IL VINCITORE

Veza Canetti




Non è sempre un quadretto idillico come intorno a Lotte nel Werther, quando dei bambini affamati stanno attorno alla sorella e attendono il pane. Quando Anna distribuiva il pane, il quadro era diverso. Certo, anche lei era attorniata dai fratelli, ma questi erano più avidi di pane che del privilegio di ricevere la loro parte da lei.
E non tagliava le fette scherzando, ma piena di preoccupazioni. Sette creature dovevano saziare la loro fame, e il pane era l'alimento principale.
Il padre, il padre di Anna, pareva portarsi addosso il peso di tutti i pacchi e casse e fatiche e insulti anche quando il suo lavoro era terminato. Perché anche ai suoi occhi era l'ultimo dei dipendenti della ditta Hesel & C., e il titolare, il direttore, il contabile, la dattilografa e il fattore erano soliti sfogare su di lui il loro umore. Siccome era sempre in affanno, non faceva che dare esca al loro cattivo umore. E così ogni sera tornava a casa oberato dalle angustie di chi stava meglio di lui, e considerava la sua numerosa figliolanza una serie di stomaci esigenti che riducevano la sua misera parte.
La madre non poteva andare a servizio, perché doveva sgobbare per sette creature. Il grembiule a righe blu le ballava sul corpo secco, le linee intorno alla bocca erano contratte , e solo gli occhi irridevano la miseria della sua esistenza. Erano così vivi e fermi, che i bambini cercavano in continuazione quegli occhi pieni di fiducia e di consolazione. La signora Seidler aveva conservato questa gioiosità, perché non era costretta a correre da una parte all'altra come il marito, senza costrutto senza tregua, senza speranza; vedeva anzi i bambini crescere in virtù del suo lavoro e spesso si stupiva quanto poco bastasse a dei bambini sani, si stupiva di come con patate, gnocchi, pane e strutto si sviluppassero esseri umani con occhi allegri come i suoi, con ossa solide e respiro spedito.
Cento scellini al mese guadagnava Anna, esattamente quanto il padre, e come lui li consegnava in casa. La signora Seidler era ammirata dei progressi della gioventù, di una ragazza di diciannove anni che guadagnava tanto.
Anna lavorava in un'industria tessile, dove dal lino al refe, dal cotone ai filati si fabbricava di tutto. Il primo anno stava seduta per terra e controllava la tela. Separava il puro lino dai tessuti misti, e poi cominciava lo strazio. I fili strappati e intorcinati andavano sfilati con un ago e sostituiti con cautela. La polvere di cotone bianca, sospesa perennemente nell'aria, le prosciugava gli occhi e i polmoni.
Dopo un anno passò a un lavoro meno pesante. Adesso doveva semplicemente segnare con una matita blu i punti difettosi. Erano stati otto ore in piedi, senza possibilità di muoversi, ma comunque era meno pesante. Per Anna era troppo poco impegnativo. Sbirciava verso lo spazio attiguo, dove le macchine sferragliavano con un fracasso assordante, e avrebbe voluto seguire una macchina. Era un lavoro importante, pieno di responsabilità, emozionante, e fruttava venti scellini in più; e chi ha idea di cosa possano significare venti scellini?
E dopo un altro anno ancora il suo sogno si realizzò.
Passò al reparto macchine. Portava sempre il medesimo vestito di stoffa scura e guardava accigliata certe operaie che ostentavano senza reticenze la loro allegria. Non le guardava criticamente, ma con il distacco imposto dalla povertà e dal senso del dovere. Gestiva la macchina e in testa aveva una cuffia di gomma, perché le forcelle che ruotavano vorticosamente non si impigliassero nei capelli, che erano lunghi e raccolti in una crocchia.
La sera leggeva vecchi libri di scuola. Voleva istruirsi, perché ci fosse sufficiente pane fresco, che ogni giorno le toccava distribuire con una certa parsimonia. Lavoro durante il giorno, lavoro la sera e lavoro la domenica, per dare una mano alla madre. E poiché la monotonia della sua esistenza non era mai allietata da una nota di colore, la sua faccia divenne triste come quella del padre.
