DALL'EST CON AMORE

- Un capitolo del romanzo Voglio un marito italiano -



Marina Sorina






Svetlana e Franco

Capitolo 5. La mia scelta.

Rientrai la mattina dopo. In casa non c'era nessuno. Rimasi per un secondo sulla soglia. Guardavo i mobili, gli stessi da vent'anni, aspiravo l'odore familiare delle nostre stanze, eppure qualcosa mi mancava. Pur avendoci passato tante giornate solitarie, non mi conoscevo questa specie di sconforto, questa voglia di girarmi e di trovare subito dietro di me una spalla, un sorriso, uno sguardo carezzevole. Mi mancava Franco, mi mancava la sua voce. Le due settimane che sarebbero trascorse prima che potessimo rivederci mi sembravano un'eternità. Squillò il telefono: era lui. Si era ricordato dell'ora di arrivo del treno mattutino, aveva aggiunto il tragitto in metrò e, cambiando le regole, mi aveva telefonato subito, senza aspettare la sera. E mi disse le stesse cose che pensavo io: che sentiva la mia mancanza a livello quasi percettibile, in una casa diventata vuota senza di me.
Com'era bello essere in sintonia! Era mai possibile? Poteva essere vero che noi, così diversi, ci capissimo al volo, senza parole, e che l'intesa fra noi resistesse alla distanza? Mi avvicinai alle finestre che la mamma aveva lasciate aperte. Che brava, avevo pensato, quando è uscita faceva ancora fresco, e lei aveva previsto che fra poche ore sarei arrivata, e aveva lasciato tutto aperto per far entrare aria. Immediatamente subentrava un pensiero contrastante: la signora Lorella, invece, non l'avrebbe mai fatto. Secondo la sua logica, per conservare una temperatura giusta in casa, d'estate, bisognava tenere chiuso, per evitare che il calore esterno invadesse le stanze. Altro che spalancare, avrebbe serrato le finestre e abbassato le tapparelle. Per lei l'armonia stava nel separarsi dall'esterno, nel mantenere l'equilibrio. Per mia madre, nel far circolare l'aria, nell'aprirsi al mondo. Dalle finestre in casa dei genitori di Franco, la mia mente passò a visualizzare il loro giardino. Bello, curato, e assolutamente vuoto: l'erba tagliata corta, qualche fiore di stagione e sempre le rose, il rosmarino, la salvia; le sdraio bianche, le piastrelle immerse nell'erba che tracciavano la via verso il cancello, il tagliaerba dimenticato in un angolino, e, al di là della siepe, oltre la stradina asfaltata, la valle, sempre diversa a seconda dell'ora, a volte velata dalla nebbia, a volte nitida come una fotografia, con i suoi giardini, vialetti, vigneti, i tetti rossi, i trattori minuscoli sui piccoli campi, le strade trafficate e le stradine di terra battuta, i muri di pietra, le colline verdeggianti e i monti innevati in lontananza. La bellezza, la natura, la pace e la stabilità.
E qui, vicino a me, che cosa vedevo? Fra le case e gli alberi piantati qua e là c'era la vita. Le solite vecchiette sulla panchina vicino alla porta d'ingresso tenevano d'occhio un giovane in canottiera che si affaccendava intorno alla sua macchina. Sotto lo strato di fango che stava diligentemente lavando via si cominciava a riconoscere una "Moskvìc" color crema. Ogni tanto l'orgoglioso proprietario lanciava un'occhiata verso il gruppo di giovani mamme coi passeggini; probabilmente fra quelle c'era anche sua moglie. Le neo-mamme erano quasi tutte più giovani di me. Uscivano nel cortile in tuta o vestaglia, ma truccate. Tutte quante sgranocchiavano i semi di girasole tostati: con un gesto automatico schiacciavano il semino fra le dita e se lo infilavano in bocca, sputando per terra il guscio. I loro bebè sonnecchiavano nei passeggini, cullati dal sole estivo. Vicino a loro dei bimbi piccoli giocavano con la sabbia, si dondolavano in tre sull'altalena e s'arrampicavano sulle strane costruzioni variopinte e arrugginite che componevano il piazzale giochi. Altri, grandicelli, stavano seduti sui rami di un gelso frondoso e si rimpinzavano di more di gelso. Avevano già i musetti sporchi di succo e restavano sull'albero, convinti di non essere visibili, osservando gli adolescenti che si davano da fare sulle sbarre. Quelli si consideravano ormai degli adulti; per emulare i loro fratelli maggiori, indossavano pantaloni larghi, capellini da baseball e magliette a rete o canottiere mimetiche che mettevano in mostra i muscoli. Mentre uno si esercitava sugli attrezzi, gli altri, in attesa del proprio turno, fumavano le cicche, sputavano per terra e sorseggiavano coca-cola. Cercavano di far credere che tutto ciò non avesse affatto lo scopo di farsi belli con le tre ragazzine, sedute sul tronco d'albero riattato a mo' di panchina e abbellito con delle chiazze di colore. Le ragazze sorridevano, captando le occhiate dei maschi; erano pesantemente truccate, indossavano le magliette aderenti e i pantaloncini corti che mettevano bene in vista le gambe snelle, esageratamente lunghe rispetto al corpo ancora acerbo. Lanciavano delle occhiate ai maschi e ridevano tra loro. Alle spalle delle ragazze, nell'ombra, intorno al tavolo costruito alla meno peggio, degli uomini di mezza età giocavano a carte, intercalando le battute con generosi sorsi di birra. Ogni tanto uno di loro s'alzava per andare al chiosco piantato in mezzo al cortile a prendersene un'altra. Le due matrone che vendevano una le noccioline e semi tostati, l'altra il pesce secco, lo chiamavano per nome, lodando le loro leccornie, indispensabili per chi intendeva passare una mattina serena con gli amici. Gli uomini le mandavano bonariamente a quel paese. Ci si fermò invece una signora di ritorno dal mercato, con le sporte piene di frutta e verdura e la figlia che trascinava la sua parte del carico. La donna appoggiò le borse per riprendere il fiato e scambiare due parole con le venditrici, poi si decise e comprò un bicchiere di noccioline, versandole direttamente nella tasca della bambina. Proseguirono, cariche, verso il loro androne. Chi sono delle due, pensai? Dieci anni fa potevamo essere io e mia mamma, oggi avremmo potuto essere io e la figlia… che non ho mai avuto. Qual è il mio posto in questo quadro?
