Un'intervista
con Joyce Carol Oates
Robert
Birnbaum
Joyce Carol Oates
Che cosa direbbe di una puntata de "I Soprano" una famiglia degli anni '50 originaria della zona delle cascate del Niagara? Perché l'America dimentica così facilmente i propri eroi più comuni? Il prolifico Robert Birnbaum intervista la prolifica Joyce Carol Oates sul suo romanzo più recente, le chiede perché ama l'insegnamento e quanti siano i libri che stanno maturando nei cassetti della sua scrivania.
Forse è voler fare una battuta fin troppo scontata dire che sul dizionario la foto di Joyce Carol Oates compare accanto alla definizione di "prodigioso". Autrice di quasi 30 romanzi (compresi quelli pubblicati con lo pseudonimo di Rosamond Smith), di innumerevoli volumi di racconti, poesie, storie per bambini e saggi, Joyce Carol Oates è spesso dipinta come una maniaca del lavoro, accusa cui nel 1975 per il New York Times rispose: "Non mi sembra di lavorare poi così tanto, anzi non mi sembra di lavorare affatto. Scrittura e insegnamento mi hanno sempre dato così tanta soddisfazione che non riesco a considerarli lavoro nel senso più comune del termine."
La Oates è nata a Lockport, nello stato di New York, e ha frequentato la Syracuse University, dove si è laureata a pieni voti e ha avuto l'onore di pronunciare il discorso di commiato alla cerimonia annuale di consegna dei diplomi. Ha poi conseguito il master all'università del Wiscounsin e dal 1978 insegna scrittura creativa alla Princeton University, dove ricopre la carica di Emerito Professore in Lettere in nome di Roger S.Berling. La Oates ha ottenuto il National Book Award nel 1970 per il romanzo Them e ha ricevuto numerosi altri premi e onorificenze. I suoi racconti vengono regolarmente inclusi nell'antologia annuale Best American Short Stories e nelle raccolte dell'O. Henry Prize. Nel 1996 è stata selezionata in occasione del Pen/Malamud Award per il costante successo ottenuto con i suoi racconti. Tra i romanzi più recenti Blonde, I'll Take You There, We Were the Mulvaneys, The Tattooed Girl e di recentissima pubblicazione The Falls.
Ambientato nel '50, The Falls si svolge in una regione familiare alla Oates, nella parte occidentale dello stato di New York, o più precisamente nella città di Niagara Falls. Ariah e Dick Burnaby, con i loro tre figli, costituiscono il nucleo della storia. La vicenda copre un arco di circa trent'anni e ad essa fa da sfondo, con uno degli spettacoli naturali più maestosi, una regione affetta da mali ambientali (ricordate Love Canal?) e destinata a subire un drammatico declino, una realtà fin troppo comune nella storia americana più recente.
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RB: Ultimamente sente di avere dei pensieri in particolare che non le danno tregua, che la assillano?
JCO: Questa sì che è una bella domanda. La maggior parte di quello che scrivo scaturisce proprio da un qualche genere di ossessione. Spesso si tratta di un luogo, o di un'immagine, o magari di una persona o di un evento. Sì.
RB: E in questo periodo?
JCO: Sto lavorando ad una storia - beh, io lavoro sempre a qualcosa di diverso, quindi si tratta sempre di qualcosa di effimero, in un certo senso. Sono le riflessioni morali a impensierirmi.
RB: Credo che sia l'unica in tutta l'America. [ride] Sto scherzando.
JCO: L'idea che scegliere la strada giusta può essere molto difficile, non solo per se stessi ma anche per la propria famiglia, il possedere quel genere di idealismo che nel tempo rimane intatto e non perde coraggio - questi sono elementi che mi interessano molto.
RB: Come Dick Burnaby, il nobile avvocato di The Falls?
JCO: Sì, persone come lui, che al mondo esistono davvero. Che non sono perfette. Non si tratta di veri e propri eroi. Si comportano da eroi, ma non riescono a vedere in se stessi degli eroi. Sono persone molto umane. Non hanno piani ambiziosi, pretenziosi. Si tratta piuttosto di qualcosa del tipo "come è possibile non esitare, essere altruisti e rimanere fedeli ai principi morali quando ci sono così tante alternative e può risultare difficile fare una certa scelta?" Sono queste le cose di cui parliamo ai seminari di etica della Princeton University. Mi sembra che gli adolescenti, forse ancor più degli adulti, abbiano un innato senso della giustizia e provino disprezzo per l'ipocrisia. Con l'età si diventa più inclini al compromesso.
RB: Perché la pensa così?
JCO: Perché si invecchia. [sogghigna]
RB: [ride]
JCO: Perché si ha più esperienza. Quando si è adolescenti o si hanno vent'anni, di solito non si ha una famiglia, non si ha un lavoro fisso, perciò la vita può sembrare molto diversa.
RB: Quindi per le decisioni di carattere morale sono meno le variabili da prendere in considerazione?
JCO: Esattamente.
RB: Stavo pensando a come ci sentiamo quando rileggiamo cose che abbiamo letto da giovani e a quanto diversa da allora sia l'esperienza che ne traiamo.
JCO: Sì, è sempre diversa. Stamani mentre venivo qui, nei pressi di Boston, era naturale che mi mettessi a pensare a Henry David Thoreau perché amo Concord. Per me è uno dei posti più belli. Ci sono stata tante volte a Concord, come pure in pellegrinaggio a Walden Pond; il fenomeno Henry David Thoreau è un fenomeno essenzialmente connesso ad un tipo di idealismo adolescenziale. Lui non aveva legami. Non aveva famiglia, non aveva figli. Non aveva alcuna occupazione remunerata. E la vita, per lui, consisteva nel fare scelte che fossero piuttosto dirette, che non dovessero essere frutto di mediazioni o compromessi. Voleva fare l'insegnante per un po', ma erano così tanti i compromessi che avrebbe dovuto accettare che decise di non farlo. Henry David Thoreau rifiutò di fare l'insegnante. Abbandonò il posto perché non voleva frustare i bambini. A quel tempo un buon insegnante aveva il dovere di frustare i bambini. Lui non voleva farlo. Ma per la maggior parte di noi è impossibile essere così rigidi. Magari perché siamo alle dipendenze di una qualche istituzione. Magari perché abbiamo famiglia. Abiamo fatto scelte che in un modo o nell'altro ci hanno reso conformi al sistema. Ma quando scrivo è soprattutto delle persone che parlo. Non tratto di argomenti astratti come questi. Quindi è un po' fuorviante continuare a parlare in questi termini.