Al piano superiore, dove stavano gli uffici di rappresentanza, era in atto una ristrutturazione. Il caporeparto signor Etzel si aggirava per i reparti in cerca di qualche rinforzo dal basso, esaminava le ragazze e stava giusto squadrando Anna, quando lei gli puntò addosso i suoi occhi azzurri, spenti, da cane fedele. Le fece cenno di seguirlo nella sala accanto, perché nel reparto macchine non si sentiva neanche la propria voce, e da quel momento Anna passò a lavorare di sopra. Disponeva in ordine le balle, applicava le etichette e ben presto aveva imparato la numerazione dei più svariati tipi di tessuto. Se, per esempio, Eber telefonava per sapere il codice del misto lino a righe blu, Anna lo gridava a memoria al caporeparto che era al telefono, e così Eber era servito a dovere. C'era anche da riscuotere fatture, copiare ordinazioni, verificare conti, e la sera bisognava fare le pulizie. E c'era una cosa che dava ad Anna una felicità indicibile. Ogni mattina arrivava un'ora prima degli altri, si metteva alla macchina da scrivere ed azionava i tasti. Le lettere scattavano sul rullo, formavano una riga, creavano scompiglio ma ben presto si lasciavano dominare da lei. E un giorno avvenne il miracolo. Il caporeparto non sapeva più dove sbattere la testa, essendo impegnato da basso e di sopra, allora Anna, la figlia dell'uomo di fatica Seidler, tre anni di scuola media e poi basta, si mise lì e scrisse le lettere.
Da quel momento sbrigava praticamente di tutto. Il suo impiego era così promiscuo che era nota come factotum in parecchi reparti. Durante il tragitto verso casa i suoi occhi azzurri avevano una luce calda. Ma nessun uomo sul tram la guardava mai. Perché aveva quella carnagione spenta, gli occhi eternamente arrossati - un fatto ormai cronico - , il naso largo e sempre quel vestito scuro.
Il padrone della fabbrica, Siegfried Salzman, aveva i suoi bei pensieri per la testa. La sterlina era messa male, e c'erano crediti in sofferenza. Le valute in generale non davano affidamento, e piuttosto di fornire la sua tela pregiata in cambio di pezzi di carta di dubbio valore, Siegfried Salzman preferiva attendere e non vendere nulla.
Stava letteralmente seduto sulla sua merce. Naturalmente con questo il lavoro era fermo, e si impose un ulteriore sfoltimento delle maestranze. Si cominciò dal basso, tra gli operai, poi toccò al piano superiore. Di sopra Siegfried Salzman volle scevrare di persona gli incapaci dai capaci. Passò per i reparti esaminando le ragazze. Ecco la Schmerler, una rossa, che aveva una notevole influenza sulle colleghe, bisognava tenerla, altrimenti avrebbe sobillato. E poi c'era la Pilz, gobba peraltro, ma molto utile: spifferava al padrone un sacco di discorsi del personale. E poi Kathe Scmidt, che riconobbe già da dietro, perché l'aveva già posseduta. E Salzman si leccò le labbra, e la sua faccia grassa si allargò, nel vedere la Mitzi Sperl, diciassette anni e di corporatura molto snella. Gli tornò in mente la sua natura ridanciana, quella volta che le aveva fatto bere del vino forte. Passò oltre, e a quel punto venne fuori tutta una serie di ragazze disposte a concedere al padrone, in cambio di una cena, il loro bene più prezioso, che le figlie degli abbienti vendono caro; certo - si noti bene - procurandosi il grosso vantaggio di entrare nelle sue grazie. Infatti nessuna di quelle ragazze, a parere di Siegfried Salzman, andava licenziata. E poi vide una sagoma che non riconobbe da dietro. I suoi occhi si incollarono alle gambe sode della ragazza, sebbene fossero avvolte da calze a coste grosse.; un che di giovanilmente formoso in quei polpacci lo attraeva: le si parò davanti. Vide una carnagione piena di brufoli, degli occhi arrossati, un naso largo e un essere smorto.
