IN DIFESA DELLA LIBERTA' LETTERARIA
Elio Vittorini
QUESTA È LA RISPOSTA DI VITTORINI A UNA LETTERA DI TOGLIATTI
A LUI RIVOLTA, NELLA QUALE IL LEADER DEL COMUNISMO ITALIANO SI
LAMENTAVA DELLA VISIONE ECCESSIVAMENTE "ECLETTICA" DELLA
RIVISTA LETTERARIA "POLITECNICO" DIRETTA DAL
SUDDETTO SCRITTORE. IN TALE INTERVENTO OLTRE A RISPECCHIARE IN
MODO TRASPARENTE L'ETHOS LETTERARIO DEL 2° DOPO GUERRA, VITTORINI,
SENZA RINUNCIARE A UNA VISIONE RIGOROSAMENTE MARXISTA, PRESENTA
UNA TOCCANTE DIFESA DELLA LIBERTÀ LETTERARIA, RICONOSCENDONE
LA SPECIFICITÀ E L'AUTONOMIA RISPETTO ALLA POLITICA.
Caro
Palmiro Togliatti,
Io
non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte
e che il terreno dell'una sia da considerarsi chiuso all'attività
dell'altra, e viceversa. Cercherò più in avanti
di mostrare come invece le due attività mi sembrino strettamente
legate. Ma certo sono due attività, non un'attività
sola; e quando l'una di esse è ridotta (per ragioni interne
o esterne) a non avere il dinamismo suo proprio, e a svolgersi,
a divenire, nel senso dell'altra, sul terreno dell'altra, come
sussidiaria o componente dell'altra, non si può non dire
che lascia un vuoto nella storia.
La cultura che perda la possibilità di svilupparsi in quel
senso di ricerca che è il senso proprio della cultura,
e si mantenga viva attraverso la possibilità di svilupparsi
in "senso di influenza", cioè in un senso politico,
lascia inadempiuto un compito per aiutare ad adempierne un altro.
Né si deve credere che alla politica serva (anche se a
volte lo sollecita o addirittura lo esige) un aiuto simile. L'influenza
che la cultura può esercitare agendo da mezzo della politica
sarà sempre molto esigua. E accade inoltre che sia inadeguata,
che sia imperfetta. Tanto di più serve invece, obbiettivamente,
alla storia (e alla politica in quanto storia) che la cultura
adempia il proprio compito e continui a porsi nuovi problemi,
continui a scoprire nuovi mete da cui la politica tragga incentivo
(malgrado il fastidio avutone sul momento) per nuovi sviluppi
nella propria azione. Nel corso ordinario della storia, è
solo la cultura autonoma (ma, si capisce, non sradicata, non aliena)
che arricchisce la politica e, quindi, giova obiettivamente alla
sua azione; mentre la cultura politicizzata ridotta a istrumento
di influenza o, comunque, privata di una problematicità
sua propria, non ha nessun rapporto qualitativo da dare, e non
giova all'azione che come un impiegato d'ordine può giovare
in un'azienda. [...]
La cultura, cioè, deve svolgere il suo lavoro su un doppio
fronte. Da una parte svolgerlo in modo che le masse le restino
agganciate e non si fermino, anzi, ne ricevano incentivo ad accellerare
la propria andatura, e a lasciar cadere sempre più in fretta
quelle sopravvivenze di cultura sorpassata che inceppano il loro
dinamismo storico. Da un'altra parte svolgerlo (e allo stesso
tempo) in modo che non si verifichino arresti nel suo sviluppo
e alterazioni nella sua natura per via dell'arretratezza culturale
in cui le masse, o parte di esse, si trovano. La politica può
adeguare la propria azione al livello di maturità raggiunto
dalle masse, e persino segnare il passo, persino fermarsi, appunto
in ragione del fatto che qualche altra cosa, la cultura, continua
ad andare avanti. Anzi è in questo, direi, che si effettua
in pratica la distinzione tra cultura e politica; o almeno è
solo in questo che si riesce a veder scorrere separatamente le
acque loro attraverso la storia. Politica si chiamerà la
cultura che, per agire (e qui lascio intendere "agire"
tanto nel senso dello storicismo idealistico quanto in quello
del materialismo storico) si adegua di continuo al livello di
maturità delle masse, e segna anche il passo con esse,
si ferma con esse come accade che con esse exploda. Continuerà
invece a chiamarsi cultura la cultura che, non impegnandosi in
nessuma forma di azione diretta, saprà andare avanti sulla
strada della ricerca. Ma se tutta la cultura diventa politica,
e si ferma su tutta la linea, e non vi è più ricerca
da nessuna parte, addio. Da che cosa riceverà la politica
l'avvio alla ripresa se la cultura è ferma? [...]
