Brutta
Joyce Carol Oates
1
Sapevo che c'era qualcosa di losco nel modo in cui avevo ottenuto il mio posto di cameriera al Sandy Hook Inn. Sulla vetrina c'era un cartello con la scritta CERCASI CAMERIERA - CHIEDERE ALL'INTERNO, ed entrai così come mi trovavo, senza preoccuparmi di pettinare la mia chioma - si fa per dire - scompigliata dal vento, o di cambiare i miei vestiti sudati: tanto, che differenza poteva fare? Avevo un disperato bisogno di lavoro, e ne avevo cambiati due nei cinque mesi da quando me n'ero andata per sempre da casa dei miei, ma continuavo a fare la testarda, non so se per rassegnazione o fatalismo; un'altra ragazza con una pelle come la mia si sarebbe impiastrata la faccia di trucco e si sarebbe messa il rossetto, ma la mia filosofia era quella del chissenefrega. Una filosofia radicata e infallibile che mi ha guidato per tutta la vita. Nel Sandy Hook Inn mi sottoposi a una specie di colloquio di lavoro col proprietario e gestore Mr. Yardboro, un tipo con due spalle larghe così dell'età di mio padre, camicia sportiva sopra e pantaloncini da bagno sotto, faccia da bulldog e occhi rudi. Una sfilza di domande - da dove venivo, quanti anni avevo, in quali ristoranti avevo lavorato - mentre stava appoggiato coi gomiti sul bancone accanto alla cassa (eravamo in piedi di fronte alla tavola calda che è aperta tutto l'anno, un posto che mi ha stupito tanto era banale), con uno stuzzicadenti in bocca, squadrandomi in lungo e in largo come se fossi nuda, il bastardo. Neanche gentile quel minimo da invitarmi a sedere e bere una tazza di caffè (mentre lui lo stava bevendo). Era strano che la tavola calda fosse tanto rumorosa, quando almeno metà degli sgabelli e dei séparé erano vuoti. Eravamo a metà mattinata di un giorno feriale appena dopo il Labor Day1, e a Sandy Hook, una cittadina sull'oceano a quaranta miglia a nord di Atlantic City, la stagione era già finita. Un vento umido come saliva soffiava sabbia e immondizia nelle strade strette, e lungo la strada principale e giù al porto c'era un sacco di posto per parcheggiare. Si respirava quell'aria di sbaraccamento da cui i perdenti sono attratti istintivamente, anche a una giovane età. Nella tavola calda c'era puzza di grasso, di fumo di sigarette e di qualcosa di dolciastro e oleoso, che in seguito avrei scoperto essere l'unguento che Mr. Yardboro si spalmava sulla faccia paonazza e sulle braccia come prevenzione contro il cancro alla pelle. Un tanfo acre più penetrante proveniva dalle sue ascelle, se non dalle sue parti basse. "Tesoro, adesso mi viene in mente che il lavoro è già stato assegnato e che dovrei togliere il cartello," disse Mr. Yardboro con un sorriso da furbetto, come se il colloquio fosse stato uno scherzo. Dovetti fare una faccia allibita (all'epoca pensavo di avere imparato a non lasciar trasparire niente, ma penso che non sempre funzionasse), così aggiunse: "Perché non mi lasci il tuo numero di telefono? Non si sa mai." Come se mi facesse la carità. Come se fossi un botolo che era strisciato dentro e si sbrodolava ai suoi piedi per essere compatito. Mi sentii arrossire e pensai: Vai al diavolo, Mister, ma lo ringraziai e scarabocchiai il mio numero sul retro di una ricevuta stropicciata. Mentre mi sporgevo sul bancone per scrivere, mi ero accorta che fissava i miei seni che sballonzolavano nella canottiera; strinsi le ginocchia nude, come se questo bastasse a renderli meno evidenti.
Due giorni dopo ricevetti una telefonata: era una che chiedeva se ero io la ragazza che voleva fare la cameriera al Sandy
Hook Inn. A quanto pare mi ero dimenticata di scrivere il mio nome (l), così dissi di sì, che ero io, e mi chiese se potevo iniziare il giorno dopo, alle sette di mattina. Ero così eccitata che quasi balbettai quando le risposi: "Sì! Grazie! Ci sarò."
2
I miei sospetti non erano infondati. A quanto pareva nessuna era stata ancora presa quando avevo fatto il colloquio.
