CHE NE È DEI MORTI

Carlos Barbarito



I


Che ne è dei morti? Non sudano,
non pagano le tasse, e non espettorano.
Nessun pomeriggio,
non è mai presto, nulla d'aureo e di consolidato.
Brucerà tra poco il buco,
un topo verrà ad illuminare
con i suoi occhi il più sciupato dei catechismi,
ritorneranno quelle leggiere lenzuola,
nel mezzogiorno di Tunisi o di Cipro?
È no. È un telone senza scenario, al piede di un improbabile paradiso.
È profezia che si emana per nessuno.
Però, i vivi?


II

Ciascuno con la sua lingua, la sua seggiola pieghevole,
il suo orologio trattenuto un'ora prima
della tormenta, il suo frutto preferito,
il suo modo di amare, e di chiudere la porta.
Ciascuno con la sua nudità,
personale, non trasferibile. E
certa amara libertà,
certa dolce schiavitù,
un posto in un interminabile corteo
che attraversa le acque
fino ad una ipotetica terra ferma.
Da qualche parte, il suono
di un martello contro l'incudine.

Lo ascolto, quantunque chiuda le finestre,
e cerchi di pensare a qualcos'altro.
Un suono distante,
prodotto da un anonimo, oscuro fabbro,
fa in pezzi la mia casa,
nudo e solo mi sfracella sulla terra.
Adesso ogni cosa è flusso
e riflusso d'acque, sisma
nelle alte profondità, alberi
piegati dal ciclone, o bruciati
dalla cima dal fulmine.
E adesso, nudo e solo,
caduto in mezzo alla terra,
tra ciò che cade, si rompe,
esplode, si disperde e si perde,

dovrò aspettare l'improbabile pietà
di qualcuno che non mi conosce
ed ignora l'effetto dei colpi di martello?
Finge, dalla sua altezza,
d'essere la precisione, l'esattezza.
Però ha freddo quando si fa buio,
ha bisogno di una menzogna, quando scopre
una macchia nella parete più bianca.
Da ogni parte domande:
affilate, perentorie.
Un olio fluisce da un angolo vuoto,
pretende d'essere l'analogia di ciò che è vivo,
si secca e si trattiene,
riducendosi ad uno stretto occhiello,
in misera teologia.

Sotto, assai sotto, più sotto
dell'oscuro sogno,
beve la sua porzione di polvere,
ed io dalla mia povera cartilagine la chiamo.
Vedo le sua affrettate nozze con il muschio, ed è sola.
Vedo i suoi sfrontati capelli, ed è sola.
Vedo i suoi occhi già cifrati, il suo racconto senza logica, ed è sola.
C'è un odore, lì, alla luce che non sa,
all' ombra che ignora, al vestito gelato,
e senza bottoni, lì ci sono
carrucole che fanno scendere la materia
ed innalzano la cenere, fanno scendere la cenere
ed innalzano la materia
senza centro, ne diametro, ne limite.

Nel centro del giorno, la morte, insepolta.
Nel mezzo della notte un fulmine gelato,
contro il legno che marcisce,
la parola che marcisce.
Chiedere una risposta, scintillare di bengala,
una ipotesi ingegnosa,
una polvere per il volto che è quasi solo ossa?
Sognare con una nevicata dove mai c'è stata la neve,
con una pioggia dove sempre dominò il deserto?

(Traduzione di Alessandro Prusso.)
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In lingua originale:
QUÉ ES DE LOS MUERTOS?

I

Qué es de los muertos? No sudan,
ni tributan, ni expectoran. Nunca tarde,
temprano, áureo, consolidado.
Arderá dentro de un rato el agujero,
una rata vendrá a alumbrar
con sus ojos el más ajado de los catecismos,
regresarán aquellas leves sábanas
en el mediodía de Túnez, de Chipre?
Es no. Es telón sin escenario, al pie de un improbable paraíso.
Es profecía que se vierte, para nadie.

Pero, y los vivos?

II

Cada cual con su lengua, su silla plegable,
su reloj detenido en una hora
anterior a la borrasca, su fruta preferida,
su modo de amar y cerrar la puerta.
Y cada uno con su desnudez,
personal, intransferible. Y
cierta amarga libertad,
cierta y dulce esclavitud,
un sitio en el interminable cortejo
que atraviesa las aguas
hacia una hipotética tierra firme.
Desde alguna parte, el sonido
de un martillo contra el yunque.


Lo oigo aunque cierre las ventanas,
intente pensar en otra cosa.
Un sonido distante,
producido por un anónimo, oscuro herrero,
echa abajo mi casa,
me arroja desnudo y solo al mundo.
Ahora todo es flujo
y reflujo de aguas, sismo
en lo más profundo, árboles
inclinados por el ciclón
o quemados desde arriba por el rayo.
Y ahora, desnudo y solo,
caído en medio de la tierra,
entre lo que cae, se rompe,
estalla, se dispersa y extravía,

deberé esperar la improbable piedad
de alguien que no me conoce
e ignora el efecto de su martillar?
Finge, desde la altura,
ser la precisión, la exactitud.
Pero siente frío cuando oscurece,
necesita una mentira
cuando descubre, en la pared más blanca,
una mancha. Desde todas partes,
preguntas, filosas, perentorias.
Desde una esquina vacía, un aceite fluye,
pretende ser analogía de lo vivo,
se seca y se detiene,
devenido en estrecho ojal, en mísera teología.

Abajo, muy abajo, más abajo
que el sueño oscuro,
bebe su porción de polvo,
y yo, desde mi pobre cartílago, la llamo.
Veo su apresurada boda con el musgo, y está sola.
Veo su pelo raído, y está sola.
Veo sus ojos ya cifrados, su cuenta sin lógica, y está sola.
Hay olor, allí, a luz que no sabe,
a sombra que ignora, a vestido helado
y sin botones, hay
allí poleas que bajan materia
y suben ceniza, bajan
ceniza y suben materia
sin centro, ni diámetro, ni límite.

En el centro del día, la muerte, insepulta.
En mitad de la noche, un relámpago helado
contra la madera que se pudre,
la palabra que se pudre.
Pedir una respuesta- estallido de bengala,
una hipótesis ingeniosa,
un polvo para el rostro que ya es casi sólo huesos ?
Soñar con una nevada en donde nunca hubo nieve,
con una lluvia donde siempre fue desierto ?






Carlos Barbarito




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