DICAS  
POESIA MONDO
LA TASTIERA
FILMS E VIDEO
IL RISO
LA SECONDA RISPOSTA
IL TRAMONTO DEL CAMALEONTE
SCENARIO MACABRO
BANANAS
I MANGIATORI DI ANIME
CULTURE E LIBERAZIONE
IL DIRITTO ALLA PERMANENZA
LA STATUA E IL MARMO
LE AVANGUARDIE LATINE
L'AMANTE CHE DORME


Poesia mondo

Il filosofo francese Paul Virilio, in una recente intervista ha commentato così la globalizzazione nell'area culturale: "La velocità dei cambiamenti ha mutato il mondo, non solo per ciò che riguarda lo spazio ma anche il tempo. C'è una perdita di estensione...c'è una chiusura che ormai colpisce le persone. Credo che tra qualche generazione le capacità di telecomunicazione saranno tali che le persone si sentiranno rinchiuse nel mondo, esso diventerà troppo piccolo per l'uomo."
Più avanti dice: "Credo che ciò che dà senso ad un luogo è la sua cultura e la sua poesia. Penso che ancora abbiamo una cultura locale, nazionale, e che le culture comunichino tra di loro. I grandi scrittori e poeti ci permettono di valutare attraverso la letteratura, il cinema, e la musica, la qualità di una parte del mondo. La poesia non è più semplicemente localizzata. Insieme all'economia mondiale, ai grandi mercati si costituirà una poesia mondo".


La tastiera

Joseph Brodsky, poeta russo, premio Nobel di letteratura, cinque anni dopo essere arrivato in occidente nel '77, a New York, entrò in un negozio e comprò una macchina da scrivere con una tastiera dai caratteri occidentali, e da quel momento scrisse la sua opera in lingua inglese, soprattutto i saggi, ma anche qualche poesia.
"Quando uno scrittore fa ricorso ad un idioma che non sia la propria madre lingua- scrisse una volta- o lo fa per necessità, come Conrad, o a causa di una missione ardente, come Nabokof, o per ottenere un estraniamento più forte, come Beckett". Ma il motivo per il quale lui stesso ha adottato quella lingua è stato un altro: "Il mio unico scopo, allora come oggi, era avvicinarmi all'uomo che considero la migliore mente del XX secolo, Wyston Hugh Auden."


Films e video

Ally Derks, organizzatrice del Festival internazionale di films documentari di Amsterdam - il più importante al mondo - crede che la TV e i documentari possano essere solo sporadicamente alleati, ma che, in essenza, siano nemici mortali. " Nel mondo intero - dice lei - è la televisione che determina la dimensione dei films. Qualcuno ha già sentito dire che un romanzo può avere solo venticinque pagine o che un dipinto deve per forza essere di trenta centimetri per trenta? Le emittenti televisive vogliono che i documentari siano esattamente di 52 minuti . Per me, questo, potrebbe costituire l'attestato di morte del documentario come forma d'arte.
In questa sua posizione è sostenuta da Klaus Eder, segretario generale della Stampa cinematografica, il quale aggiunge: " il video è il video e il film è il film, non importa che la cosiddetta rivoluzione digitale sostenga il contrario. Secondo me i critici di cinema devono preferire opere girate e proiettate come film, non come video".


Il riso

Dario Fo, in una recente intervista alla rivista brasiliana Bravo! : "Il riso è l'esperienza più alta dell'intelligenza. Il riso ci libera da un peso per darci coraggio. E' il rapporto tra la paura e la falsa paura, è lo squilibrio equilibrato degli indiani. E' anteriore alla tragedia. Nella nostra cultura, anche i momenti della più alta sacralità erano legati al riso. Ho scoperto che fino al secolo VIII, tra il sabato e la domenica di Pasqua si celebravano due riti: il "risus pascolis" e l' "exultet" con esultazioni per la resurrezione di Cristo. Il prete leggeva e cantava come prima voce, ed i fedeli rispondevano ripetendo il canto, cosa che doveva essere divertentissima, perché se non fossero scoppiate delle autentiche risate generali tra i partecipanti la comunità avrebbe interpretato ciò come un cattivo presagio. Origine ancora più antica ha la leggenda legata alla protezione dei bambini da una dea fino al momento della prima risata. La prima risata spontanea di un neonato era attesa come segno che il cervello del neonato era ormai pronto. La dea poteva allora andarsene perché aveva compiuto il suo dovere".
E alla domanda su cosa pensasse del fatto che l'Accademia dei Lincei si era tanto offesa con il Nobel a lui attribuito fino a rinunciare ad indicare candidati l'anno successivo, Fo ha risposto: "Ma loro, a priori, non considerano nemmeno il teatro come letteratura. Per loro, Pirandello ha vinto perché era un professore, scriveva dei saggi, dei libri...Poi, per svago, scriveva commedie per portare a letto le attrici - secondo la versione dell'Accademia, che lo considerava indecente. Allora, è naturale che reagiscano così nei miei confronti: chi è questo tizio? Ma perché quel pagliaccio e non io? Hanno preso un grande spavento quando hanno scoperto che io ero l'autore vivo più tradotto e rappresentato al mondo".


