L'irresponsabilità
della letteratura
- Parte dell'intervento letto a Venezia, Fondamenta, Giugno 1999 -
José Saramago
Con l'apparente impeccabilità del suo magistero, il dizionario afferma
che "tolleranza" e "intolleranza" sono concetti e pratiche
incompatibili fra loro, e, definendoli in questo modo, ci istiga implicitamente
a situarci, escludendo altre alternative, in uno o nell'altro di quei due poli,
come se, fra di loro oppure oltre a loro, non potessero esistere altro concetto
e altra pratica. Di fatto, noi non disponiamo del concetto identificatore, della
bussola, della mappa, della pietra di paragone, ma se un tale concetto non è
ancora entrato nei nostri dizionari è solo perché non dimora nella
nostra intelligenza la consapevolezza folgorante che lo potrebbe far nascere.
Parafrasando liberamente Marx, dirò che gli uomini non possono, prima del
momento giusto, creare le parole, di cui, senza saperlo o non volendo sapere,
cominciavano già vitalmente ad avere bisogno. Orbene, osservate le situazioni
e ponderati i comportamenti, che cos'è la tolleranza se non una intolleranza
ancora capace di controllarsi, ma sempre sotto la minaccia del momento in cui
le circostanze le strappino la maschera delle buone intenzioni che circostanze
di segno contrario le avevano appiccicato alla pelle, come se apparentemente fosse
la sua stessa pelle? Quante persone, oggi intolleranti, ancora ieri erano tolleranti?
Tollerare significa consentire, subire, ammettere, sopportare, soffrire, permettere,
in poche parole, la tolleranza è il non opporsi a qualcosa o a qualcuno,
pur avendo il potere di farlo (...) Messo il problema in questi termini, sembrerebbe
vietata allo scrittore (per rispetto della logica, non per mio decreto) proprio
la via in cui, con maggior frequenza e con maggior disinvoltura, egli ha esercitato
la propria capacità interventista: e cioè, predicare al mondo gli
indiscussi meriti della tolleranza. È chiaro che lo scrittore potrà
e dovrà continuare a farlo: il poco è sempre meglio che il niente.
Ma, a meno che non vi sia un errore in qualche punto del mio ragionamento, ormai
non è più accettabile trovare sufficiente soddisfazione nella difesa
e nell'esercizio della semplice tolleranza. Tutti i nostri atti e le nostre parole
in questo campo dovrebbero orientarsi, in senso molto più ampio, verso
un esame critico e spoglio di idee preconcette, per quanto generose esse siano
state e sembrino ancora essere. Fintanto che la tolleranza sarà considerata
come il punto più avanzato che sia possibile raggiungere nella modificazione
positiva dei rapporti umani, continueremo a vivere un'illusione di umanità.
Tentiamo di coprire una situazione tragica con il velo della fantasia, che tanto
potrà essere, nel migliore dei casi, più o meno bene intenzionata
nella sua inconsistenza, come, nel peggiore, sinistramente ipocrita. Che ruolo
potrà svolgere, allora, lo scrittore, quello scrittore a cui è stata
tolta l'antica funzione di fare strada alle verità possibili? Che dirà,
che scriverà, lo scrittore, se diviene sempre più chiara l'impotenza
della letteratura, di ogni opera letteraria e del loro insieme, di influire nella
vita sociale? Che valore dovremo dare all'opinione di coloro che, contro l'evidenza
dei fatti, ancora includono la letteratura fra gli agenti di trasformazione sociale,
una definizione, questa, da intendere non tanto come riferita alle conseguenze
derivanti da fattori estetici (la qual cosa nessuno, certamente, negherà),
bensì alle influenze etiche determinanti, indipendentemente dal carattere
"positivo" o "negativo" delle loro manifestazioni? Secondo
questa maniera di pensare, ed estrapolando a beneficio del mio ragionamento forme
e contenuti storicamente differenziati, in modo da abbracciare in un solo sguardo
l'insegnamento, la letteratura e la cultura in generale, dovremmo concordare,