Maxine, la donna che mi aveva chiamato, che era una cugina del proprietario nonché la numero due del locale, scoppiò a ridere e scosse la testa quando le raccontai tutta quella commedia. "Oh, Lee si diverte così, lo devi prendere con un briciolo di ironia. Gli piace scherzare, ma non è cattivo." Sorrisi per far vedere che avevo senso dell'umorismo. Ma continuavo a essere perplessa, e dissi: "Forse Mr. Yardboro sperava di prendere qualcuna più qualificata di me. Magari più carina." Altra risata di Maxine. "No, no. Lee non ha la fissa per le ragazzine, credimi. Le prendiamo soprattutto per l'estate, le studentesse. Ma fuori stagione la clientela è diversa. A volte una tavola calda può essere un posto abbastanza duro, e quelle troppo carine non vanno bene. Sono troppo sensibili, non sono abbastanza forti per portare i vassoi, non vogliono sporcarsi le mani. E francamente non reggono alla pressione." Maxine si accalorava. Ci sorridemmo. Eravamo entrambe due donne senza pretese. Maxine andava quasi per i cinquanta, io avevo da poco passato i venti.
3
In sala da pranzo indossavo un'uniforme azzurra di tessuto sintetico, con la scritta SANDY HOOK INN e un'ancora cucite sopra il mio seno sinistro; ma alla tavola calda, mi disse Maxine, potevo tenere i miei vestiti. Anche i jeans erano okay, purché non fossero sporchi.
"Le cose essenziali, per una cameriera, sono due: essere efficiente," spiegò Maxine senza traccia di ironia, "e naturalmente sorridere. Ti accorgerai che una da sola non basta."
Una volta avevo già fatto la cameriera part-time, mentre seguivo i corsi di economia al college della mia città. Non avevo riferito a Mr. Yardboro i particolari della mia breve esperienza in un ristorante vicino a una stazione dei Greyhound: mi cadevano i piatti dalle mani, e più di una volta avevo versato il caffè bollente sul bancone e sul cliente. In quel periodo, a diciannove anni, prendevo pillole dimagranti, quelle che si possono comprare in qualunque farmacia senza ricetta, e avevo strani effetti collaterali: a furia di vedere aloni tremolanti attorno alle luci e aureole attorno alla testa della gente, rimanevo ipnotizzata e rallentavo i miei riflessi. E contemporaneamente il resto del mondo sfrecciava al fast forward. Quanto alle pillole, non mi tolsero l'appetito, ma mi resero ancora più vorace. Di nascosto mangiavo i resti dei piatti che portavo via. Dopo dodici giorni venni licenziata. Gli ultimi piatti che avevo lasciato cadere forse non erano stati un incidente.
Il mio lavoro di cameriera al Sandy Hook Inn non era quello che mi aspettavo. Mi immaginavo di servire in uno spazioso salone con vista sull'oceano, ma la sala da pranzo del Sandy Hook Inn dava su un porticciolo di barchette dall'aria depressa, con nomi come "Lupo di mare" e "Mad Max II". Dopo il Labor Day la sala da pranzo era aperta solo il fine settimana, e la domenica solo per il brunch. Ero quasi sempre di turno la domenica, e fare la cameriera si riduceva più o meno a spingere in cucina enormi carrelli di piatti sporchi e porcate varie. Sorridevo ostinatamente a intere famigliole, compresi i marmocchi sui seggioloni. Presto fu evidente che ero la meno popolare delle varie cameriere del posto, dato che le mie mance erano le più scarse. Il che mi fece impegnare e sorridere ancora di più. Sembrava che ci fosse una morsa a tendermi le labbra da un orecchio all'altro, e mi veniva un colpo nel vedere i miei denti luccicanti di saliva riflessi dalla superficie d'alluminio della porta della cucina.
Mr. Yardboro mi osservava con una sorta di cupo divertimento. Con una giacca sportiva che gli stava stretta sulle spalle (ignorava la cravatta), controllava il buffet domenicale, pronto a dare ascolto a richieste e lamentele dei clienti. Tutte le cameriere lo temevano: quando non lo vedeva nessuno, abbaiava ferocemente rimproveri, mascherandoli dietro sorrisi stirati. La mia seconda domenica stavo dannandomi a servire tre famiglie numerose, quando Mr. Yardboro mi segui in cucina, e pizzicandomi un braccio disse: "Calma, piccola. Stai sbuffando come un cavallo." Risi nervosamente, come se fosse stata una battuta. Mr. Yardboro esibiva la dentatura, e l'ammasso di capillari rotti sulle guance lo faceva sembrare un tipo cordiale e alla mano, ma non ero un'ingenua.