RB: Mi chiedo se esista un corollario dell'espressione "banalità del male". Come la "normalità del bene". Un modo per indicare chi riesce a prendere decisioni più che rispettabili dal punto di vista morale senza essere pertanto considerato un eroe. In un certo senso è come se ci apettassimo che la gente facesse sì del bene, ma senza vanagloria, senza alcuna vanteria.
JCO: E' vero.
RB: C'è forse un'espressione che potremmo usare, "l'ordinarietà della decenza", o qualcosa del genere?
JCO: Non lo so. La maggior parte della gente sceglierebbe di comportarsi in modo corretto e moralmente accettabile se conoscesse le alternative. Ma la vita di queste persone è talmente vincolata dai compromessi. Ad esempio, ogni volta che mangiamo qualcosa, specie se si tratta di pollo, vitello o simili, accettiamo un tipo di cultura consumistica nell'ambito della quale gli animali sono seriamente maltrattati. Eppure la maggior parte di noi non trascorre il proprio tempo a pensarci su e, del resto, abbiamo ogni giorno così tante cose a cui pensare; quando nel negozio di alimentari allunghiamo una mano per prendere qualcosa non è che ci stiamo a domandare: "E questo da dove proverrà? E con quali modalità sarà stato prodotto?" Alcuni lo fanno, ma la maggior parte della gente non ne ha il tempo. Ecco che cosa intendo quando parlo di compromessi morali. Alcuni dei miei studenti sono vegetariani. Io non sono vegetariana. Non mangio carne rossa, ma non sono vegetariana. Ma le argomentazioni di carattere morale sono tante e hanno una discreta rilevanza.
RB: Quindi i vegetariani lo sono per convinzione morale?
JCO: Credo di sì. La gente prende in giro i vegetariani. Si sente a disagio. Come ho detto, non sono vegetariana. Ma le persone scherzano sulle cose che le fanno sentire a disagio. Quando, negli anni '60 e '70, l'emancipazione femminile era ancora agli inizi, circolavano barzellette davvero spietate e crudeli sulle femministe, proprio perché ci si sentiva a disagio. Ci si sentiva minacciati. E questo genera ansia e mette sulla difensiva.
RB: E questo atteggiamento canzonatorio è mai cessato?
JCO: Adesso penso di sì.
RB: Davvero?
JCO: Beh, adesso sono così tante le donne che occupano posizioni importanti - ci sono donne che sono rettori di università dove fino a poche decine di anni fa le donne non erano nemmeno ammesse. Io stessa insegno in una di quelle università, Princeton. Per la prima volta nella nostra storia abbiamo una donna come magnifico rettore. Abbiamo anche avuto un preside donna. Abbiamo presidi di facoltà che sono donne. Mi creda, qualche decennio fa la sola idea che delle donne potessero diventare studentesse della Princeton avrebbe fatto sorridere, per non parlare dell'idea che potessero diventare professori, come me, o amministratori. Sarebbe stato considerato talmente ridicolo!
RB: Quindi un certo progresso c'è stato nella storia dell'uomo! [ridacchia]
JCO: Il progresso procede a settori. Coinvolge la tecnologia medica, la medicina, la scienza. Ci sono aree del mondo che possono anche progredire, ma poi regrediscono nuovamente. Non saprei dire esattamente quale posizione occupino gli Stati Uniti dal punto di vista morale - dipende da quale tendenze politiche si hanno. Alcuni ci considerano una nazione rapace. Ci credono aggressivi, bellicosi e crudeli…
RB: Forse è quasi tutto il mondo a pensarla così…
JCO: E ci credono degli sfruttatori. Noi pensiamo di essere delle brave persone e di avere Dio dalla nostra parte. Ma anche nelle altre nazioni tutti pensano di essere delle brave persone e di avere Dio dalla loro parte. Perché la specie umana è fatta così, è miope. Ogni persona è convinta di essere il centro di tutto.
RB: Questo suo interesse per le questioni morale, o se non altro questa sua volontà di far rientrare tali questioni nelle sue riflessioni sulla scrittura deve farci credere che sia proprio questa una delle funzioni della letteratura? Possibile che sia rimasta l'ultima risorsa di dialogo morale? Le questioni morali sono argomento di dibattito pubblico, o no?
JCO: Beh, a questa domanda è difficile rispondere, perché termini come "valore morale" e "valori etici" vengono sì usati, ma vengono usati per opportunismo politico. A me, in qualità di scrittrice e lettrice di letteratura, interessano anche e soprattutto le storie e i personaggi. Amo il teatro. Amo il modo in cui in letteratura vengono ricordati i luoghi. Mi piace leggere Charles Dickens o Thomas Hardy o D.H.Lawrence tanto per il paesaggio e il panorama urbano che per i personaggi, perché il paesaggio è ritratto in modo così vivido…Quando scrivo cerco di fare altrettanto.
RB: Lei è cresciuta nello scenario che fa da sfondo a The Falls?
