
o la reticenza ora si separano del realismo, perdono efficacia,
compromettono il futuro. Con questo intervento si tornerebbe indietro
di secoli, quanto alla percezione della guerra nel senso comune,
ma ormai in un epoca nella quale i mezzi avveniristici di sterminio
assumono una portata inimmaginabile. E al tempo stesso si varca
un confine oltre il quale la lotta contro la guerra ridiventa
non solo affare di minoranze o questione morale, ma torna a presentarsi
come l'incrocio tra tutte le altre, connette problemi di libertà,
di legalità, di giustizia sociale, di sopravvivenza del
genere umano. Perciò essa può raccogliere il consenso
di una maggioranza, unire movimenti e culture diverse, Nord e
Sud del mondo, offrire finalmente un nuovo punto di partenza per
ricostruire su nuove basi una sinistra oggi smarrita e divisa,
per tessere nuove alleanze senza perdere l'identità culturale
e programmatica. Una prima discriminante insomma per ristabilire
una differenza reale e non nominalistica tra destra e sinistra.
Anche questo è già accaduto in un passato non troppo
lontano, quando tutto sembrava ormai compromesso.
Non credo che questa speranza, per quanto ancora esile, sia priva
di fondamento.
Prendiamo come esempio la vicenda che meglio conosciamo, sulla
quale possiamo incidere. In Italia e in Europa una nuova destra
ha assunto, in pochi anni, il governo di molti e grandi paesi
del continente. Lo avevamo previsto e ne abbiamo parlato a lungo.
Perché non si è trattato solo di un'oscillazione
elettorale, ma dell'approdo di una conquistata egemonia e della
costruzione di un blocco di forze sociali, che ha unito masse
disorientate e deluse con poteri interni e internazionali dotati
di imponenti strumenti. E da tutto ciò le forze di sinistra
sono state infiltrate o conniventi, uscendone con le ossa rotte.
Ma in breve volgere di tempo, per una classe dirigente ancora
più incapace di quanto la si immaginasse, e per una crisi
economica che la stringe rendendola molto più avventurosa,
aggressiva ma anche più vulnerabile, la situazione per
la destra vittoriosa è cambiata non poco.
Mi azzardo a dire che si tratta di qualcosa di più di un
disagio. Il governo non appare solo screditato, e non importano
molto le sue incertezze e interne divisioni. Esso ormai fatica
a tenere insieme il suo blocco sociale, populismo e liberismo.
Cominciano quindi ad emergere gli elementi e le premesse di una
competizione vera tra due schieramenti politici e sociali.
È nato un movimento di massa che ha un orizzonte e connessioni
mondiali e, sia pure confusamente è riuscito a riportare
in primo piano nel sentimento delle masse, nelle élites
intellettuali. negli stessi partiti, i grandi e drammatici problemi
della società postindustriale: disuguaglianze, esclusione,
precarietà del lavoro, degrado ambientale, degenerazione
delle istituzioni. La crisi economica, quale che ne sia l'evoluzione
prossima futura, ha riaperto in tutti un dubbio se non sul capitalismo
in generale almeno sull'attuale assetto capitalistico: neoliberista
e neoimperiale.
A questo movimento più radicale, se ne sono poi affiancati
- soprattutto in Italia ma non solo - altri: una ripresa imponente
delle lotte dei lavoratori in difesa dei loro diritti, delle loro
condizioni materiali, dello stato sociale; e una inattesa mobilitazione
di moderni medi ceti, anche moderati, ma ormai animatissimi da
un rifiuto intransigente del berlusconismo e dall'esigenza di
restaurare legalità e democrazia. Un'opposizione che cresce,
e si fa vedere.
Ho sentito molto dire che - secondo costituzione - non è
con la piazza che si cambiano legalmente i governi. Altri rispondere
che i movimenti non sono solo un diritto ma un utile stimolo.
Cose ovvie ma in cui sfugge l'essenziale. da sempre il movimento
operaio e la sinistra hanno creato con lotte permanenti le basi
della democrazia, legato ampie masse a solide appartenenze ideali
e politiche, spostato o orientato l'opinione incerta e passiva.
