Il grande sogno del paradiso
Sam Shepard
Fra i due vecchi pian piano
era nata una sfida orgogliosa su chi riusciva ad alzarsi prima al mattino. Chissà
com'era cominciata. Sherman, più giovane di tre anni, ultimamente aveva
preso l'abitudine di strisciare fuori dal sacco a pelo alle quattro e mezza. Attraversava
scalzo il linoleum rosso nel buio pesto, strisciando accuratamente i piedi per
evitare anche il piccolo cic-ciac delle piante che a ogni passo si incollavano
al pavimento. Avvolgeva uno straccio attorno alla catenella di accensione del
neon sopra il lavandino del bagno per attutire il ronzio della lampada che si
scaldava gettando un tremulo riflesso verdognolo sul volto addormentato del suo
amico Dean, il suo vecchio amico Dean. Sherman non sapeva di preciso da dove veniva
quella profonda soddisfazione per essersi aggiudicato la gara del "risveglio
mattutino". Non si vincevano soldi. Non c'erano premi di nessun genere. In
linea di massima non si faceva il minimo accenno alla cosa. Per la verità
non ricordava che fosse mai stata formalizzata una competizione vera e propria.
Era nata così, nel corso degli anni, da tutte le giornate e le notti passate
insieme. Restava tuttavia quella sensazione di vittoria. Inconfondibile. A volte
la sentiva nei piedi, un calore che saliva lentamente per i polpacci e dietro
le ginocchia. Oppure la sentiva nel petto e nelle braccia, e in un mattino carico
di elettricità l'aveva sentita direttamente alla sommità del capo.
Gli si era accesa tutta la testa. Se lo ricordava bene. Si era accesa proprio
come il neon sopra il lavandino del bagno, un bagliore vivo che gli aveva riempito
il cranio, era sceso giù per la nuca e la colonna vertebrale e poi gli
era parso illuminare tutto il suo corpo. Era una luce che non aveva mai conosciuto
prima di allora e l'unica cosa a cui la poteva paragonare era un sogno sul paradiso,
che aveva fatto quando aveva una decina d'anni. In quei sogno gli era apparsa
una luce simile e ricordava ancora la sensazione di essere collegato a una fonte
di energia potente come il sole. Da bambino, per giorni se n'era andato in giro
con il ricordo di quel sogno in testa, ma la luce non era tornata mai più
finché, anni e anni dopo, non era venuta fuori quella faccenda con Dean,
quella tacita sfida sul risveglio. La sensazione di vittoria di Sherman era però
durata poco, perché già il mattino dopo Dean era riuscito a fingere
di dormire e mentre ancora Sherman ronfava e gorgogliava sul cuscino, lui si era
seduto dritto come un fuso, gli occhi spalancati, sulla sedia imbottita. Dean
aveva sistemato la sedia proprio accanto al sacco a mummia di Sherman, in modo
che non ci fossero dubbi su chi era il vincitore della mattinata. Dean non vedeva
l'ora che il sole si alzasse quanto bastava a scaldare le palpebre di Sherman
e fargliele aprire. E lui se ne stava lì, a guardare quel suo volto lungo,
mentre Sherman si dibatteva fra qualche sogno-REM e la consapevolezza di aver
perso. Dean osservava gli occhi di Sherman ruotare e muoversi dietro le palpebre
come quelli dei cani. Anche i mugolii e i gemiti che provenivano dalla gola di
Sherman erano simili a quelli di un cane addormentato. Che diavolo stava sognando?
Donne non più... no, quello no di sicuro. Dean sperava che non stesse sognando
donne. Per il bene di Sherman. Erano tutti e due troppo vecchi per quelle cose.
Troppo doloroso. Perché torturarsi quando si poteva godere dei semplici
piaceri della vita nel deserto? Il canto delle quaglie nascoste nell'ombra, il
profumo del bacon, il domino, avvistare la polvere sollevata dal furgone della
posta da lontano, chilometri e chilometri, contro il profilo frastagliato della
Smith Mountain. Ma soprattutto, il grande piacere quotidiano che tutti e due attendevano
con impazienza, la passeggiata da Denny, giù vicino alla statale, per un
caffè e un hamburger al formaggio. Quello era il loro vero paradiso. Si
conoscevano da sempre, quei due. Cresciuti nella minuscola cittadina di Alma,
nel South Dakota (questo almeno era ciò che c'era scritto sull'ufficio
postale). Nel corso degli anni ognuno era andato per la sua strada ma erano sempre
riusciti a ritrovarsi finché alla fine, dopo separazioni o vedovanze, i
figli trasferiti in qualche inferno di computer e silicio, avevano deciso di dividere
la stessa casetta in muratura alla periferia di Twentynine Palms. Per loro andava
benissimo. Ormai vivevano lì, relativamente felici, da undici anni filati.