oggi, e malgrado le drammatiche smentite della realtà, con la panglossiana
convinzione dei nostri nonni ottocenteschi, per i quali aprire una scuola equivaleva
a chiudere una prigione. Ce lo dicano le statistiche scolastiche e giudiziarie
se la massificazione dell'insegnamento sia venuta a configurarsi, di fatto, come
prevenzione sufficiente o come antidoto efficace contro la massificazione della
criminalità, senza dubbio una delle caratteristiche inquietanti della fine
di questo secolo. Ma tralasciamo le scuole, tralasciamo l'arte, la filosofia
e la scienza, campi nei quali mi mancano sapere e autorità per una adeguata
riflessione, e torniamo alla letteratura e al suo rapporto con la società,
in particolare nel campo dell'etica e dell'assiologia, e ammettiamo, per quanto
disillusa ne possa risultare altra convinzione, che le opere dei grandi creatori
letterari, da Omero a Cervantes, da Dante a Shakespeare, da Camões a Dostoevskij,
non sembra abbiano originato, in senso stretto, alcun effettivo cambiamento sociale,
anche quando hanno avuto una forte e a volte drammatica influenza su comportamenti
individuali o di gruppo. Nel piano dell'etica, dei valori, del rispetto umano,
si vorrebbe dire, senza ironia né cinismo, che l'umanità (mi riferisco,
è chiaro, a quello che siamo soliti designare come mondo occidentale) sarebbe
esattamente quella che è oggi, se Goethe non fosse venuto al mondo. E che,
a suffragio questa idea, non risulta che la lettura dei Fioretti di San Francesco
di Assisi abbia mai salvato la vita a una sola delle vittime dell'Inquisizione...
La letteratura, anche quando per ragioni politiche o religiose si è dedicata
a missionarismi di conversione o a ingegnerie di nuove anime, non solo non ha
contribuito a un'inflessione positiva e duratura dei corsi sociali, ma spesse
volte ha provocato insanabili sentimenti di frustrazione individuale e collettiva,
derivanti da un bilancio negativo fra le teorie e le pratiche, fra il detto e
il fatto, fra una scrittura che proclamava uno spirito che non si riconosceva
nella scrittura. Inevitabilmente, queste disincantate considerazioni su di
un ipotetico ruolo dell'opera letteraria come fattore di influenza sociale finiscono
per condurmi a una conclusione pessimista e apparentemente insormontabile; quella
dell'essenziale irresponsabilità della letteratura (...) Se la letteratura
è, de facto, irresponsabile, nella duplice accezione che non le
si possano imputare, sia pure solo parzialmente, il bene e il male dell'umanità,
e che quindi essa non è obbligata, né per pentirsi né per
rallegrarsene, a renderne conto in nessun tribunale d'opinione; se, al contrario,
la letteratura sembra essere, nel suo svolgersi, salvo rarissime eccezioni, e
comunque in tali casi come semplice contraddizione, un riflesso più o meno
immediato delle mentalità sociali predominanti e dei loro successivi cambiamenti,
allora ci troviamo ironicamente ricondotti al punto di partenza, alla sempiterna
interrogazione su ciò che dovrà essere e a che cosa servirà
la letteratura, maggiormente quando nella vita dei popoli si è diffuso
il sentimento inquietante che, se pure essa non ha apparentemente cessato di esistere,
avrà palesemente cessato di servire. Anche se il possibile determinismo
della conclusione può suscitare costernazione o indignazione in certe vanità
letterarie, più propense di quanto consiglierebbe la modestia a dilatare
il proprio ruolo nella repubblica delle lettere e nella società, in generale,
la letteratura non ha trasformato né trasforma socialmente il mondo. Più
rigorosa, e facilmente comprovabile, sarà l'affermazione che è il
mondo ad avere trasformato e a trasformare socialmente la letteratura.
José Saramago, scrittore portoghese, Nobel per la Letteratura 1998.
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