All'inizio il segno delle dita di Mr. Yardboro sul mio bicipite era di un rosa opaco, ma poi si scurì nel tradizionale giallo-viola di un livido.
Va aggiunto che Mr. Yardboro era il primo uomo che mi toccava dopo molto tempo, ma non c'era da ricamarci sopra.
4
Non sono brutta dalla nascita. Ho visto foto di me appena nata e da bambina, tutta ricci neri ribelli, occhi scuri luccicanti e un sorriso beato. (Forse, se le foto fossero state scattate più da vicino, si sarebbero visti i difetti.) Sono poche, e io sono misteriosamente da sola, a parte qualche braccio adulto che mi regge o mi gira verso l'obiettivo, una figura in pantaloni (mio padre?) chino di spalle, un grembo femminile (mia madre?). Quando stavo dai miei passavo ore e ore a guardare queste vecchie immagini nell'album di famiglia; erano come indovinelli in lingua straniera. E dovevo resistere all'impulso di farle a pezzi.
A Sandy Hook, una notte, mi svegliai, nella stanza che avevo affittato, fradicia di sudore. Il pensiero si materializzò davanti a me come un biglietto in un dolcetto cinese della fortuna. Quella ragazzina era tua sorella, che è morta. Quando sei nata tu, ti hanno dato il suo nome.
Non c'era altra soluzione.
5
"Cameriera, datti una mossa!"
"Dove sei stata, al cesso? Voglio altro caffè."
Dopo due settimane, servivo solo alla tavola calda. Qui l'atmosfera era vivace e informale. C'erano un po' di clienti abituali, maschi, amici di Lee Yardboro che fischiavano per attirare l'attenzione delle cameriere, e spesso gridavano le loro ordinazioni da dove erano seduti. Uomini che mangiavano in fretta e con appetito, chinando la testa sul piatto, parlando e ridendo con la bocca piena. Clienti che non era difficile accontentare, se facevi quello che chiedevano; e i loro bisogni erano semplici e prevedibili: mangiavano e bevevano sempre le stesse cose. Non si accorgevano se chi li serviva sorrideva, o se il sorriso era forzato, scocciato, finto o ironico; dopo pochi giorni, quasi smisero di guardarmi in faccia. Era il mio corpo a interessarli: le mie tette dondolanti, le mie cosce muscolose e le mie chiappe. Pesavo sessantasei chili per uno e sessantasette. Durante un'ondata di caldo, a settembre, cominciai a indossare canottiere larghe senza reggiseno. Altrimenti T-shirt fluorescenti e minigonna di jeans con borchie metalliche che scintillavano come gemme. Il mio unico paio di jeans, scolorito e liso a furia di lavarlo, mi faceva risaltare il culo e il solco tra le chiappe, come in un fumetto (mica per niente avevo studiato l'effetto allo specchio). Lasciavo la fine peluria bruna sulle mie gambe polpose, e mi divertivo a dipingere le unghie dei miei tozzi alluci con colori tipo verde, azzurro, argento. Spesso, all'ora di punta, avevo i capelli aggrovigliati e umidi, appiccicati come alghe sulla nuca. E mentre portavo vassoi carichi di uova, salsicce, spessi hamburger grondanti di sangue, patatine, filetti di pesce fritti e bottiglie di birra, diventavo oggetto di conversazione, un'entità impersonale su cui gli uomini potevano scambiarsi ghigni maliziosi, roteare gli occhi; mentre piazzavo i piatti davanti a loro, annusavano all'altezza del mio inguine e mormoravano allusivi: "Mmmm, baby, che profumino." Come un cane docile, imparavo a obbedire a fischi laceranti, addirittura a ridere per la mia prontezza. Lì, se sudavo o ansavo come un cavallo, non ci badava nessuno. E anche il mio datore di lavoro, che ogni mattina se ne stava come un pascià a bere caffè e fumare con gli amici, sembrava non farci caso. Forse solo perché era la tavola calda. Rideva un sacco, e sorrideva senza mostrare i denti. Mi chiamava "babe", "dolcezza", "tesoro" - senza sarcasmo. Non mi sgridava quasi mai. E non mi dava quasi mai pizzicotti, anche se a volte, per gioco, mi ficcava l'indice nella ciccia intorno alla vita. E lo disprezzavo, anche quando facevo di tutto per piacergli. Di una cosa ero stranamente fiera: che a Sandy Hook, settemilatrecentotré abitanti, Lee Yardboro, ex campione delle superiori, fosse conosciuto e amato da tutti, uomini e donne. Anche se era sposato e padre di un bel po' di figli ormai piuttosto grandi, c'era qualcosa di giovanile e di vulnerabile nella sua faccia da bulldog: come se, da ragazzo d'America, una mattina si fosse svegliato intrappolato nel corpo di un uomo di mezza età, carico delle responsabilità di un uomo di mezza età. (Maxine mi confidò che suo cugino Lee e sua moglie avevano avuto una tragedia in famiglia: un figlio "artistico" che li aveva fatti molto soffrire. Guardai Maxine così perplessa che mi dovette ripetere quello che aveva detto; e rimasi altrettanto perplessa finché non capii che voleva dire "autistico", ma a quel punto la cosa mi sembrò così buffa che scoppiai a ridere. Maxine era esterrefatta. "Meglio che Lee non ti senta. Non c'è niente da ridere sulle minoranze mentali." Parole che, dalla sua bocca corrucciata, furono la goccia che fece traboccare il vaso. E risi fino a farmi venire le lacrime agli occhi.)