JCO: Sì, sono cresciuta a circa 20 miglia da Niagara Falls. Conosco molto bene la zona e ci torno spesso a trovare la mia famiglia che vive ancora lì. Le cascate del Niagara sono un fenomeno naturale straordinario. Ma mi interessava anche la città di Niagara Falls, e chi è della zona in genere usa il termine "Falls" per le cascate, mentre con "Niagara Falls" si intende la città. E in realtà si tratta di due cose piuttosto diverse. I turisti conoscono le cascate, le fotografano, sono ormai la meta più scontata per le coppie in luna di miele. Ma la realtà di Niagara Falls è quella di una città americana profondamente tormentata, anche dal punto di vista finanziario, una città un tempo sede di molta industria pesante, dove ancora sopravvivono alcune industrie, anche se la zona si è molto spopolata. È come Detroit.
RB: La città si è mai ripresa dalla vicenda del Love Canal? [Alla fine degli anni '70 gli abitanti della regione delle cascate del Niagara scoprirono che un canale un tempo usato per lo smaltimento dei rifiuti pericolosi ma ormai in disuso da più di vent'anni perché saturo, stava causando malformazioni e gravi problemi di salute. I piani di evacuazione e le vicende legali che seguirono spinsero l'intero paese a prestare maggiore attenzione alle problematiche ambientali.]
JCO: Se si è ripresa? Non penso si possa parlare di una città sana, ma sono molte altre le ragioni legate al crollo finanziario. La zona settentrionale e la zona occidentale dello stato di New York sono da decenni in recessione economica. Non credo che ci sia un legame con la vicenda del Love Canal. È cosi da decenni; un economista saprebbe spiegare perché.
RB: Sebbene all'inizio del libro le vicende si svolgano nella metà del '900, i primi capitoli, in cui viene presentato il personaggio di Ariah, danno la sensazione che ci si trovi piuttosto agli inizi del '900. Sembra tutto più datato, più ristretto e meno complesso.
JCO: Beh, il romanzo ha origine in un passato quasi mitico, ma poi l'azione si sposta nella realtà più cruda e vera della fine degli anni '70. Volevo una narrativa che avesse connotazioni teatrali. Ma il 1950 è davvero molto lontano nel tempo. La gente si vestiva in modo molto differente. Le donne indossavano i busti e un sacco di altre cose che oggi non indossano più. Gli uomini portavano più spesso la giacca e la cravatta, e le politiche sessuali erano molto diverse. Le donne e le ragazze non sapevano davvero niente di sesso. E una brava ragazza non solo era vergine, è chiaro, ma non sapeva davvero quasi niente di quello che accade in luna di miele o di come sia la vita matrimoniale. L'esatto contrario di quello che accade oggi. Se oggi una persona volesse rimanere all'oscuro di tutto non ci riuscirebbe - perché siamo letteralmente presi d'assalto. Oggi basta accendere la televisione perché, in modo del tutto casuale, ci vengano proposte immagini che sconvolgerebbero i nostri progenitori degli anni '50. Non ci potrebbero credere. Prendiamo una puntata de I Soprano - non crederebbero ai loro occhi. Ecco, nel '50 eravamo tutti meno esposti. A quel tempo ero solo una bambina. E certo non sapevo quello che so adesso. Non c'era alcuna obiettività nel modo in cui allora osservavo la società in cui vivevo. A ripensarci, era un'epoca molto repressa. Il concetto di liberazione gay e di omosessualità non era riconosciuto e veniva considerato una patologia, oggi siamo molto diversi. Perciò, sotto certi aspetti, si può dire che il 1950 sia più vicino all'anno 1900 che al 2004, è questo a cui si riferiva prima.
RB: Il modo in cui, nell'intimità, i novelli sposi si rivolgono l'uno all'altra è più vicino alla realtà dell'800 piuttosto che a quella del '900.
JCO: Erano gli anni '50.
RB: Qual è stato il punto di partenza per questo libro?
JCO: Volevo scrivere un romanzo in cui un padre, dopo essere stato espulso dalla famiglia, fosse finalmente redento, e nella prima versione sarebbe finito in prigione. Sarebbe stato coinvolto in qualcosa e sarebbe stato mandato in prigione. Insomma, è un po' complicato.
RB: Sono state tante le versioni?
JCO: Solo nella mia mente. Solo nella mia immaginazione. Prima di scriverle, le cose le elaboro nella mia testa. Per cui tutti i cambiamenti che subiscono avvengono solo nella mia mente. Ma volevo scrivere un romanzo in cui un personaggio fosse ingiustamente accusato di essere stato un cattivo padre quando poi, dopo la sua morte, si sarebbe capito che in realtà era stato un buon padre. Perciò il ritmo del romanzo è essenzialmente questo -al padre viene restituito il proprio ruolo.
RB: Mentre lo leggevo, non ho mai pensato che fosse un cattivo padre.
JCO: No, no, ci credo.
RB: L'unica persona a pensarlo era la moglie. Come forse anche la classe sociale che si presume lui avesse tradito.
JCO: Esatto. In città dicevano che aveva bevuto e che era rimasto coinvolto in una rissa. Aveva colpito un agente in tribunale. Si era comportato male. Era stato mandato in prigione e si era suicidato. Ecco che cosa pensavano. Ma adesso sappiamo che non è così. Che bevesse era in realtà una conseguenza del suo idealismo. Era davvero molto sconvolto e così con i suoi vicini in città si era fatto proprio una brutta reputazione. Ecco perché volevo redimerlo. E volevo parlare di Niagara Falls perché ci ho vissuto; inoltre mio nonno è morto di una malattia professionale, di enfisema, ma in realtà a quel tempo non si sapeva che cos'avesse che non andava. Lavorava nella fabbrica di Tonawanda, vicino a Niagara Falls. Era tanto che volevo parlare della sofferenza di persone comuni, che lavorano in fabbrica e che cercano di guadagnare più che possono per mantenere la famiglia. Molti di loro sono uomini giovani, non istruiti, che si sono sposati e hanno avuto dei figli, e che vanno a lavorare in queste fabbriche e muoiono all'età di 45 o 51 anni. Mio nonno è morto a 52 anni. È come se queste persone sacrificassero se stesse. Mi piace parlare di chi diventa eroe in modo quasi anonimo, silenzioso, senza che nessuno se ne accorga e senza che a nessuno importi. È quello che accade anche oggi; sono molte le persone che scelgono di lavorare in circostanze estremamante pericolose, che si prendono il rischio. Si tratta di una situazione diversa, ma è qualcosa di analogo a quello che succede ai giovani che scelgono di fumare pur sapendo molto bene, e la civiltà intera glielo ricorda, che il fumo è molto pericoloso. È come se si rifiutassero di crederlo, come se pensassero che non possa riguardarli. O magari che a loro non possa accadere. E infatti fa parte della nostra specie, trovarsi in questa condizione di rifiuto.