Così era, così è e sarà così sempre la loro vita. I bambini cresceranno, gli adulti diventeranno vecchi, i vecchi moriranno, nell'eterno susseguirsi delle generazioni, ma la sostanza resterà invariata. Questa è la mia gente. Facce note, abitanti di case uguali alla mia che vestono abiti uguali ai miei, mangiano le stesse cose e guardano le stesse trasmissioni in TV. Basta un'occhiata per capire quanti anni hanno, che lavoro fanno, dove stanno andando, di che umore sono. Un mare d'umanità comprensibile, avvolgente, a volte soffocante ma sempre sincera e schietta, a volte fin troppo. Potevo dire che erano tutti uguali da far schifo, potevo dire che erano tutti simili, i miei simili. Potevo chiamarli rozzi, oppure ingenui. Potevo definirli primitivi, oppure genuini. Potevo rimproverarli di essere attaccati uno all'altro, dipendenti dalla comunità, troppo invasivi e conformisti. Potevo invece ricordare come questa tendenza a fare comunella mi aveva salvata quando ero capitata in una brutta situazione. Chi mi avrebbe dato una mano, se ciascuna delle badanti che avevo conosciuto a Bologna avesse pensato solo a se stessa? Sarei mai arrivata in Italia se non mi fossi messa a difendere Katerina?
E se guardassi questo mondo da un altro punto di vista, quello italiano? Sentivo di essere già scissa, di avere due pesi e due misure: conoscevo abbastanza gli italiani per poter fare delle previsioni. Un signor Umberto, una signora Angela, guardando lo stesso cortile si affretterebbero a serrare le finestre onde evitare di essere urtati dalla visione di una folla di pezzenti, da quel formicaio di gente consumata dagli anni: persone dall'aspetto trascurato, volgari, sboccate, impiccione; sgobboni morti di fame che fanno tesoro di una ridicola macchina vecchia di quindici anni, si pavoneggiano con delle magliette cinesi da quattro soldi e si sentono i re del mondo a sgusciare i semi di girasole in compagnia di altri sfigati. Un estraneo avrebbe cercato di tirare giù la tapparella: solo che qui, da noi, le tapparelle non erano previste.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Ma cosa mi saltava in mente? Ero stata via meno di un anno e la mia percezione della realtà era già mutata e sdoppiata? Credevo di riuscire a non allontanarmi dalle mie origini, vivendo lontana? Credevo davvero che sarebbe bastato tornare ogni tanto per ripristinare i legami affettivi con il luogo della mia infanzia? Non si può entrare due volte nelle stesse acque. Col tempo, mi sarei sentita sempre più estranea al ritorno. Avrei mai potuto compensare questa perdita d'unione con il mondo, italianizzandomi, amando altre persone, amando un'altra terra, quella stessa che avevo amato nei miei sogni per tutta la vita?
Mi allontanai dalla finestra e mi decisi a preparare un boršc, il piatto forte della cucina ucraina, un super-minestrone composto da svariate verdure. All'estero mi era mancato molto. Non potevo cucinarlo a Verona perché non avevo mai visto al supermercato un ingrediente fondamentale: la barbabietola, che lo colorava del caratteristico colore rosso rubino, e poi c'erano le patate, i cavoli, la cipolla, la carne, la carota, l'aneto, gli odori… Avevo cominciato a mondare e sminuzzare le verdure, soprappensiero, continuando a rimuginare sul mio futuro.
Ripensavo al giardino della signora Lorella. Quello spazio perfetto, in confronto al cortile di casa mia, appariva più simile alle foto dei cataloghi di vendita per corrispondenza tedeschi, quei libroni sfaldati che all'età di quindici anni sfogliavamo io e la mia amica Dina, come se fossero delle Bibbie, delle mappe di un mondo fantastico e illusorio.
La mia realtà era quella che vedevo dalla finestra. Io che avevo sempre creduto di essere diversa, destinata a un futuro migliore, scoprivo, di fronte alla necessità di staccarmi da tutto ciò, che ero legata al suolo nativo più di quanto avrei potuto immaginare. L'aver già sperimentato il distacco una volta mi faceva presagire la gravità dell'emigrazione definitiva che, anche se voluta e motivata, comportava uno strappo drastico da tutto quello che ero abituata a considerare intrinseco alla mia esistenza. Per quanta fiducia un emigrato possa riporre nella sua nuova famiglia, nel suo amore lontano, si sentirà sempre solo. Potrà avere dei figli, viverci anche trent'anni, rinunciare alle proprie abitudini, impegnarsi a emulare a tutto tondo i nuovi connazionali. Sarà sempre e ovunque uno straniero, uno strano, uno diverso. Non potrà mai più sentirsi davvero parte di qualcosa perché tornando in patria troverà i vecchi alberi tagliati, le nuove case costruite, e gli altri lo guarderanno e sapranno che è uno straniero. Straniero dovunque vada. Ero pronta a compiere il salto e accettare questa condizione?
Avevo una reale possibilità d'influire sul mio destino, evitare di compiere il ciclo vitale a cui era condannata una donna ucraina, con i suoi alti e bassi, poche certezze e molte rinunce, con la sua dignità e la sua forza. La vita che mi aspettava in Italia - stabile, protetta, benestante, - faceva davvero per me? L'amore di Franco, la simpatia dei suoi genitori, la bellezza del posto dove abitavano, il lusso di una casa spaziosa e la soddisfazione di una pancia sempre piena avrebbero costituito una compensazione sufficiente per essermi staccata dalle radici, tagliata fuori da questo grande corpo in cui ero cresciuta. Mi stavo sottraendo a un destino collettivo, ne avevo il diritto? Perchè proprio io e non una qualsiasi di queste donne?
La mia riflessione andava a fasi alterne. Pensavo a Franco, al suo calore, alla sua sincerità e lo confrontavo con tutti quei ragazzi rudi e brutali che avevo conosciuto al mercato. C'era forse da dubitare che un italiano come quello non fosse mille volte meglio di loro? Volevo avere una famiglia? Di certo l'avrei potuta creare con maggiore tranquillità a San Crispino. Lì mi aspettavano una casa accogliente e quasi di proprietà, un marito che mi adorava e, tra l'altro, con un impiego fisso. Avrei potuto rilassarmi e stare in casa senza mai faticare. Un attimo, era forse una buona ragione, quella? Non mi sarebbe andato di traverso il pane se non l'avessi guadagnato? Ero sicura che nessuno mai me l'avrebbe rimproverato, quel boccone regalato? Ero sicura che non m'avrebbero trattata di nuovo come una prostituta solo perché ero alta e bionda? Che nessun parente o vicino mi avrebbe guardata con disprezzo convinto che fossi un'arrampicatrice sociale che sta spellando un povero sempliciotto sfigato? Senza andare tanto lontano, probabilmente anche le mie compagne al mercato stavano sparlando di me, invidiandomi l'aver acchiappato uno straniero? E l'amore per Franco sarebbe stato altrettanto forte se lui non fosse stato italiano, se avesse vissuto in una catapecchia, se avesse avuto genitori xenofobi o bigotti?