Oggi tutto ciò è più vero che mai: perché
solo una democrazia partecipata, radicata in lotte, esperienze
e discussioni collettive, può costruire nuove maggioranze
contro un sistema informativo completo, compatto e monocratico,
in una società atomizzata, con i poteri di fatto sottratti
largamente alla sovranità popolare.
E infatti è questo risveglio di partecipazione che sta
spostando l'opinione, evoca una nuova leadership (la meritata
popolarità del nuovo Cofferati), condiziona un ceto politico
quasi agonizzante e penetra in forze politiche incapaci di autoriforma.
Ma tutto ciò è ancora lontano dal garantire una
vittoria elettorale e soprattutto una alternativa, di esprimere
cioè un progetto riformatore complessivo e ambizioso e
assicurargli un consenso duraturo, di fronteggiare il quadro mondiale.
I movimenti sono comunicanti ma non convergenti, il loro radicamento
diffuso, la loro capacità di azione quotidiana restano
limitati, gruppi dirigenti e culture approssimativi. Nella sinistra
politica moderata si offre un leader carismatico, determinato
nella lotta difensiva, ma incerto o prudente nel definire una
prospettiva: e il dibattito, la riflessione, l'iniziativa non
riescono ad andare oltre i confini di un restauro dell'ulivo del
'96. La sinistra alternativa, che pure ha spesso visto e previsto
giusto, resta minoritaria, frammentata, autoreferenziale, comunque
non egemone. Parlo non solo dell'Italia, ma tanto più dell'Europa,
dimensione senza la quale non c'è spazio vitale.
Bene, in questo circolo vizioso tra pericoli che si aggravano
e occasioni che non si riesce pienamente e rapidamente a cogliere,
la questione che oggi irrompe sulla scena - quella della nuova
guerra - diventa decisiva. Può travolgere quello che resta
di spazio democratico. O al contrario invertire una tendenza.
La "grande alleanza" del tutto subalterna agli Stati
Uniti e al loro progetto, e di cui l'Europa è un pilastro,
si è ora incrinata: la Francia, alcuni paesi nordici, la
stessa comunità europea vi riluttano, la Germania vi si
oppone. L'opinione pubblica è ovunque in maggioranza diffidente.
In Inghilterra il sindacato e una forte minoranza laburista contrastano
le scelte di Blair. La Cgil in Italia e molte organizzazione cattoliche
hanno preso una posizione netta di rifiuto, le manifestazioni
di piazza convergono: al precipitare delle cose, l'Ulivo può
esserne letteralmente sconvolto.
Un grande, tragico appuntamento dunque, come in passato, sul quale
si ridefiniscono identità, collocazioni, raggruppamenti
politici e sociali. Ma appunto perciò occorre che il pronunciamento
di ciascuno sia netto, sia consapevole delle sue ragioni profonde
e delle sue implicazioni future. E sia pronunciato subito, per
influire sul corso delle cose prima che la moderna macchina mediatica
e l'antico ricatto patriottardo riconducano la maggioranza nella
palude.
A me paiono buone ragioni per assumere questa come discriminante
prioritaria tra chi sta da una parte o dall'altra, alla quale
quindi subordinate oggi e per il prossimo futuro ogni alleanza
elettorale, ogni programma di governo, ogni appartenenza organizzativa.
I bulli romani della tradizione dicevano; "prima meno, poi
discuto". Da buoni pacifisti diciamo più mitemente:
prima contrastare questa guerra annunciata, fato in tempo tutto
ciò che potete per evitarla e poi discuteremmo.
(Tratto dalla rivista del Manifesto - Ottobre 2002)
Le "Lavagne del Sabato" finora uscite sono tutte consultabili
a partire da questa pagina di Annamaria Manna, guida nel portale
di SuperEva per l'argomento "Scrittura Creativa".
Basta cliccare sul Link:
http://guide.supereva.it/scrittura_creativa/interventi/2002/07/114216.shtml
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