RB: La causa del Love Canal cominciò davvero agli inizi degli anni '60?
JCO: Sì, cominciò negli anni '50. Fu una questione che assunse carattere popolare, quasi di quartiere.
RB: Del caso si occupò un solo avvocato, come in The Falls?
JCO: Non so se ci fu un solo avvocato. Furono coinvolte molte persone. Lois Gibbs, che scrisse due volumi di memorie sulla causa del Love Canal, era una delle casalinghe della zona che andavano a suonare alle porte. Cercava di spingere la gente a firmare petizioni. E tra i suoi vicini c'era qualcuno che non firmava. Che la allontanava e basta. Chiudevano la porta. Dicevano, "Tipico dei comunisti, criticare". Negli anni '50 non esisteva il concetto di salvaguardia ambientale. Non c'era la stessa coscienza di adesso. Nel ventunesimo secolo usiamo comunemente espressioni che diamo per scontate. Come "salvaguardia ambientale".
RB: O "giustizia sociale".
JCO: Già, "giustizia sociale", certo. O "diritti degli omosessuali", che non sono mai esistiti prima. O "diritti delle donne". I diritti delle minoranze etniche. Niente di tutto questo esisteva. Negli anni '50 o ancora prima, venivi semplicemente buttato in questo grande oceano di conflitti. Al potere c'erano delle persone, e in genere queste persone erano bianche, detenevano il potere e non avevano nessuna intenzione di cederlo a persone di colore o a delle donne.
RB: O a degli operai.
JCO: Infatti. Si trattava essenzialmente di una lotta per il predominio. A ripensarci oggi, sembra così evidente, perché abbiamo decostruito quella realtà e ne comprendiamo le conseguenze. Ma a quel tempo non esisteva un vocabolario appropriato. Le molestie sessuali, le politiche sessuali di ogni genere, i crimini sessuali non esistevano in quanto categorie. Non esistevano le percosse. Un marito, o un padre, avevano il diritto, che era loro riconosciuto e garantito, di esercitare la disciplina nella propria famiglia. La zona in cui abitavo io era molto simile a quelle che ho descritto nel libro - dove un uomo tornava a casa, magari dopo aver bevuto. Picchiava la moglie e spaventava a morte i figli e poi se ne usciva in cortile - ma la figura paterna era sacrosanta, in un certo senso, e la polizia non faceva indagini perché quello era il suo territorio.
RB: Ariah è una donna strana, molto simile alla madre del marito.
JCO: Però lei un lavoro ce l'ha. Vuole fare l'insegnante.
RB: Ma è tutta incentrata su di sé, come la madre.
JCO: La madre era molto ricca. Era stata una donna molto bella, una debuttante. E non aveva alcuna particolare capacità. Non aveva ricevuto istruzione. Era solo una donna che si sapeva muovere bene in società e che, invecchiando, non riusciva più a rimanere all'altezza. Ariah invece si trova a cavallo tra la vecchia America e la nuova America. È davvero una femminista, ma un po' troppo in anticipo coi tempi. Non ha sorelle. E non sente il desiderio di far vita di società. È piuttosto una persona che preferisce stare sola. Mi identifico in lei per molti aspetti. Il suo peggior difetto e questo suo essere così possessiva. Ama troppo suo marito. Diventa molto gelosa. Molte persone sono così. Ama a tal punto i propri figli da cercare di possederli. Così, uno dopo l'altro, se ne devono allontanare.
RB: Il suo amore per i figli è un po'travisato, almeno per il modo in cui si rivolge a loro.
JCO: Beh, è solo che se li vuole tenere in casa. È molto possessiva. Vuole che il figlio Royal sposi una certa ragazza perché quella ragazza è molto dolce e non è troppo sveglia, e lei vuole che la coppia venga a vivere con lei. Dice, "Potete prendervi tutto il piano di sopra. Cosa c'è che non va? Niente affitto." È perché ama le persone in modo troppo sfrenato. Mi piace credere che non diventerò mai così. Ma per altri aspetti mi identifico in Ariah.
RB: Molto dipende da quanto è accaduto al suo primo marito.
JCO: Sì, una tragedia.
RB: Perché l'opposto del precedente - forse è per quello che l'ha sposato, per una qualche strana connessione con lui
JCO: Quando il primo marito si suicida la mattina dopo la notte di nozze, lei prova un profondo senso di vergogna, si sente molto umiliata, mortificata. Doveva essere stato Dio - se un Dio esisteva davvero - doveva essere stato quel Dio a punirla. E lei viveva nell'ombra. Sono molte le persone che si sentono così. Si sentono in ombra. Certe persone camminano nella luce. Ma la strada ha anche un lato in ombra. Non so come spiegarlo. Una volta ho scritto un lungo romanzo sulla Norma Jean Baker che diventa Marilyn Monroe, e sulla Norma Jean che è tra coloro che vivono nell'ombra, nell'oscurità, nella semi oscurità. Marilyn Monroe era una creatura biondo platino e bellissima che era stata creata, inventata perché trasudasse luce, bellezza e infantile semplicità. Ma la Norma Jean che recitava la parte non era affatto così. Mi interessava molto quel contrasto. Riesco a comprendere l'oscurità. L'incertezza. Capisco che le persone possano essere insicure.