Mi rimproveravo di aver scelto la via più facile e quindi meno dignitosa; mi davo della sognatrice, della credulona romantica pronta a correre dietro al primo che le aveva giurato eterno amore, come un cucciolo che non sa ancora che le promesse sono solo parole buttate al vento e che ogni fuoco si spegne prima o poi. Demolivo ogni scusante, ogni mia spiegazione interna, dandomi della venduta, della facilona, dell'ingrata pronta a mollare la madre per uno qualunque che prometteva mari e monti. Piangevo, stringevo i pugni, perché, superando e spianando tutti gli argomenti della ragione, riaffiorava nella memoria il sorriso di Franco, la sensazione della sua mano sul mio seno, il ricordo della dolcezza del suo tocco, la brezza del lago e il profumo delicato del gelato alla vaniglia. Ogni ricordo dolce, però, era adombrato dalle visioni ossessive: il giardino immobile che sembrava un quadro, la notte costellata dalle luci che mi rincorrono e s'allontanano, il corridoio delle viti e il nero asfalto dell'autostrada che mi aveva portata da Franco. L'Italia non era un paradiso, nemmeno un inferno: era solo il luogo "altro", dove avrei dovuto ricostruire la mia identità, nemmeno da zero, ma a partire dai pregiudizi della gente che ci abitava, impiegando il doppio dello sforzo per raggiungere qualsiasi obiettivo, superando gli ostacoli che la maggior parte degli italiani non poteva nemmeno immaginarsi. E soprattutto, immergendomi nella solitudine del diverso, la solitudine senza ritorno, che non poteva essere sciolta né da uno mio sforzo cosciente, né dai sentimenti amorosi, né dal passare del tempo. Ne valeva la pena, per amore di una persona che non conoscevo davvero, per una serenità di facciata, per i vantaggi materiali? Nessuna di quelle cose prese singolarmente valeva il tormento di un'eterna alienazione. Non sarebbero valse nemmeno messe insieme, se dall'altra parte della bilancia c'era mia madre, la sensazione di appartenere a un popolo, la certezza di non essermi macchiata con scelte di comodo. D'altronde, forse sarebbe stato sufficiente mettermi a lavorare sodo per lavare l'onta del sospetto che molti, come avevo avuto modo di accertare, nutrivano nei confronti delle "slave". Forse sarebbe bastato farmi conoscere, comportarmi da persona sincera e onesta, gentile e curiosa, pronta a cambiare e ad adattarsi, e poi cercare di mettermi al lavoro al più presto, assimilare i modi di fare degli italiani, carpire le leggi che regolano il loro comportamento.