Cultura è verità che si sviluppa e muta; e si sviluppa,
muta non solo grazie ai mutamenti concreti del mondo e grazie
alle esigenze di mutamento che si presentano nel mondo, ma grazie
anche al suo proprio impulso per cui essa "è"
nella misura in cui un tale impulso, ovvero nella misura in cui
non si placa, non si soddisfa, non si cristalizza in possesso
e sistema. Essa è la forza umana che scopre nel mondo le
esigenze di mutamento e ne dà coscienza al mondo. Essa,
dunque, vuole le trasformazioni del mondo. Ma aspira, volendole,
ad ordinare il mondo in un modo per cui il mondo non ricada più
sotto il dominio di un interesse economico, o comunque di una
necessità, di un automatismo, e possa al contrario identificare
il proprio movimento con quello della ricerca della verità,
della filosofia, dell'arte, insomma della cultura stessa. Così
la cultura aspira alla rivoluzione come a una possibilità
di prendere il potere attraverso una politica che sia cultura
tradotta in politica, e non più interesse economico tradotto
in politica, privilegio di casta tradotto in politica, necessità
tradotta in politica. [...]
Marx [...], ci mostra che cosa vi sia sotto la democrazia parlamentare,
ma non ci insegna a disperare, né ci suggerisce la rinuncia
all'antica aspirazione. Egli ci disse che possiamo avere una rivoluzione
straordinaria, tale da essere veramente quello che ogni rivoluzione
(in quanto cultura) avrebbe voluto essere, e da assicurare veramente
il predominio della scelta sull'automatismo, della ricerca sul
sistema, della cultura sulla necessità attraverso una politica
che sia sempre cultura tradotta in politica e mai più più
privilegio tradotto in politica. Ed è in una società
senza classi, ci dice Marx, che possiamo avere un potere in funzione
di cultura. Ed è in una rivoluzione capace di instaurare
una società senza classi che possiamo avere la rivoluzione
liberatrice della cultura. Ma Marx non esclude che vi sia il pericolo,
pur in una società senza classi, di veder la cultura estraniarsi
dalla ricerca, assestarsi in possesso della verità, fortificarsi
in sistema e magari far precipitare il mondo in un automatismo
di origine culturale. Marx sa bene che il mondo liberato dalla
necessità attraverso la cultura potrebbe sempre ricadere
in schiavitù attraverso la cultura stessa. C'è anche
nella cultura la tendenza all'inerzia. La Chiesa Cattolica è
un esempio tipico di come la cultura possa cristalizzarsi in una
dottrina e in una politica che imprigionano il mondo in un automatismo
loro proprio, entro il quadro dell'automatismo economico e in
appoggio ad esso, o, domani, al di fuori di esso. L'eliminazione
dell'automatismo economico non garantisce, di per se stessa, contro
ogni automatismo. Rientra dunque nella visione del marxismo che
la lotta contro lo sfruttamento sia anche lotta specifica contro
questa o quella forma di automatismo, all'interno della cultura
come all'interno della politica, e lo sia sempre di più
quanto di più la società si sarà avvicinata
alla liberazione dal bisogno.
Direi anzi che il marxismo con l'esigenza della lotta contro lo
sfruttamento con spirito di lotta contro l'automatismo, sviluppato
da quello che fu lo spirito del Protestantesimo. [...]
Impegnato nella lotta per la conquista della società senza
classi il marxismo non si è ancora sviluppato molto in
direzione del suo significato intrinseco. Né ancora ha
scoperto un mezzo o un modo di impedire le scivolate in un automatismo
o un altro della cultura, in un automatismo o un altro della politica,
e di tener vivo nell'uomo quello spirito di ascesa che già
fu, chiamandosi protestanti, lo spirito di ascesa della borghesia.