Mentre servivo Lee e i suoi amici seduti in un séparé, osservavo con una sensazione di assurda tenerezza la sua cotenna, arrossata e forforosa sotto il riporto sempre più rado che si modellava con cura con un pettine bagnato. Osservavo la sua pelle a chiazze, gli occhi azzurri sempre iniettati di sangue che strabuzzava in segno di divertimento, di finta credulità o di disprezzo. Non toccarmi, bastardo. Toccami, ti prego.
6
Il Sandy Hook Diner era un posto dove non potevo fallire. Ma se fallivo e mi facevo licenziare, come era successo in altri posti, che cosa poteva cambiare?
Sorrisi, succhiando questa piccola certezza inattaccabile come un dente che dondolasse.
7
Il tempo si guastò. Inaugurai un paio di pantaloni di velluto rosso ruggine con la cerniera lampo, che mi stavano così stretti sulle chiappe (a quanto pare cominciavo a mettere su chili, a furia di spazzolare i resti di salsicce, biscotti al burro e patatine fritte) che la cucitura cominciava a cedere, mostrando un lembo minuscolo quanto civettuolo delle mutandine bianche di nylon. Sopra mettevo sempre le T-shirt dai colori accesi, e ancora sopra, delle camicie sbottonate o dei golf. Spesso con i jeans mettevo una felpa verde che avevo comprato alla libreria del college con la scritta POTERE ALLA POESIA a grandi caratteri bianchi. A vedermi, con i capelli a coda di cavallo e il sorriso da cameriera che percorreva la metà inferiore della mia faccia, ti veniva da pensare: Una ragazza che ha vinto la sua timidezza. Buon per lei.
Dopo un po' mi accorsi di uno che veniva abbastanza spesso. Chiamava la cameriera alzando la mano e abbassando la testa, come se fosse imbarazzato o si vergognasse. Era pieno di tic. Muoveva a scatti la testa come se avesse il collo rigido. Gli tremavano le spalle. Apriva e chiudeva i pugni. Lo beccavo che mi guardava imbronciato, ma si girava dall'altra parte se lo guardavo io. Era uno che conoscevo? A dire il vero mi ricordava un prof di matematica delle medie (il mio paese è a un'ora di macchina da Sandy Hook, in mezzo al New Jersey), che era stato licenziato quando ero in seconda. Ma questo tipo, che quasi non dimostrava trent'anni, era troppo giovane per essere Mr. Cantry. Parliamo di nove anni prima.
Il tipo, che indossava sempre un vestito di tweed, una camicia bianca abbottonata e niente cravatta, veniva soprattutto a fare colazione, due o tre volte la settimana. Zoppicava leggermente. Era alto più di un metro e ottanta, aveva una faccia pallida e grassoccia da ragazzino, una testa oblunga come una zucca, e due occhi dalle palpebre pesanti sempre a mezz'asta, che fissavano me o il mio corpo con un'aria di disapprovazione. Bruttona che non sei altro. Dove lo trovi il coraggio di mostrarti in pubblico?
Brutto lo era anche lui. Di una bruttezza strana. Ma negli uomini la bruttezza conta poco. Mentre in una donna è questione di vita o di morte.