RB: Quindi, dopo il primo matrimonio, Ariah continua a pensare che ogni sua relazione sia temporanea…
JCO: Crede di essere vittima di una maledizione.
RB: Pensa sempre che qualcosa possa andare storto.
JCO: Proprio così, e che una sorta di maledizione la perseguiti. Vuole che i suoi figli se ne stiano in casa perché non gli accada niente. Non vuole che la figlia soffra. La vuole lì, in casa, nella stanza accanto. Anche i figli li vuole lì, accanto a sé. Esistono donne che si comportano così. E, a dire il vero, a volte fanno bene. Può sembrare un'ironia, ma è così.
RB: Quello che mi ha colpito molto, forse perché anch'io ho un cane e mi sento più sensibile a riguardo, è il fatto che, stranamente, il momento in cui lei manifesta più apertamente il proprio dispiacere è quando sparisce il cane.
JCO: E' vero, era disperata. Voleva molto bene a quel cane, e non voleva che le persone se ne accorgessero. Faceva finta di essere dura con lui, "Oh, guarda il cane", e lo sgridava. Ma poi si scopre che gli voleva davvero molto bene. E' per far vedere che Ariah è molto vulnerabile - finge di essere dura e cinica, e intanto dentro si scioglie ed è molto vulnerabile.
RB: Quando si è già molto avanti con la storia, la si vede ancora una volta esprimere il proprio amore per il marito.
JCO: Sì, alla fine, certo.
RB: In realtà, per quasi tutta la parte che segue la morte di lui, lei non ha niente di positivo da dire sul suo conto.
JCO: Di lui non parla proprio. Si sente tradita. Per quel che ne sa, lui l'ha tradita con un'altra donna. Si è ubriacato e poi si è suicidato. Ha abbandonato la famiglia - questo è tutto quello che sa. Ma voleva bene al cane che lui le ha portato; lui arriva con questo cucciolo, lo lascia lì ed è come se desse il meglio di sé. Per quel che mi riguarda io amo sia i cani che i gatti. E tendo a dar loro un certo valore emozionale quando li introduco nei miei romanzi; gli animali nei miei romanzi sono dotati di intensa luminosità. Non sono solo degli animali, ma sono dotati di una certa intensità simbolica.
RB: Io scrivo per una rivista che parla di cani e si chiama Bark, e di recente ho scritto un articolo sugli scrittori che hanno usato i cani come espedienti e su quanti li hanno resi addirittura dei veri e propri personaggi.
JCO: Sì, certo.
RB: Perché è vero che sono dotati di notevole vivacità e sono molto espressivi.
JCO: Io un cane non ce l'ho. Però mi interessa conoscere le varie razze e le caratteristiche che le distinguono.
RB: Una volta ultimato un lavoro di largo respiro come un romanzo, cos'è che la fa sentire soddisfatta e le fa credere di aver raggiunto un buon risultato?
JCO: Beh, con un romanzo come The Falls che ho scritto qualche anno fa…perché io di solito lascio riposare i miei romanzi in un cassetto e aspetto un anno, poi li tiro fuori e li rileggo, ci lavoro ancora un po' sopra, li ritocco. È un processo che richiede un po' di tempo. E' raro che io pubblichi subito un mio romanzo. Lascio sempre passare un po' di tempo. Mi dedico a un altro romanzo e poi ritorno a qualcosa che ho già scritto - ora come ora ho due romanzi nel cassetto, che se ne stanno lì in gestazione. Li tirerò fuori tra un anno.
RB: Perciò quando finisce di scrivere non comincia subito la revisione, non prepara il libro per la pubblicazione?
JCO: La revisione la faccio costantemente, giorno per giorno. Revisiono ogni pagina, costantemente.
RB: E in che stato è un'opera quando la mette da parte?
JCO: E' finita, anche se non si tratta di un giudizio definitivo. È probabile che se quel romanzo dovesse essere pubblicato subito, accetterei, ma aspetto sempre un anno circa e poi lo rileggo e allora capita che aggiunga o elimini qualcosa. Avrò aggiunto cinque pagine in tutto o eliminato qualche paragrafo. I cambiamenti sono davvero minimi dopo un anno di attesa. Ma per tutto il tempo, per tutti quei mesi, sto lì a leggere e a pensare a quel romanzo nel cassetto, ci rifletto, e finisce che qualcosa c'è che vorrei aggiungere - il concetto di salvaguardia ambientale e il ricorso alla legge per la salvaguardia dell'ambiente sono aspetti relativamente recenti, non c'era impegno da parte della gente, ma in un certo senso gli anni '50 rappresentarono un inizio. Negli anni '50 persone come queste [ambientalisti nascenti] erano in anticipo coi tempi. Certo che oggi abbiamo un governo che non è molto attento all'ambiente. Per cui è probabile che finiremo per regredire e perdere molto di ciò che abbiamo guadagnato.
RB: E allora cos'è che le indica un potenziale successo?
JCO: Successo? Io non parlerei di "successo". Per me si tratta di piena realizzazione, piuttosto. Si tratta di aver realizzato a pieno le grandi potenzialità del materiale e dei personaggi, e non può essere mai troppo. Non riesco ad essere ripetitiva. Realizzare a pieno materiale e personaggi - questo è lo scopo dello scrittore. Si potrebbe riscrivere Guerra e Pace in sole venti pagine, ma il risultato non sarebbe completo. Perché ce ne vorranno 2000, di pagine.
RB: Più avanti, nel libro, lei introduce un nuovo personaggio, in parte anche per delineare con maggior chiarezza il personaggio della figlia, la più giovane della famiglia. Si sente tentata di dare un seguito a questa storia, di renderla più lunga?
JCO: No, penso che finirà qui. Il personaggio di quel ragazzo, Stonecrop, mi ha coinvolto molto. C'è questo sentore che possa un giorno diventare un cuoco. Che possa farsi una vita. Non potrei continuare a seguire questi personaggi. La storia delle loro vite, per quanto interessante, è completa - è finita.