Un'ora dopo convocò i capireparto.
"Anna Seidler", disse il signor Etzel, "ma è il mio elemento migliore !"
"E' così muffosa", disse il fabbricante di tela.
Come poteva non essere muffosa, con tutta la miseria che aveva in casa, pensò il caporeparto, ma non disse niente, perché aveva una famiglia da mantenere. E con ciò il caso era chiuso. Quando Anna si trovò nell'ufficio del padrone, non riuscì a controllarsi, tutto lo strazio proruppe, arrossando ancora di più gli occhi e colando dal naso. Il padrone si irritò per queste lacrime. E poiché aveva un cuore buono, le fornì un ottimo benservito.
Il destino, grande tormentatore, si adopera perché le sue vittime non soccombano, e fu così che Anna trovò un nuovo posto. Fra trenta aspiranti l'occhio esperto del procuratore Rab scelse proprio lei, perché in ditta non voleva porcate. Lesse compiaciuto il benservito e d'un tratto gli venne in mente una cosa.
"Ma qui non c'è scritto che lei è impiegata d'ufficio, signorina!"
Anna sostenne timidamente di esserlo, e noi sappiamo che non mentiva.
"Allora mi porti , per favore, un altro attestato, e sarà assunta."

Anna, felicissima, promise di farlo, non dormì, scrisse nottetempo una lettera al suo ex padrone e la portò in ditta personalmente il mattino dopo. Con le mani umidicce e fredde per l'emozione, si ritrovò davanti al caporeparto. Il quale ritenne la sua richiesta una cosa da nulla e si recò subito dal padrone, lieto di potersi togliere una spina dalla coscienza con questo intervento in favore della brava lavoratrice.
Siegfried salzman era seduto alla sua scrivania ministeriale e masticava chewing-gum.
Accanto a lui era steso un magnifico levriero. Per questo levriero teneva in fabbrica un apposito cuoco, perché la bestia era schizzinosa.
"Tre primi premi, stava giusto dicendo Salzman, quando il signor
Etzel entrò. Fece un inchino ed espose la sua richiesta con quel particolare sorrisetto che i sottoposti hanno, quando sono certi del consenso per una cosa da niente.
"Cosa le salta in mente, Etzel? Quella, da me, non era impiegata d'ufficio!"
Etzel si inchinò imbarazzato le lo pregò di fare un'eccezione.
"Non sarebbe corretto", disse l'industriale e guardò altrove indignato, perché lo si disturbava per simili quisquilie.
"Dica che mi telefonino", disse Etzel ad Anna, fuori, "vedrà che darò io l'informazione giusta."
Anna riferì la cosa alla nuova ditta, ma il procuratore signor Rab si incaponì nella propria pignoleria. Il titolare era assente, e al suo ritorno bisognava riferire in modo ineccepibile.
E di colpo la parola impiegata d'ufficio assunse per Anna contorni enormi, questa parola che non significava nulla, una mostruosità linguistica, un concetto di erronea applicazione divenne fatale! Anna pensò alla faccia della madre e andò nuovamente dal suo ex padrone. Come può immaginare, lei, che cosa significhi per me questo posto? Lei, che non è mai stato sfiorato dalla disgrazia. Così voleva dirgli.
Il caporeparto signor Etzel la incontrò in corridoio e la salutò con un cenno. Ma come intese che lei voleva procedere scavalcando la sua persona, assunse quell'aria offesa che i signori professori hanno di fronte ai loro allievi dopo l'esame di maturità: continueranno ancora a salutare nel modo prescritto? Anna incassò la testa e resistette. Non dovette attendere. L'usciere tornò subito. Non venne ricevuta.
Anna pensò al momento in cui sarebbe tornata a casa e tutti l'avrebbero guardata, e cercò nella mente una persona che fosse buona e la potesse aiutare, e si ricordò del signor Topf, contitolare della ditta Gold &Topf, che le dava sempre delle cordiali pacche sulla schiena, quando veniva in fabbrica.