Mentre così riflettevo, un'altra immagine si era cristallizzata nella mia mente. Era una porta, una semplice porta chiusa. Avrei saputo che cosa c'era dietro solo aprendola e varcando quella soglia; a condizione di non poter mai più tornare indietro. Potevo vincere, potevo perdere. Potevo trovare il vero amore, potevo finire delusa e svuotata. Rischiavo di smarrirmi o ritrovarmi inaspettatamente felice; potevo aiutare molte persone a vivere oppure rovinare definitivamente la mia stessa esistenza. Poteva succedere di tutto. Se non l'avessi aperta, non avrei mai potuto sapere che cosa mi riservava. L'occasione era qui, a portata di mano. Dovevo solo allungare la mano, spingere con un dito e fare un passo avanti.
E così feci.





(Tratto dal libro Voglio un marito italiano, Edizioni Il punto d'incontro, Vicenza, 2006)



Marina Sorina è nata nel 1973 a Charkov, in Ucraina. Ha studiato a Charkov e a Gerusalemme. Vive in Italia dal 1995 e in questi anni ha pubblicato articoli e racconti su riviste letterarie quali Ostrov, Nevskij Prospekt, Urbe et Orbi, PiterBook (Russia), Zvenja (Israele), Sojuz Pisatelej (Ucraina), Ulov - 2000 e ha tradotto in Russo un ciclo di poesie di Pier Paolo Pasolini. Si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Verona con una tesi sulle traduzioni di Gogol in Italiano, Dal 2005 svolge un Dottorato di ricerca dedicato alla storia editoriale delle traduzioni dal Russo in Italiano.

 


        
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