RB: Quanto si sente vicina alle storie che ha scritto?
JCO: Quanto c'è della mia vita reale? Dipende da quale storia si tratta. Il mio prossimo romanzo si intitola Missing Mom. E parla di una donna che perde la madre - nel senso che sua madre muore - e questo si avvicina molto alla mia esperienza personale, perché ho perso mia madre nel 2002. Ma la storia è inventata. Le emozioni rispecchiano molto le mie vere emozioni, sono ciò che si prova dopo aver perso una madre, una madre meravigliosa e che si è molto amata. Quasi con devozione. Siamo in molti ad avere madri, padri, nonni che in famiglia sono stati persone meravigliose ma che non hanno lasciato alcuna impronta culturale -
RB: Non hanno lasciato traccia.
JCO: E' come se la loro influenza non andasse oltre i confini della famiglia. Mia madre è stata una meravigliosa donna di casa. Era bravissima a cucire - come moglie e madre è stata semplicemente meravigliosa.
RB: Ha qualche sua ricetta che continua a usare?
JCO: Beh, non è che poi fosse una gran cuoca. È solo che persone le come lei nella nostra cultura non fanno notizia. La nostra cultura si lascia ipnotizzare e affascinare da chi ottiene il massimo del successo. La cultura popolare non venera certo le persone che, a mio parere, lo meritano di più per il loro maggiore altruismo. E questo romanzo parla di una donna che si dedica alla famiglia e che, pur avendo ultimato la scuola superiore non ha mai ricevuto un'istruzione davvero adeguata. È semplicemente una brava persona - presta opera di volontariato agli anziani - tutte cose che faceva anche mia madre. Non è Madre Teresa, non è niente di straordinario. E sebbene questo romanzo che ho scritto sulla perdita della madre sia basato sulla figura di mia madre, al suo interno, tutto, o quasi, è inventato. È così che scrivo.
RB: Lei è una veterana del mondo della letteratura. Lo schiamazzo prodotto dal mondo letterario la incoraggia, la demoralizza, o forse preferisce tenersene a distanza?
JCO: Non credo di farne davvero parte - ma non sono sicura di aver capito bene che cosa intende.
RB: C'è tutto un ambiente culturale (connesso al fare letteratura) fatto di gruppi di esperti, giurie di premi letterari, conferenze, recensioni -
JCO: Dipende dal grado di coinvolgimento delle singole persone. In Europa, per tradizione, gli scrittori da sempre portano avanti un certo impegno civile e sono i portavoce della cultura. In Europa è facile che prendano parte attiva alla vita politica. Nel nostro paese questo non capita altrettanto spesso. Invece in Francia, per esempio, Jean-Paul Sartre e Albert Camus, e con loro molti altri, erano personaggi politicamente molto influenti, e molto importanti. Nel nostro paese non esiste niente del genere.
RB: Sto cercando di farmi venire in mente qualcuno.
JCO: Questo paese è talmente vario e talmente vasto. Fondamentalmente, la Francia è Parigi e Parigi era una città in cui tutti si conoscevano. Se pensi agli Stati Uniti, invece - un paese così vasto e così enorme, con tutte queste regioni così diverse - sì, ci sono scrittori che, in zone diverse del paese, forse più nella parte occidentale e sud-occidentale, si impegnano in difesa dell'ambiente, sono pronti a intervenire e a manifestare per le diverse problematiche esistenti. Io però credo sia meglio che gli scrittori non interferiscano troppo con la vita politica. Perché idealmente la letteratura dovrebbe stare al di sopra della politica, come la poesia, dovrebbe trascendere ciò che è effimero e fugace. Diventare membro di una giuria e spostarsi per presentare i propri libri, mi chiede? Questo dipende dalla personalità dello scrittore.
RB: E lei che cosa ne pensa?
JCO: Io ho sempre insegnato. Sono tanti anni che insegno all'università. Sono molti gli scrittori che non insegnano. Non pensano di avere l'energia sufficiente per farlo. Non vogliono incontrare troppa gente. Io invece ho voglia di incontrare la gente, e mi piace. Poi posso tranquillamente tornarmene nel mio studio e mettermi a lavorare senza che il mio spirito sia stato intaccato in alcun modo. Non farò nomi, ma ho degli amici che non si sognerebbero nemmeno di presentarsi da Barnes and Noble per una conferenza - sono troppo timidi. Non capiscono che è divertente incontrare la gente. È davvero bello incontrare la gente. Pensano di perdere qualcosa.
RB: Molti scrittori insegnano per necessità economica.
JCO: E' vero. Un noto scrittore che vive vicino a Boston mi ha detto: "Come fai a insegnare, Joyce? Io ho insegnato per un anno e mi sembrava che i miei studenti volessero portarsi via qualcosa di me. Che volessero portarsi via la mia saggezza." Per me non è così. Un insegnante non pensa che gli studenti vogliano portarsi via qualcosa. Sei tu che stai dando qualcosa, ed è reciproco. Anche l'insegante impara dai propri studenti. Ma questo voler credere che incontrare le persone e stringer loro la mano significhi che si porteranno via qualcosa di te è contrario alla mia personalità. Per me non è così.
RB: Si può pensare che molti scrittori siano introversi -
JCO: Alcuni lo sono.
RB: - che siano lasciati in pasto al pubblico e costretti a essere affascinanti e cordiali -
JCO: Non sono obbligati a farlo. Anne Tyler non va mai in giro a presentare i suoi libri.
RB: Pensa che ci siano troppi scrittori [l'ha affermato in un saggio poi incluso nell'antologia NYT Writers on Writing]
JCO: Beh, nessuno desidera mai cominciare da se stesso. [ridono entrambi]
RB: Princeton non ha un corso di scrittura creativa post-laurea, vero?
JCO: No, solo un corso universitario.