Il signor Topf guardò compassionevolmente quei guanti rammendati, quelle calze logore, quel cappotto liso e si recò con lei in fabbrica.
Veramente il signor Topf non era cliente di Salzman, era solo un fornitore, ma ultimamente gli aveva dato una mano in certi traffici illeciti di valuta, per cui l'industriale gli era obbligato.
Quando entrò nell'ufficio con Anna, il padrone stava appunto misurando la febbre al levriero.
Dapprima l'animale scostò la testa contrariato, ma poi lasciò fare, Siegfried Salzman non rispose al timido saluto di Anna.
"La Seidler da me non è stata impiegata d'ufficio", disse poi con voce marcata.
"Via, faccia un'eccezione", disse Topf con inflessione ebraica: non aveva un minimo di savoir faire ed era incapace di mettersi al livello dell'industriale, "cosa fatta cosa le costa? Un proverbio, un proverbio francese. A lei costa una parola mentre a lei costa il posto! Dove trova un altro posto, con i tempi che corrono?"
"Io non faccio eccezioni!" Siegfried Salzman alzò la voce indignato. "E poi non la capisco proprio, anche lei è un uomo d'affari e dovrebbe sapere che un uomo d'affari non mette per iscritto cose non vere. Non sarebbe corretto." E si appoggiò all'indietro correttamente.

"Che vuol dire corretto? Forse che abbiamo frodato poco con le valute?" Topf strizzò l'occhio e indicò il colletto, sotto il quale aveva contrabbandato di nascosto le valute.
Con questo la sorte di Anna era segnata. Siegfried Salzman si ricordò della propria dignità e consigliò al signor Topf di vendere d'ora in poi il suo refe da un'altra parte. Si guardò intorno nell'ufficio, e il procuratore, il direttore, il fratello minore che dipendeva da lui, e la dattilografa gli fecero unanimi cenni di approvazione, e lui si reclinò indietro come un vincitore.
Ma fuori Topf disse ad Anna: "Ecco cosa si guadagna ad essere buoni! Chi me l'ha fatto fare!" E sospirava e non voleva essere costretto a rimborsarle anche i soldi del tram, visto come erano andate le cosa, per cui la piantò sul cancello.
All'improvviso Anna sentì freddo nel misero cappottino che aveva portato per tanti inverni. Si avviò lentamente per la vuota distesa innevata che separava la fabbrica dalla città. Grossi fiocchi le cadevano sul viso, mentre andava e aspettava che una voce la richiamasse alle sue spalle. Camminava sempre più lentamente, ma la voce no si fece sentire. Aspettò che qualcuno le passasse accanto e le rivolgesse uno sguardo, ma la distesa era deserta. E pensò a sua madre, ma la madre non aveva più negli occhi il calore di un tempo, adesso la madre la guardava con angoscia, e il padre non alzava mai gli occhi ma scucchiaiava afflitto la sua minestra, e i fratelli piccoli avevano facce da vecchio, perché sapevano troppe cose per la loro età.
Il mattino dopo un operaio trovò la ragazza morta nella neve. Aveva chiuso gli occhi, e sul suo volto non c'era traccia di afflizione. La portò in fabbrica sulle braccia. E accadde che la treccia della ragazza si sciogliesse, ricadendo, ed era strano che ricadesse come da un corpo vivo. L'operaio vide le forme giovani e la massa di capelli e pensò con rincrescimento che quella ragazza gli sarebbe piaciuta molto.
L'industriale Siegfried Salzman, passando si meravigliò dell'assembramento.
Fermò una ragazza e apprese il motivo. Si avvicinò al campanello, ma gli operai , che solitamente salutavano rispettosi, gli voltarono le spalle. Siegfried Salzman si impresse bene, una per una quelle facce. E poi si appuntò che andava licenziato alla prossima occasione.







L'autrice, Veza Canetti


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