Avevano avuto i loro alti e bassi come quella volta che Sherman aveva scoperto
che Dean aveva sparato a sedici quaglie davanti al portico con il suo calibro
20 e poi aveva avuto il fegato di cucinarle nella padella nera e servire il tutto
a colazione con le uova strapazzate. Sherman aveva pianto le quaglie a calde lacrime
e Dean si era sentito in colpa per giorni e giorni, seduto sul dondolo a meditare
sul silenzio mortale che aveva creato attorno alla casa. C'erano volute due settimane
buone prima che le quaglie ritrovassero il coraggio di tornare con il loro verso
sommesso e tranquillo. A quel punto, Sherman aveva perdonato Dean e i due erano
passati a nuovi e più eccitanti interessi, per la precisione una cameriera
giù da Denny di nome Faye. Fra le cose che avevano in comune c'era un occhio
formidabile per le cameriere. Non cameriere carine o sexy, ma cameriere con il
cuore. Cameriere con i segni inequivocabili della disponibilità scritta
intorno agli occhi. Entrambi convenivano che fossero più uniche che rare,
ma la scoperta di Faye sembrò dare loro nuovo vigore. Tutti i giorni verso
le dodici si facevano una doccia, si radevano, si infilavano una camicia pulita,
cravattino texano e pantaloni cachi stirati, si calcavano in testa lo Stetson
Open Road e si avviavano sulla lunga stradina polverosa che scendeva alla statale.
Un attimo prima di aprire la porta di Denny si spazzolavano la polvere dagli stivali
e dai pantaloni, controllavano a vicenda di essere a posto, poi si toglievano
lo Stetson ed entravano nell'aria condizionata. Conoscevano a menadito l'orario
di lavoro di Faye e avevano cura di arrivare sempre all'ora di pranzo così
da osservare Faye in azione. Aspettavano pazientemente il tavolo, a volte anche
quarantacinque minuti, in piedi, uno accanto all'altro, il cappello tenuto con
entrambe le mani davanti alle ginocchia, solo per vedere gli straordinari fianchi
di Faye andare e venire dalla cucina con piatti di tacchino fumante e insalate
di pomodoro e bacon, elargendo a tutti quel suo sorriso struggente: grassi, brutti,
sgarbati, ubriachi, pazzi... non faceva distinzioni, ognuno riceveva lo stesso
radioso sprazzo di gentilezza dai suoi occhi. Non tutti se ne accorgevano e certamente,
secondo Dean e Sherman, nessuno di loro lo meritava. I tempi dei "gentiluomini"
erano finiti da un pezzo ma ogni giorno alle dodici i due facevano la loro comparsa
da Denny per testimoniare a Faye che la sua bellezza era una grande benedizione
in mezzo a tanta triste follia. E lei Io apprezzava. Il suo viso si illuminava
sempre un pochino quando li vedeva lì in attesa vicino alla cassa; quella
luce andava dritto alla testa di Sherman e lui pensava che magari lo stesso fenomeno
capitava pure a Dean, ma non gliene faceva mai parola temendo che Dean la trovasse
un'osservazione troppo esoterica. A Dean piacevano le cose chiare e semplici.
Quando finalmente gli indicavano un séparé, posavano i rispettivi
Stetson uno accanto all'altro, sottosopra, sul lucido rivestimento di vinile rosso.
Perché portava fortuna. Appoggiare un cappello con la tesa in basso voleva
dire votarsi alla malasorte. Lo sapevano entrambi. Ed entrambi avevano una tacita
intesa sul sottile cambiamento che la loro forma di "fortuna" aveva
subito nel corso degli anni. I soldi o il successo o la salute o il "futuro"
di qualsiasi tipo non c'entravano più: era questa la differenza principale.
"Fortuna" era diventata qualcosa che riguardava il presente. Un sostegno
del presente. Una sua celebrazione, anzi. Essere seduti lì in quel momento,
in quel séparé rosso con la schiena rivolta alla vetrina, al fiume
Colorado e al caldo torrido del deserto del Mojave, essere lì al fresco
dell'aria condizionata e vedere gli occhi di Faye e quel suo sorriso posarsi su
di loro mentre si avvicinava con il blocchetto e la matita per prendere l'ordinazione:
era fortuna della qualità più rara. Fortuna era avere un'amicizia
di lunga data alla loro età, un vero sodalizio, invece della terribile
condanna alla solitudine in una di quelle "case di riposo" tutte vetrate
che vedevano di tanto in tanto passando da Palm Springs. Nessuno dei due aveva
motivo di temere che quella loro fortunata condizione potesse mai subire cambiamenti.
