I DUE CALABRESI


Walkiria Terradura


Non so perché ne scrivo, considerato che ho da dirne così poco: l'ho conosciuti appena, ho parlato con loro non più di due o tre volte, anche se li ho visti spesso di lontano andare solitari lungo i sentieri sui monti. Indossavano la divisa grigioverde - forse non avevano trovato chi potesse dargli degli indumenti civili o forse essi stessi si erano fatti scrupolo di accettarli - avevano la barba lunga e un'aria spenta che mi faceva ricordare con ironia i vaneggiamenti mussoliniani su questo nostro popolo di santi, di navigatori, di eroi.
Come tutti noi anche questi due altri ragazzi fuggitivi non erano certo degli eroi: ci ritrovammo insieme alla macchia per sfuggire - almeno all'inizio - la rabbia dei nazisti e le loro vendette.
La prima volta che gli parlai fu per chiedergli chi fossero e da dove venissero: mi risposero di essere calabresi, ex militari - come potevo ben vedere dalla divisa che indossavano - di aver deciso, dopo l'armistizio, di non tornare nella loro Regione per paura di cadere prigionieri dei tedeschi che controllavano strade e ferrovie, di essersi fermati sui monti in attesa di tempi migliori.
Il più giovane dei due aggiunse che comunque egli non avrebbe potuto farcela a superare le difficoltà di un viaggio così lungo, in gran parte da effettuare a piedi, perché soffriva di malaria, con frequenti attacchi di febbre che gli toglievano ogni forza, ma che per fortuna il suo compaesano aveva deciso di non lasciarlo solo.
Disse anche che si erano conosciuti in Caserma, che erano diventati subito amici e che si erano sentiti uniti e solidali specie quando altri commilitoni, provenienti da Regioni diverse, ridevano di loro chiamandoli africani e del loro dialetto chiuso e sonnolento che - dicevano - era il loro inconfondibile marchio di terroni.
Dopo qualche tempo li incontrai in un bosco dove si erano fermati a riposare. Non mi avevano sentito arrivare e mi guardarono sorpresi.
Gli sedetti accanto e cominciammo a parlare un po' di tutto: poi mi sembrò che non avessimo più niente da dirci e allora gli chiesi se la Calabria fosse davvero bella come qualcuno mi aveva detto.
Alla mia domanda risposero con un entusiasmo che non mi aspettavo.
Mi descrissero la loro terra assolata, le vigne tra le rocce, gli aranceti opulenti come quelli di Sicilia, i grandi ulivi dai cui frutti si ricavava un olio verde e saporoso al cui confronto quello prodotto in altre regioni risultava sciapo come l'acqua. La loro campagna odorava di origano e di menta selvatica, esplodeva violenta nel rosso dei peperoncini e dei papaveri, le loro montagne erano alte e ricche di boschi, dal loro mare trasparente riaffioravano talvolta statue di eroi e di Dei sconosciuti, cacciati negli abissi dalle vicende della storia.
Tacquero sulle zone della pianura dove in gran parte regnava la malaria: forse amavano tanto la loro terra che non vollero parlarmene per non sminuirne la bellezza.
La loro gente era povera e generosa e spesso qualche poeta contadino traduceva in versi il suo pianto antico, ma anche la sua speranza di felicità. Come smisero di parlare approvai entusiasta ciò che ora l'uno e ora l'altro mi avevano detto e improvvisamente scomparve tra noi ogni residua diffidenza. Prima di andarmene gli chiesi se avessero trovato una casa dove alloggiare stabilmente, ma mi risposero di no.
Non ho mai capito perché non avessero chiesto ospitalità a qualche famiglia della zona, come tutti noi avevamo fatto: oggi io penso che forse il ragazzo malato si vergognasse della sua infermità o che non volesse imporla. Ed è sempre per questa sua malattia che io penso non abbia voluto entrare in nessuna delle squadre partigiane che si andavano formando, certo di essere di peso e non di aiuto.
Dormivano dovunque, nelle stalle, nei fienili, tra i pagliai: i cani avevano imparato a riconoscerli e non gli abbaiavano contro, anzi gli si avvicinavano festosi, mugolando e dimenando la coda.
Poi qualcuno disse che avevano trovato una grotta nella parte più alta del Burano dove avevano nascosto una gran quantità di cibo e dove, come gli antichi briganti del loro paese, andavano solo di notte perché nessuno scoprisse il loro rifugio, ma presto capii che queste voci non erano altro che stupide fantasie. Seguitavano infatti ad offrire ai contadini il loro lavoro in cambio di qualcosa, da mangiare e ad andare raminghi, spostandosi da un luogo all'altro alla ricerca di un posto dove passare la notte.