RB: I ragazzi che seguono il corso di scrittura creativa aspirano a diventare scrittori professionisti?
JCO: No, lo seguono perché desiderano farlo. Per la maggior parte si tratta semplicemente di giovani con doti artistiche, ed è probabile che seguano altri corsi, per esempio di fotografia, teatro, musica. Alcuni di loro sono scrittori nati, e in qualche modo io riesco a individuarli.
RB: Incoraggia le persone a continuare a frequentare corsi di scrittura? Crede nell'efficacia dei corsi di scrittura post-laurea?
JCO: Se incoraggio le persone? Non interferisco quasi mai nella vita della gente. Se una persona viene da me e mi chiede un parere, allora lo esprimo. Ma non incoraggio mai le persone, né tento di convincerle. Non rientra nella mia personalità. Non cerco di costringere né di influenzare troppo le persone. Di solito le spingo a iscriversi alle scuole di specializzazione o a seguire un corso di scrittura perché nei laboratori di scrittura ci si sente a proprio agio, si riceve sostegno e c'è un'atmosfera meravigliosa, o almeno così è nei miei laboratori. Gli studenti imparano davvero ad apprezzarsi a vicenda, e molto. Sono buoni amici e noi siamo ansiosi di leggere i lavori prodotti, ci interessano molto. Mi interessa sempre molto vedere quello che scrivono i miei studenti. Ma quando lasciano l'università la situazione cambia. Quando cominciano a inviare i loro racconti alle riviste. Chi li riceve non è ansioso di leggerli. E molto probabilmente li rimanderà al mittente.
RB: Perché?
JCO: Ha mai visto la sede di una rivista. Pile e pile di roba - se ti arrivano 500 racconti alla settimana, non puoi dediacare a ciascuno la stessa attenzione che dedichi…
RB: Stavo pensando che Don Lee di Ploughshares ha detto che le piccole riviste letterarie ricevono più richieste di pubblicazione di quanti siano gli abbonamenti.
JCO: Molte di più. Ploughshares, quella sì che è un ottima rivista. Ma probabilmente riceveranno migliaia di racconti.
RB: Che cosa vorrà dire il fatto che così tante persone vogliono diventare scrittori?
JCO: Che cosa vorrà dire? Non lo so - che hanno il tempo libero necessario e un certo benessere economico. Si potrebbe trattare di qualcosa del genere. E poi che caratteristico della nostra specie è il desiderio naturale di raccontare storie e di esprimere se stessi, se non con le parole, attraverso la pittura, la musica. Sembra una cosa molto naturale.
RB: Negli ultimi 50 anni sembrano essersi diffuse teorie sul declino della cultura - la cultura popolare sta avendo la meglio su un tipo di cultura più elevato, le immagini stanno prevaricando sulle parole.
JCO: Internet fa largo uso delle parole. Devi saper usare la tastiera. E questo mi sorprende molto. Si ritiene che l'analfabetismo sia molto diffuso negli Stati Uniti, ma per usare bene internet si deve conoscere l'ortografia. Non puoi permetterti neanche il minimo errore, infatti, perché altrimenti non funziona. Ci deve essere un limite. Devono esistere milioni e milioni di persone che non sanno usare internet perché sono analfabete. Forse la nostra cultura si sta dividendo in due - la cultura di internet da un lato e il resto della gente dall'altro. Prima chi non sapeva leggere riusciva comunque a farsi strada nella società, bastava saper riconoscere una parola scritta su un autobus o il nome di una strada, o qualcosa del genere. Ma se davvero non si sa leggere non si può usare il computer.
RB: Penso che sia davvero strano che il computer finisca per far affermare la lingua e il testo scritto.
JCO: E' sorprendente. E le generazioni più vecchie per la maggior parte pensano che sia difficile usare il computer. Io ho un portatile della Macintosh. Pesa meno di un chilo. Ma scrivo a mano. Mi piace scrivere come si faceva una volta.
RB: [ride]
JCO: E' così che scrivo.
RB: Guarda molto avanti nel suo futuro?
JCO: Se guardo molto avanti?
RB: Sì.
JCO: Come scrittrice in genere penso al numero di libri che pubblicherò. Come quelli che ho nel cassetto, per esempio. A cosa riuscirò a pubblicare nel 2005 e forse nel 2006. Ma questo come scrittrice. Gli editori guardano sempre al futuro. Come persona invece guardo il calendario e vedo cosa c'è in programma. Ma più di questo non faccio, non guardo troppo avanti nel mio futuro.
RB: Prevede dei cambiamenti significativi nella sua vita? Continuerà a insegnare a Princeton e a scrivere…
JCO: Non prevedo grossi cambiamenti; ma ovviamente potrebbero verificarsi degli eventi. La nostra è un'epoca soggetta a improvvisi sconvolgimenti. Dopo l'11 settembre chi vive nella mia parte del mondo non riesce più a dare niente per scontato. Quella mattina dell'11 settembre sembrava quasi che questo mondo fosse giunto alla fine. Guardavamo la televisione, tutti quegli aerei spuntavano da chissà dove e noi ce ne stavamo lì seduti a chiederci "Dove sono questi aerei?". Uno cadeva sul Pentagono e via dicendo. Ma ci sono stati dei momenti in cui tutto sembrava sospeso. "Ci stanno attaccando? Andremo a fuoco?". Erano in molti a sentirsi così. Almeno nella zona in cui vivo io, vicino a New York. Non credo che la gente dell'Oklahoma provasse le stesse sensazioni.
RB: Probabilmente avevano già avuto un'esperienza simile con l'attentato al palazzo federale.
JCO: E' vero. Avrei dovuto dire "più ci si allontana dalla zona dell'attentato dell'11 settembre". E comunque l'attentato di Oklahoma City sembra fosse stato opera di uno svitato o forse due che…
RB: Se non ricordo male, i notiziari tirarono in ballo i terroristi arabi.