Nei confronti della vita non avevano altre aspettative che quella routine quotidiana,
quel patto consolidato in virtù del quale avrebbero condiviso giorni e
notti senza complicazioni, senza troppe parole e con un profondo senso di soddisfazione
per dettagli minimi, come quel modo che aveva Faye di leccare il mozzicone di
matita con un lieve sospiro. E per Sherman e Dean le cose andarono avanti così
fino al dodicesimo anno nella loro casetta in muratura alla periferia di Twentynine
Palms, quando una mattina crollò il cielo. Sherman si svegliò leggermente
più tardi del solito e Dean non c'era. Guardò nelle stanze, sotto
il portico e nelle immediate vicinanze della casa, non senza essersi munito del
suo bastone di hickory per scacciare eventuali serpenti a sonagli, ma Dean era
introvabile. Sherman si preparò una tisana di salvia e del pane tostato
con mirtilli, poi si mise sotto il portico a guardare il sole che sorgeva trasformando
i colori della iucca e della manzanita. Vide un coyote attraversare furtivo la
strada sterrata con un ratto in bocca. Vide le vampe di calore alzarsi in fondo
dove cominciava l'asfalto e farsi sempre più larghe. Sentì le quaglie
azzittirsi via via che il sole si faceva più caldo e che al lontano rumore
dei camion in transito si univa quello delle auto sportive provenienti da Los
Angeles, lanciate verso i campi da golf, le donne e le lusinghe dei casinò.
Ebbe un pensiero fugace sulla propria gioventù ma lo scacciò subito.
Sapeva bene dove l'avrebbe condotto. Sentì gli scoppiettii del tetto di
lamiera ondulata del portico che cominciava a dilatarsi al calore del sole e si
rese conto di essere seduto là fuori sulla sedia a dondolo da oltre sei
ore. Di Dean ancora nessun segno. Ormai si stava avvicinando l'ora di andare a
trovare Faye da Denny e Sherman decise di cominciare a prepararsi; Dean sarebbe
ricomparso di sicuro nel frattempo. Chissà perché Sherman ci mise
un po' a scegliere la fibbia per il cravattino, ma alla fine si decise per quella
d'argento a ferro di cavallo con intarsi di turchese al posto dei buchi per i
chiodi. La scelse perché era l'unica che aveva anche Dean. Le avevano comprate
a un banco dei pegni su a Indio, pensando che gli avrebbero portato fortuna. Sherman
notò che dalla scatola mancava quella di Dean e quindi, ovunque fosse,
doveva averla addosso; se Sherman se la metteva forse si sarebbero ritrovati più
facilmente. Indossò senza fretta i pantaloni cachi, la camicia stirata
e l'Open Road, ma Dean non arrivava e non se ne vedeva traccia neanche sulla stradina
di terra battuta. Sherman cominciò a chiedersi se non fosse il caso di
fare una corsa giù al baracchino delle bibite e chiamare la polizia, casomai
ci fosse qualche segnalazione su Dean. Poi pensò che era troppo presto
e che il miglior modo per procurarsi la cattiva sorte è quello di cercarla.
Aspettò altri cinque minuti, in piedi sotto il portico strizzando gli occhi
in direzione della statale, attento a qualsiasi cosa che potesse avere la sagoma
di Dean, ma non apparve niente. Sherman si incamminò verso Denny con una
crescente sensazione di malessere all'altezza dello sterno. Non gli sembrava giusto
andare da Faye da solo. Aveva la sgradevole sensazione di tradire Dean, sebbene
l'avesse aspettato a lungo e avesse guardato dappertutto. Come si sarebbe sentito
lui se Dean fosse andato da Faye senza dirglielo? Sherman si fermò e si
voltò indietro. Guardò la casetta, la loro casetta. In quel momento
gli sembrò più vuota. Più vuota di quando loro due, camminando
fianco a fianco, tornavano da una delle loro lunghe camminate giù all'ufficio
postale o al negozio di alimentari o da Denny. Ora poteva essere la casa di chiunque.
Sherman tornò indietro verso il portico ed entrò. Trovò un
pezzo di carta e scrisse un biglietto a Dean: "Dove cacchio sei finito? Ci
vediamo da Denny. Vado avanti e ti ordino l'hamburger così risparmiamo
tempo. Sherman". Lasciò il biglietto in bella vista sul tavolo della
cucina e lo fermò con la saliera a forma di cactus. Buttò uno sguardo
in cucina per un istante quasi aspettandosi di vedere Dean in piedi dietro la
zanzariera, ma non c'era. Aveva la sensazione che ci fosse un fantasma. Giù
da Denny Sherman si mise accanto alla cassa nel solito punto dove aspettavano
sempre lui e Dean. Nella stessa posizione che avrebbe avuto se Dean fosse stato
li con lui, lo Stetson tenuto per la tesa con entrambe le mani davanti a sé.