In primavera, dopo mesi, li incontrai di nuovo: erano in un'aia dove una donna gli aveva appena dato delle uova.
Erano più magri del solito e le loro divise grigioverdi erano diventate sbiadite e consunte.
"Come va?" - gli chiesi - e quasi ad una voce mi risposero:"Bene! Bene!" e non aggiunsero altro.
Avevano un appuntamento da qualche parte e se ne andarono subito.
Prima della svolta del sentiero si voltarono agitando le mani in segno di saluto e io gli risposi gridando: "Arrivederci a presto!".
Mi accorsi allora di non sapere neppure come si chiamassero e mi ripromisi di chiederglielo non appena li avessi incontrati di nuovo: li sentivo miei amici e non volevo pensarli senza dargli un nome, soltanto cioè come "i due calabresi".
A maggio, improvvisi, arrivarono i tedeschi. Avevano bloccato tutte le vie di accesso alla zona partigiana con autoblinde e carri armati perché nessuno potesse sfuggire all'accerchiamento e procedevano a squadre appiedate, rastrellando l'intero territorio. Dai luoghi dove mi rifugiavo li seguivo con il binocolo: potevo vederli bruciare le case e frugare in ogni dove. Vedevo i contadini uscire sulle aie con le braccia alzate, sospinti dai calci dei mitra, tra le proteste delle donne e il pianto dei bambini. Vedevo il bestiame abbandonato nei campi e altro ne sentivo mugghiare di terrore nel chiuso delle stalle accerchiate dal fuoco.
Si susseguirono giorni disperati, in cui la sola ragione fu quella della forza.
Verso il 15 di maggio attaccarono con più furore del solito: avevano piazzato mortai e mitragliatrici a ridosso di tutti i passi obbligati, sparando su tutto e su tutti.
Ero nascosta su un'altura tra Ca' Cambiucci e Veia quando vidi due uomini attraversare di corsa i prati della Palazza. Puntando il binocolo nella loro direzione, riconobbi i due calabresi. Mi stavo domandando perché in pieno giorno si mostrassero allo scoperto non rispettando le più elementari regole di prudenza, quando udii il fuoco di una mitraglia e poi un susseguirsi di colpi isolati. Vidi i due calabresi cadere a terra e per quanto provassi e riprovassi a metterli a fuoco di nuovo, non riuscii a vederli perché il colore delle loro divise si era confuso con quello dell'erba.
Sperai che non fossero stati colpiti e che potessero presto rialzarsi e fuggire, ma benché guardassi con spasmodica attenzione, vidi solo una ferma distesa di verde.
Attesi a lungo, sempre guardando verso il punto in cui erano caduti e alla fine vidi i tedeschi che vi si dirigevano, sparando in ogni direzione per isolarsi in un sicuro cerchio di fuoco.
Ben presto fui costretta a lasciare il mio nascondiglio: mi asciugai le lacrime che mi impedivano di scorgere anche il sentiero che avevo lì vicino, e ricominciai a fuggire.
Verso sera mi fermai spossata: il cielo era nero e senza neppure una stella e il silenzio intorno mi fece più paura degli spari del giorno appena trascorso.
Ripensai allora ai due ragazzi calabresi che avevo visto correre insieme verso la morte. Li riudii parlare con quella cadenza dialettale che dava armonia alle loro parole e ripensai i loro silenzi come pause di una musica. Li rividi lungo i sentieri della Serra nelle loro anacronistiche uniformi di soldati, ai cui bottoni spesso legavano un fiore, ma rividi anche la loro solitudine e il loro sorriso senza gioia.
E dopo tanti anni è così che li ricordo.




Walchiria Terradura Vignarelli è nata a Gubbio (Perugia) il 9 gennaio 1924.
Studentessa universitaria iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza di Perugia, lasciò gli studi per entrare nella Resistenza.
Partigiana combattente nella 5a Brigata Garibaldi "Pesaro", partecipava, giovanissima, alla lotta partigiana, distinguendosi per le sue doti di organizzazione e per il coraggio.
Decorata di Medaglia d'Argento al Valor Militare per una delle sue azioni di guerra particolarmente valida e decisa.
Fra le altre decorazioni, oltre la Croce al merito di guerra, fu insignita della Croce di Cavaliere al merito della Repubblica. Le fu riconosciuto il grado di Sottotenente, comparato a quello di ispettore organizzativo ricoperto nelle formazioni partigiane.


Foto di Mia Lecomte.
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