Una società, sia pure senza classi, in cui l'uomo mancasse
di questo spirito (e della problematicità derivante da
un simile spirito), sarebbe una società in cui nessun nuovo
Marx, e nessun nuovo filosofo, nessun nuovo poeta, nessun nuovo
uomo politico avrebbero motivo di vivere. Sarebbe il contrario
di quella società sognata da Marx in cui l'individuo dovrebbe,
infine, avere un motivo qualitativo di vivere. Per questo è
necessario che la cultura abbia sempre aperta la possibilità
di essere cultura, cioè di cercare, porsi i problemi, e
rinnovarsi. Per questo è non meno necessario che la politica
rifugga sempre di più dal pericolo di essere sistema tradotto
in politica e si sforzi sempre di più di riuscire ad essere
ricerca tradotta in politica. Per questo è necessario infine
che il rapporto tra politica e cultura non sia regolato né
dalla politica né dalla cultura e sia lasciato "libero"
di variare e di implicare una maggiore o minore dipendenza reciproca,
una maggiore o minore autonomia reciproca, secondo il variare
delle fasi che la storia attraversa nella sua marcia di avvicinamento
alla società senza classi e al primo stadio, in essa, della
libertà dell'uomo. [...]
La linea che divide, nel campo della cultura, il progresso dalla
reazione, non si identifica esattamente con la linea che li divide
in politica. È questo che, alle volte, non si capisce da
parte nostra; o non si è pronti a capire; o non si vuoi
capire. E da questo nascono le diffidenze ed ostilità che
rendono la politica progressista non sempre capace di sostenere
la cultura progressista come di valersene, e la cultura progressista
non sempre capace di sostenere la politica progressista come di
valersene.
Avviene che noi si voglia giudicare dalle manisfestazioni politiche
di un poeta, o da quanto egli ha dato di esplicito, se la sua
poesia è a tendenza progressista o a tendenza reazionaria.
Così, giudicato Dostoevskije un reazionario per le sue
dicchiarazioni più esterne, trascuriamo di arricchirci
dei profondi motivi progressisti che sono nel vivo della sua opera,
e lasciamo alla reazione di arricchiesene, lasciamo ad essa di
volgerli in vantaggio proprio. Al tempo di Marx il marxismo sapeva
impadronirsi del valore progressista che era implicito nell'opera
di ogni grande scrittore d'allora, fosse Hoelderlin, fosse Heine,
fosse Dickens o fosse Balzac, senza guardare se essi fossero nell'esplicito
politico, con la destra o con la sinistra. Oggi noi siamo inclini
a rifiutare o ignorare i grandi scrittori del nostro tempo. Ignoriamo
completamente, per esempio, Kafka, che pure ha rappresentato con
la forza grandiosa delle raffigurazione mitiche la condizione
in cui l'uomo è ridotto a vivere nella società contemporanea,
e rifiutiamo in blocco l'opera, per esempio, di un Hemingway che
pure contiene, in termini concreti, tanti dei problemi per i quali
e in ragione dei quali l'uomo ha bisogno di una trasformazione
rivoluzionaria del mondo. Se Hemingway, mettiamo, si compromette
politicamente, noi potremmo considerare nemica la sua persona,
ma i suoi libri non sono nostri nemici, sono ancora nostri amici,
e io ho molto in contrario a vedergli rifiutati come letteratura
della borghesia reazionaria. Non nego che in Hemingway ed altri
autori del genere, sia presente, anche in senso culturale, anche
in senso poetico, qualcosa che autori più nuovi sentono
la necessità di superare. L'uomo di Hemingway è
ancora un tipo di superuomo, non un tipo di uomo. Ma non si può
dipingere come tutto nero quello che contiene anche del nero,
né si può dipingere come tutt'oro quello che contiene
anche dell'oro. Questo è un criterio oscurantista che non
si può adottare nel campo della cultura. Tocca ad opere
concrete d'una più nuova poesia e d'una più nuova
cultura di annullare o ridurre l'importanza delle opere concrete
d'un Hemingway. E noi, sentendo trattare da scribacchini degli
scrittori che sappiamo di prim'ordine, abbiamo l'impressione di
essere tutti sminuiti, e che il nostro stesso mestiere si è
sminuito, che la cultura stessa sia sminuita, che i nostri sforzi
in senso rivoluzionario non possano mai essere riconosciuti come
tale dai nostri compagni politici.
Che cosa significa, per un scrittore, essere "rivoluzionario"?