La seconda risposta

Riflettere sull'idea della morte è senz'altro difficile per tutti. Chiunque veda un uomo ferito, che parla con noi, che geme, che urla, insomma, vivo, e che nell'istante seguente è divenuto un corpo immobile, un cadavere, sa esattamente di quale difficoltà si tratti: la vita, dove è andata?
Ci sono due possibili risposte a questa domanda: la risposta consolatrice, secondo la quale la morte è soltanto l'inizio dell'eternità, e di quella si occupa la religione; e l'altra risposta, quella più concreta ed evidente, secondo la quale la morte costituisce la fine. Una risposta sconvolgente ma inevitabile. Ed è precisamente su questa che verte l'argomento del libro dello storico Norbert Elias La solitudine del morente (Il Mulino, Bologna, 1935).
Norbert Elias (1897-1990), autore dell'ormai classico Il processo civilizzatore, insegue i passi di Philippe Ariès e di Ernest Becker, soffermandosi sul tema della morte, ma diversamente da questi, attraverso un saggio allo stesso tempo erudito e commovente, che si conclude con la conferenza Invecchiare e morire, si avvicina a Montaigne. Dalla morte come spettacolo al Colosseo, a quella familiare e quotidiana nel Medioevo, alla morte rimossa dei nostri giorni, Elias non nasconde mai le proprie perplessità, e lo fa ricordando lo sdegno di Auden: "Niente di ciò che è possibile ci potrà salvare. Noi che per forza dobbiamo morire esigiamo un miracolo!".


Il tramonto del camaleonte

Peter Bart, autodenominato "L'uomo camaleonte", il produttore più potente e più odiato di Holliwood (Il padrino, Il figlio di Rosemary, Chinatown), è stato sollevato dal suo ultimo importante incarico: editore della rivista Variety, la pubblicazione più influente del cinema americano. Motivo: commenti razzisti e omofobici, l'unico "peccato" che gli Stati Uniti stile new age californiano non ammettono in assoluto, la scorrettezza politica.
Secondo L A Magazine, Bart ha detto talvolta che non avrebbe più contrattato gays perché poi si ammalavano e finivano per morire. Inoltre alla stessa rivista, Peter Bart ha fatto sui negri il seguente commento: "Ne trovi molti che sono ben educati, riusciti. Sai, quelli non sono più negri. C'è una grande differenza tra loro e le persone che loro stessi chiamano niggers - che sono i negri dei ghetti, quelli che non sanno nemmeno parlare, che non trovano lavoro e seppelliscono loro stessi in questo atteggiamento da "negro". Al contrario altri sono belli, gentili, intelligenti, e fanno parte del mondo, sono il nuovo ceto medio dei negri ". Risultato di questi ragionamenti: la busta gialla.
Comunque, Peter Bart crede che rimarrà nella storia per essere stato uno dei protagonisti del "periodo d'oro" di Hollywood, così come definisce lui gli anni settanta. E spiega: " I films di quel tempo sfidavano la narrativa tradizionale, quelli di oggi sono solo McDonalds". Ma bisogna anche essere politicamente corretti, avrebbe aggiunto qualcuno.


Scenario macabro

Le stanze delle carceri che sono state utilizzate per custodire e torturare i giovani che si opponevano al regime - a Rio de Janeiro negli anni Settanta - dovranno servire come scenario per uno spettacolo teatrale Lembrar é resistir (Ricordare è resistere), diretto dal regista e attore Nelson Xavier, e basato sulle testimonianze delle vittime.
Per quanto l'attuale capo della polizia di Rio, Josias Quintal, in una convenzione con l'assessorato alla cultura abbia ceduto quelle sinistre celle, gli attori incontrano difficoltà ad allestirci il loro spettacolo perché i poliziotti, alcuni di loro ancora reduci dai passati eventi, creano infiniti ostacoli e disturbano le prove, realizzate nel piano inferiore dello stesso palazzo, quello dell'antico DOPS ( Dipartimento dell'Ordine Pubblico e Sociale). " Lo spettacolo non è contro la polizia, ma contro la tortura che ancora oggi viene praticata in qualche commissariato e caserma militare", spiega l'afflitto regista.