JCO: Davvero? Da subito? Oh, interessante. Non me lo ricordo. In realtà ero a Yale quel giorno. Stavo tenendo una conferenza a Yale e le prime notizie parlavano di un attentato a un asilo. E tutti si chiedevano perché colpire dei bambini. Ma poi si venne a sapere che non erano loro il bersaglio. È piuttosto interessante il modo in cui si diffondono le notizie. Una raffica di interpretazioni diverse che poi vengono completamente smentite.
RB: Che cosa sta leggendo al momento? Legge opere contemporanee?
JCO: Sì, certo. Leggo sempre opere contemporanee. Per la precisione al momento sto leggendo The Collected Short Stories of Jean Stafford - scriverò l'introduzione alla ristampa. E sto leggendo anche per l'edizione del 2005 dei migliori gialli americani.
RB: La serie di Otto Penzler?
JCO: Conosce Otto Penzler?
RB: Conosco la serie e la sua casa editrice, la sua libreria.
JCO: Sì, lui è curatore della serie e io collaboro con lui. Per cui sto leggendo storie meravigliose, molti dei racconti che arrivano. Mi piacciono i gialli. Per cui è fantastico. Mi diverto un sacco.
RB: Houghton Mifflin ha diviso le raccolte Best American in nove titoli diversi.
JCO: Best American Sports…
RB: Travel Writing, Essays, Science Writing, Non-Required Reading…
JCO: La prima collana è stata quella di racconti [1915]. Un anno mi sono occupata dei saggi e ho fatto Best American Essays of the 20th Century. Ecco il tipo di lettura che mi piace. Curare un grosso volume e leggere una gran quantità di roba. È un piacere per me.
RB: Che cosa ne pensa della recente indagine della National Education Association secondo cui la lettura è in declino e c'è la volontà di reagire a questa tendenza?
JCO: Non credo sia molto valida. Non sono stati presi in considerazione i libri di Harry Potter. Quindi una statistica che non li prende in considerazione non può essere molto attendibile scientificamente. Il fenomeno Harry Potter non coinvolge soltanto i bambini, i libri di Harry Potter li leggono anche gli adulti. Tiro solo a indovinare, ma penso che almeno un miliardo di persone abbia letto Harry Potter. Se una statistica non contempla questo dato, non è di grande aiuto. Nella statistica, per letteratura si intendevano narrativa, poesia e teatro. Ma quasi nessuno legge testi teatrali. Nemmeno io. Quindi, questo dato non ha una grande rilevanza. E poi non sono state prese in considerazione le biografie. E alcune rientrano tra i grandi libri della nostra epoca - perciò queste cose fanno notizia, ma a guardare bene…
RB: Le statistiche sono come gli exit poll.
JCO: Vede, hanno sempre qualcosa che non quadra. C'è sempre qualcosa che non quadra nei sondaggi. Io per esempio non sono mai stata contattata.
RB: Neppure io.
JCO: E non conosco nemmeno qualcuno che lo sia stato - nessuno dei miei amici. Ma allora chi è che viene contattato?
RB: Le stesse 1200 persone su 270 milioni - il solito campione di persone sorteggiate per le statistiche scientifiche.
JCO: Sì, probabilmente è così. Sono molto scettica. All'inizio della nostra conversazione ho citato Henry David Thoreau. Henry David Thoreau si poneva sempre domande sull'autorevolezza di un'informazione e pensava: chi mi sta dicendo questo e perché. Chi sta cercando di manipolarmi? Ho letto Thoreau quando avevo 15 o 16 anni, e credo che sia una buona lettura per un adolescente.
RB: E' un peccato che non ci sia più distinzione tra scetticismo e cinismo. Porsi domande critiche è una sana abitudine. Non vuol dire essere cinici. Avere un atteggiamento negativo e sprezzante nei confronti di tutto lo è, e decisamente non è di alcuna utilità.
JCO: Giusto. Sono sicura che lei è scettico di natura. Possiede quell'aura.
RB: [ride]
JCO: Non mi pare un credulone. Io non sono una credulona. E non penso di essere una persona cinica. Credo che chi ha intenzione di manipolare le persone ci riesce solo con chi si lascia manipolare.
RB: Quella di applicare a tutto le regole del marketing è forse una delle funzioni del capitalismo di ultima generazione.
JCO: Proprio così.
RB: Ha dei romanzi nel cassetto e continua anche a scrivere saggi e racconti. Ma non scrive per il teatro.
JCO: Invece sì. Un mio testo teatrale uscirà a gennaio.
RB: Cosa? [ride]
JCO: Ho scritto testi teatrali. A gennaio, a Washington, ci sarà la prima di un adattamento teatrale del mio romanzo The Tattooed Girl.
RB: Perché l'ha fatto?
JCO: Beh, per la voglia di scrivere qualsiasi cosa?
RB: Giusto.
JCO: Scrivere opere teatrali è molto eccitante. Lavori con attori e registi.
RB: Avrebbe potuto dire: "Perché me lo posso permettere."
JCO: Beh, il teatro è frutto di un'intensa collaborazione. La prima stesura di un'opera teatrale subisce così tante modifiche. Molti drammaturghi non si sentono sicuri di quello che hanno scritto finché non lo portano in teatro e non lo vedono rappresentato. Non riuscirei mai a scrivere un testo teatrale e a pensare che sia finita lì. Sono così tante le modifiche. Per cui ci vuole davvero molta modestia.
RB: Ma aveva detto che non leggeva teatro. Io non riesco a leggere i testi teatrali. Non riesco a leggere Shakespeare, ma mi piace vedere le opere rappresentate.
JCO: Shakespeare è relativamente semplice da leggere. Come anche Shaw e Chekhov. Ma l'ideale è vederli rappresentati.
RB: Bene, grazie infinite. Spero di incontrarla ancora.
JCO: Anch'io.
(Intervista tratta da "The Morning News" on-line magazine)
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