La schiena perfettamente dritta, gli occhi che cercavano Faye attraverso le porte
a vento della cucina. Ma quel pomeriggio Faye non era al lavoro. Se ne rese conto
dopo essersi seduto nel séparé rosso quando a prendere l'ordinazione
venne un'altra donna più giovane, dai capelli scuri e i modi sgarbati. "Dov'è
Faye?" chiese subito Sherman. "Chi è Faye?" "Ma
sì, Faye... Lavora qui da un anno e passa." "Io non conosco
nessuna Faye" disse la ragazza bruna, scarabocchiando un numero sul blocchetto
delle ordinazioni senza guardarlo negli occhi. "Non conosce nessuna Faye?" "Proprio
così, non la conosco. È il mio primo giorno." "Beh, e
da dove viene?" chiese Sherman. "Che significa da dove vengo? Ho
fatto la domanda per il posto e me l'hanno dato." "D'accordo, ma
Fave dov'è? Che ne è stato di Faye?" "Io non... Senta,
mister, io non conosco nessuna Faye. Ho cominciato oggi e non conosco nessuno.
Chiaro?" "Mi chiami il direttore. Voglio vedere il direttore."
"Non è che mi fa un reclamo, vero?" "No. Voglio soltanto
capire che ne è stato di Faye." "Perché questo è
il mio primo giorno di lavoro, e se lei mi fa un reclamo, poi..." "Io
voglio solo sapere che ne è stato di Faye! Tutto qua! Dov'è Faye!
Qualcuno lo saprà pure dov'è Faye!" Sherman dette una manata
sul tavolo con tanta forza da far volare via il portatovaglioli che finì
sul ginocchio della cameriera bruna. Quando balzò in piedi per aiutarla,
la ragazza si mise a strillare terrorizzata e l'intero locale piombò nel
silenzio. In quel momento Sherman si chiese se la sua fortuna non si fosse esaurita
di colpo. Se non sarebbe precipitato di nuovo nei giorni bui che avevano preceduto
la vita tranquilla con Dean alla periferia di Twentynine Palms. Quando gli capitava
di svegliarsi in un fosso con qualche costola rotta e le tasche ripulite. Ci voleva
poco. Lo sapeva. L'aveva visto tante volte. La fortuna gira punto e basta. Non
ci puoi fare niente. "In cosa posso aiutarla, signore?" La profonda
voce baritonale del direttore. Sherman alzò lo sguardo e vide un grosso
nero sorridente con la camicia azzurra e la cravatta rossa. La cameriera bruna
si diresse zoppicando verso la cucina frignando per via del ginocchio. "Mi
stavo chiedendo dov'è finita Faye" disse Sherman. "Faye?" "Sì,
Faye. Sa... la cameriera. Lavora qui ogni giorno da più di..." "Sì,
Faye. Certo. Lo so chi è Faye. Lavora da noi." "Appunto!
Lavora qui. Ha capito di chi parlo." "Sì, ho capito. Che
cosa vuol sapere?" "Dov'è? Dov'è Faye?" Sherman
sentì la disperazione nella propria voce e per un istante ne fu scioccato.
Scioccato nel rendersi conto quanto fosse importante per lui vederla; sapere che
tutti i giorni alla stessa ora era lì. "Beh, l'hanno passata al
mortorio" disse il direttore. "Al mortorio?" "Sì,
insomma... da mezzanotte alle otto del mattino. Il turno mortorio." "Ah...
Quindi lavora ancora qui da voi? Lavora ancora da Denny?" "Sissignore...
solo che ora fa un altro turno. La notte." "Ah... Va bene. Ho capito." "Tutto
qui quello che voleva sapere, signore? Qualche problema con la nuova cameriera,
per caso?" "Oh, no... niente del genere. Mi stavo solo chiedendo
di Faye." "Benissimo, signore." "Ah... un'altra cosa." "Prego,
signore?" "Il mio amico... Vengo qui tutti i giorni con il mio amico,
Dean. Ci avrà visto. Veniamo sempre..." "Certo signore. So
chi è lei. L'ho riconosciuta." "Ecco... Beh... Non è
che l'ha visto da queste parti, vero? Insomma... Dean... si chiama così.