Bananas

Ironizzando sulla grande moda del jazz a Parigi, dopo la fine della II Guerra, Jean-Paul Sartre, in un articolo intitolato Jazz 1947 ha scritto: "La musica jazz è come una banana: la si deve mangiare sul posto". E aggiunse che i musicisti francesi erano "imitatori della malinconia". Ma, via via che il tempo passava, questa affermazione diventava sempre meno vera. Se negli anni venti Parigi riusciva solo ad ascoltare quella nuova forma di arte, già negli anni trenta Reinhardt e Grappelli mostrarono come farla. E negli anni successivi Parigi fu protagonista di un'eccellente "sfornata di grandi musicisti, che facevano successo a S.Germain: Guy Laffitte, Pière Michelot, Guy Pederson, Henri Renaud e il celebre Jean-Luc Ponty."
Diceva Renaud: " S.Germain ha fatto per la musica ciò che Montparnasse ha fatto per la pittura dopo il 1918. E non si trattava di una musica qualsiasi. Era Jazz."
Infatti, a partire da quegli anni Parigi è diventata la capitale del jazz, anche includendo gli Stati Uniti nella lista. Lì, soltanto negli anni '60, oltre le presentazioni frequenti di Lawis Arnistrong all'Olympia, si esibivano anche Erroll Gadner, Miles Daves, Dizzy Gillespie, Chet Baker, Zoot Sins e Dexter Gordon. In omaggio a quest'ultimo, nell'ottantasei, il regista Bertrand Tavernier ha realizzato quello che è forse il più bel film sul jazz mai realizzato: Round midnight (Intorno a mezzanotte).


I mangiatori di anime

Ahmadou Kourouma è tra i più grandi narratori africani vivi. Paragonato dalla critica francese a Garcia Marquez e a Roa Bastos, lo scrittore della Costa d'Avorio, famoso oggi soprattutto per Aspettando il voto delle bestie selvaggie e Alah non è obbligato (questo titolo esprime la filosofia del suo piccolo protagonista: "Alah non è obbligato ad essere giusto con tutte le cose che ha creato quaggiù"), ha parlato in una recente intervista sulla difficoltà di scrivere in francese in Africa e sulla conseguente necessità di adattare la lingua alla realtà da lui descritta. Di ciò ha fornito un esempio eloquente: "la parola mangeur-d'âme esprime un mito secondo il quale, durante la notte, le persone del villaggio si trasformano in civette e condividono l'anima della persona che vogliono mangiare, e quando quell'anima è mangiata la vittima muore, ovunque essa sia, a Parigi, in un incidente in macchina, non importa. Ma essa muore perché la sua anima è stata divorata. La nostra giustizia interviene quando la persona che ha mangiato l'anima riconosce di averla mangiata. Allora, essa è giudicata e condannata. E' quindi una parola molto importante ma che in lingua francese non ha alcun senso".


Culture e liberazione

Luis Gutiérrez, ministro della pubblica istruzione di Cuba - paese che presenta i migliori programmi educativi del continente Latino America, insieme a severe restrizioni sulla libertà di opinione - ha concepito un progetto per il futuro del paese che punta sull'utilizzo della TV come principale strumento di diffusione della cultura. "Il nostro scopo" - dice lui in una riunione con i ministri della Pubblica Istruzione, promossa dall'Unesco - "è quello di riuscire a fare sì che tutti i cubani abbiano una cultura generale ed integrale. Nel mondo di oggi, con un'informazione tanto polarizzata, la cultura è l'unico strumento per salvare i nostri paesi. Un uomo incolto, che non sa riconoscere le diverse correnti filosofiche, che non sa distinguere tra le diverse possibili strategie economiche, non è un uomo libero." E prosegue: "C'è colonizzazione culturale degli USA anche in Europa. Noi crediamo che la cultura possa essere tanto un elemento di dominio, quanto di liberazione. Quello che vogliamo è che in dieci anni Cuba si trasformi in un paese di uomini colti".