Nella mia dimestichezza con taluni compagni politici ho potuto
notare ch'essi inclinano a riconoscerci una qualità di
"rivoluzionari" nella misura in cui noi "suoniamo
il piffero" in torno ai problemi rivoluzionari posti dalla
politica; cioè nella misura in cui prendiamo problemi dalla
politica e gli traduciamo in "bel canto": con parole,
con immagini, con figure. Ma questo, a mio giudizio, è
tutt'altro che rivoluzionario, anzi è un modo arcaico d'essere
scrittore. [...]
L'estetica dell'Arcadia implica una distinzione tra verità
e poesia, per cui la verità viene concepita a prescidere
dall'elemento che la poesia è di essa e della sua ricerca,
e la poesia concepita a prescindere della parte integrante che
ha nella verità e nella sua ricerca. Il razionalismo astratto,
che tutto misura a piccoli passi visibilmente razionali e non
vuole riconoscere per razionali i passi più lunghi e non
visibilmente razionali, o meno visibilmente razionali, è
la posizione culturale che più favorisce le scivolate dell'arte
nell'estetica arcarica. Le favorisce da semplice filosofia, e
le favorisce anche da politica. Induce i poeti a dire: "mettiamoci
al servizio della verità". E non si accorge che questo
significa indurli a non lavorare per la verità, a non adempiere
il loro compito di scoperta propria della verità, a non
cercare anche loro la verità, a indurli in compenso a suonare
il piffero per una forma raggiunta di verità, cui mancherà
in ogni caso la parte di verità di cui essi avrebbero dovuto
integrarla.
Che il piffero sia suonato su temi di politica, di scienza o di
ideologia civile anziché su temi di ideologia amorosa non
cambia in nulla il carattere arcadico di una simile musica. Buona
parte delle composizioni poetiche scritte dagli arcadi italiani
del Settecento sono su temi civili, e Vincenzo Monti è
da arcade che scrive sulla mongolfiera o sui comizzi di Lione,
da arcade scrivono i poetici civili del nostro Risorgimento, da
arcadi e pastorelli della politica scrivino i poeti patriottici
che Giuseppe Mazzini preferiva a Leopardi. Né chi suona
il piffero per una politica rivoluzionaria è meno arcade
e pastorello di chi suona per una poetica reazionaria e conservatrice.[...]
Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso
la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la
politica pone. Esigenze interne, segrete, recondite dell'uomo
che egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio
di lui scrittore scorgere e che è proprio di lui scrittore
rivoluzionario porre e porre accanto alle esigenze che pone la
politica, porre in più delle esigenze che pone la politica.
Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di
noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze.
E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario
non sia no riconosciuti come tali dai nostri compagni politici,
è perché vedo la tendenza dei nostri compagni politici
a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura arcadica di chi
suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura
in cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di
crisi.
Rifiutare e ignorare i migliori scrittori di crisi del nostro
tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta
dalla crisi della società occidentale contemporanea. E
non è un rifiuto di riconoscere la problematicità
stessa per rivoluzionaria? Non è rifiuto di riconoscere
la crisi stessa per rivoluzionaria?
Molta letteratura della crisi è, senza dubbio, di provenienza
borghese, discende dal Romanticismo: è intrisa di individualismo
e di decadentismo. Ma è anche carica della necessità
di uscirne, ed è ricerca per uscirne. Si può chiamarla
letteratura della borghesia solo nel senso che è autocritica
della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna
d'essere borghese e di disperazione d'essere borghese. Dunque
è rivoluzionaria, malgrado i suoi vizi borghesi, come tanta
letteratura del Settecento inglese o francese era rivoluzionaria
malgrado i suoi vizi aristocratici. Essa soltanto, anzi, è
rivoluzionaria malgrado i suoi vizi aristocratici. Essa soltanto,
anzi, è rivoluzionaria nell'Europa occidentale e in America.
Gli scrittori che militano nel nostro Partito riflettono anch'essi
la vergogna d'essere "borghesi" e la disperazione d'essere
"borghesi", insomma la crisi borghese che rifflettono
gli scrittori estranei al nostro partito. Sono rivoluzionari,
nel loro lavoro di scrittori, per motivi non molto diversi da
quelli per i quali lo sono un Sartre e un Camus. Oppure non sono
rivoluzionari, e fanno semplicemente dell'arcadia un partito.
O del lirismo di partito.
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