Non è che l'ha visto di recente, no?" "Oh, sì signore.
È venuto qui giusto stanotte." Sherman sentì qualcosa che lo
colpiva in mezzo alla schiena, come una scarica elettrica. Dapprima pensò
al suo vecchio lampo di luce che credeva inviato dal cielo, ma questa scarica
era più intensa, più lancinante, simile alla gelosia. Ed era proprio
così: una scarica di gelosia esattamente fra le scapole. "Stanotte?"
disse Sherman in un ansito. "Stanotte. È venuto qui alle ore piccole...
saranno state le tre, le quattro del mattino. Non c'era anima viva." "Ma
perché avrebbe dovuto farlo?" "Prego?" "Oh, niente..."
fece Sherman alzandosi per uscire dal séparé rosso. "Dice che
era qui alle tre o le quattro del mattino, eh?" "Proprio così.
Verso quell'ora. Molto tardi... o presto, a seconda... Sono rimasti seduti in
quel séparé all'angolo fin quasi all'alba a sorseggiare caffè
e a ridere." Sherman si fermò e si raddrizzò il cravattino.
Allungò il collo come per vedere il cielo al di là dei pannelli
antincendio del soffitto e poi si mise lo Stetson in testa. "Non c'era un
solo cliente così l'ho lasciata andare avanti a chiacchierare. Gran donna
quella, lasci che glielo dica." "Gran donna." Sherman fece un
sorriso forzato, si toccò il cappello in direzione del direttore e infilò
la porta. Sulla lunga strada sterrata che tornava alla casetta Sherman faceva
fatica a ricordarsi dove fosse di preciso. Per un attimo pensò di essere
di nuovo in Arizona a lavorare negli stazzi di bestiame. Sentiva l'odore del sangue.
Alzò la testa e guardò la linea dell'orizzonte, ma il paesaggio
continuava a sembrargli estraneo. Era molto, molto tempo che non provava quel
panico da solitudine. Il sole era allo zenit e Sherman aveva l'impressione che
il colletto stesse per prendere fuoco. Si aggiustò lo Stetson ma il difetto
dell'Open Road sotto il sole a picco era la tesa stretta. Gli sembrava di avere
la schiena in fiamme e la testa era come un bollitore. Sapeva che qualcosa lo
spingeva avanti ma non era in grado di metterlo in relazione con i movimenti del
suo corpo. Guardava la punta degli stivali avanzare nella polvere. Guardava le
braccia oscillare ritmicamente avanti e indietro ma era come se fosse fuori tempo.
Avvicinandosi alla casetta colse un raggio di sole riflesso sulla fibbia a ferro
di cavallo di Dean. Vide Dean sulla sedia a dondolo sotto il portico, rivolto
verso di lui. Sapeva che era Dean ma non disse niente e non dette segno di averlo
riconosciuto. Neanche Dean si mosse. Rimase seduto lì, sulla sedia a dondolo,
immobile come un sasso, in silenzio. Dean non si spostò di un centimetro
nemmeno quando Sherman gli passò accanto per entrare in casa; continuò
a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. Dean sentì Sherman in camera
da letto che frugava nel guardaroba, che apriva e chiudeva i cassetti dell'armadio.
Non erano suoni rabbiosi e non sembravano voler suscitare reazioni da parte di
Dean. Erano solo i suoni di qualcuno che cerca qualcosa o che sta riordinando.
Alla fine Sherman uscì dalla porta a zanzariera con una pesante borsa di
tela piena delle sue cose. Sulla tela vicino alla cerniera rotta c'era stampato
in bianco U.S. ARMY. Nell'altra mano aveva un ukulele in una piccola custodia
verde chiusa con una corda e un nodo piano. Sherman non si fermò, non girò
la testa e non fece altro rumore se non quello degli stivali che attraversavano
il portico e scendevano i gradini fino alla terra battuta. Dean rimase a fissare
la schiena di Sherman chiazzata di sudore che si allontanava lungo la strada sterrata.
Tenne lo sguardo sulla x che le bretelle disegnavano fra le scapole di Sherman.
Guardava la x farsi sempre più piccola. A un tratto Dean balzò su
dalla sedia a dondolo, si portò all'angolo del portico e si fermò.
La voce gli si incrinò leggermente mentre urlava dietro a Sherman. Era
passato molto tempo da quando aveva gridato a qualcuno e la voce era come stupita.
"Non è stata mia l'idea, è stata lei !! " gridò.
Sherman non si girò. Continuò a camminare.
(Tratto
dalla raccolta di racconti Il grande sogno, Feltrinelli editori, Milano,
2005.Traduzione di Andrea Buzzi.)
Sam Shepard
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