Il diritto alla permanenza

"Il castello è il più bello e il più misterioso dei romanzi di Kafka", diceva Herman Hesse. Dire che è "il più bello" ci fa ingarbugliare nella matassa dei gusti personali. Ma è di sicuro il più misterioso, perché in esso più che la perplessità di qualcuno che si vede trasformato in un insetto, o di uno che viene giudicato per un delitto che ignora, c'è un'altra ignoranza ancora più radicale: K., il narratore, non sa nemmeno che cosa stia accadendo a lui o contro di lui - ammesso che qualcosa accada. In Il processo, Josef K. sa, almeno, di essere accusato in tribunale, anche se non sa il perché; nella Metamorfosi, Gregor Samsa è sicuro di essere diventato uno scarafaggio, anche se questa convinzione non è sufficiente per farlo scappare. Ma in Il Castello, a K. è addirittura vietato l'accesso al nome del male che lo colpisce - ammesso che ci sia un male che lo colpisca.
Il romanzo è un intreccio che giunge ai confini della mente umana, ai suoi abissi ma è anche una storia sul vuoto, sull'ossessione, sui sentimenti puri e irragionevoli.
Poco prima di morire, nel 1924, Kafka confessò all'amico Max Brod che aveva già scelto un finale per Il Castello. In questo abbozzo K., anch'esso sul letto di morte, sarebbe stato avvisato che le autorità del Castello avevano deciso di permettergli di continuare a vivere nel villaggio, anche se senza il diritto di rivendicare tale permanenza, come se lì non fosse. Chissà se non è proprio questa la metafora perfetta del posto che Frank Kafka occupa nella letteratura del nostro tempo: rispettato, consacrato, letto, ma nonostante tutto refrattario ai continui ed insistenti tentativi di interpretazione. Lui è impenetrabile. A questa opacità numerosi critici riconducono la grandezza della sua opera.


La statua e il marmo

Susan Sontag: "Riscrivere e poi rileggere sembra uno sforzo, ma in verità è la parte più piacevole della scrittura. A volte è l'unica parte piacevole. Cominciare a scrivere quando si ha in testa l'idea di letteratura è una sfida incredibile. Un'immersione in un lago ghiacciato. Dopo viene la parte calda: quando hai già qualcosa da perfezionare, da correggere. Mettiamo che il risultato sia proprio scadente. Ma tu hai l'opportunità di migliorarlo. Provi ad essere più chiaro. O più profondo. Più eloquente. Più eccentrico. Provi ad essere fedele ad un mondo. Vuoi che il libro sia più avvolgente, più decisivo.Vuoi estrarti da te stesso. Vuoi estrarre il libro dalla tua mente indecisa. Così come la statua rimane incompiuta nel blocco di marmo, il romanzo è dentro la tua testa. Tu cerchi di liberarlo. Provi a mettere quel guazzabuglio sulla pagina nella forma più vicina a ciò che tu credi il libro debba essere - ciò che tu sai, nei tuoi spasmi di ispirazione, che esso potrà diventare. Rileggi le frasi diverse volte. Ma è questo il libro che sto scrivendo? Solo questo?"


Le avanguardie latine

E' uscito recentemente in Spagna l'opera in 5 volumi Vanguardias latino-americanas - historia, critica y documentos, di Gilberto Mendonça Telles e Klaus Müller-Bergh. Le "avanguardie", che sempre costituiscono movimenti di disorganizzazione nell'universo artistico delle loro epoche, hanno avuto un ruolo di grande rilievo per la costruzione della moderna letteratura e arte nell'America Latina del primo '900, soprattutto in Messico, Cile, Perù e Cuba. Per esempio, i messicani Diego Rivera e Carlos Mérida hanno conosciuto direttamente in Francia e poi in Italia, le manifestazioni avanguardiste che più tardi avrebbero ricreato nel loro paese.
Oscillando tra due impulsi apparentemente contraddittori - il futurismo (1909) e il dadaismo (1916) da una parte, che volevano la distruzione del passato e la negazione dei valori estetici del presente, l'espressionismo (1910) e il cubismo (1913) dall'altra, che vedevano nella distruzione la possibilità di costruzione di un nuovo ordine superiore - i latino-americani, uscenti allora da una società eminentemente rurale e alla ricerca di valori urbani, hanno riproposto le idee europee adattate alla realtà locale, con grande entusiasmo. E' stato il caso, ad esempio, del movimento "Pau Brasil" e del "Manifesto antropofagico" (1922). L'influenza delle avanguardie si fa sentire intensamente fino ai nostri giorni in quel continente. La "poesia concreta" degli anni '50 e l'architettura monumentale di Niemeyer, il creatore del Brasilia, opera degli anni sessanta, sono alcune fioriture tardive di tale incontro.



L'amante che dorme

Dal diario del poeta, giornalista e cantautore carioca Antonio Maria, scritto alla fine degli anni '50: " Nessuna emozione è più forte di entrare nella stanza dell'amante che dorme. Sentire il suo odore e il calore nell'aria. Sdraiarsi accanto a lei, se possibile ubriaco. Toccare la sua pelle potente. E fare l'amore con lei, senza altre parole che non siano quei rozzi evviva dell'amore. Dopo dormire, come nella morte. Dopo svegliarsi sotto il peso degli incalzanti doveri da compiere."




       Copertina.