Il tipo sembrava sedersi sempre nella stessa parte del locale. Nel séparé d'angolo più lontano. Dove si metteva a leggere un libro, o almeno faceva finta. Ed era sempre scuro in volto, quando mi avvicinavo indolente col mio sfacciato sorriso da cameriera, penna e taccuino in mano. Niente chiacchiere sul tempo, con lui. Niente insinuazioni piccanti. Niente risate. Ancora prima di mangiare (cosa che faceva con aria schifiltosa, anche se insufficiente a mascherare la sua natura di ghiottone, con la pancia che aveva), sembrava che patisse di spasmi intestinali acuti. Il suo corpaccione era così molle che sembrava in decomposizione, e i vestiti sembrava fossero del padre defunto. Mi ispirava una ripugnanza fisica, ma devo ammettere che era sempre affabile e bene educato. Mi chiamava "cameriera" o "Miss", e parlava lentamente, guardandomi ansioso mentre prendevo l'ordinazione, come se temesse che fossi una ritardata o lo prendessi in giro; tant'è che alla fine gli dovevo rileggere tutto. Aveva la voce sorda e fioca, come quella di una lontana stazione radio.
Una delle sue stranezze erano i capelli, che portava corti, tagliati con la macchinetta. Erano di un colore neutro e metallico, un non-colore, come i suoi occhi. Esageravano il suo aspetto adolescenziale, ma ti facevano chiedere se ci fosse qualche motivo medico per cui li portasse così corti: tipo una malattia del cuoio capelluto, o i pidocchi.
Fuori stagione, al Sandy Hook Diner, i clienti di rado lasciavano come mancia più del dieci per cento del conto. Alcuni stronzi, con la scusa che non avevano spiccioli o non erano capaci di calcolare il dieci per cento, lasciavano ancora di meno. Qualche monetina. Ma l'uomo in tweed lasciava addirittura il venti per cento, sempre corrucciato, senza incrociare mai il mio sguardo, precipitandosi fuori dal locale. Io gli rivolgevo un sonoro "Grazie, signore! ", più per metterlo in imbarazzo che per esprimere una gratitudine che in realtà non provavo; disprezzavo più quelli che mi lasciavano la mancia che quelli che non la lasciavano. E la volta dopo, quando entrava, non mi guardava mai direttamente, come se non mi avesse mai vista prima.
Dato che non aveva un nome, era sempre da solo e sembrava così strano, l'uomo in tweed divenne il bersaglio di Mr. Yardboro, dei suoi amici e delle mie colleghe, anche in presenza di Maxine. Lo chiamavano "Bello di mamma" o "Signor Checca". Parola, quest'ultima, che suscitava particolare ilarità, chiunque la pronunciasse. Sarebbe logico pensare che Mr. Yardboro, proprietario del Sandy Hook Diner, avrebbe dovuto essere grato a ogni suo cliente e prenderne le difese, ma non andava così. Troppo forte era l'impulso di prendere in giro, ridicolizzare e condividere con altri il disprezzo per qualcuno. (C'erano altri clienti che venivano presi in giro da loro, ma con meno cattiveria. Ne ero affascinata, e mi chiedevo che cosa dicessero di me alle mie spalle.) Una volta passavo vicino a Mr. Yardboro mentre faceva una delle sue battute, e mi misi a ridere nel modo in cui avevo imparato alle superiori, quando orecchiavo le battutacce dei ragazzi. Facevo dei risucchi e dei gorgoglii come se, scandalizzata, cercassi di non ridere, strizzando gli occhi e scrollando femminilmente le spalle e i seni, come se fosse più forte di me. Mr. Yardboro si guardò in giro, ghignando. Come ogni gradasso, aveva bisogno di un pubblico.
L'uomo in tweed uscì dalla tavola calda e due minuti dopo tutti si erano dimenticati di lui. Ma io stavo attenta al modo in cui camminava, trascinando le gambe come se facesse fatica a portare quel peso. Veniva a piedi e non aveva la macchina. Doveva abitare vicino. Una sera lo vidi in biblioteca, corrucciato sopra un'enciclopedia, a prendere appunti pignolescamente. Un giorno lo vidi passeggiare sul molo, con un trench fuori moda sopra la giacca di tweed, e un berretto con la visiera calcato sulla testa oblunga, di modo che il vento non lo portasse via; guardava per terra, senza badare all'oceano agitato e luccicante, con le onde che si infrangevano e sollevavano spruzzi a pochi metri da lui. Mi chiesi a cosa stesse pensando di così importante, e gli invidiai il fatto che riuscisse a trovare tante cose interessanti dentro se stesso. Chissà cosa, poi.
Se si fosse guardato in giro e mi avesse vista e riconosciuta, di certo io avrei fatto finta di non riconoscerlo.
Non seguii mai l'uomo in tweed, lo osservavo e basta. Da lontano. Senza farmi vedere. Quando non lavoravo, ne avevo di tempo da far passare. La stanza che avevo affittato (in una casa vittoriana trasformata in residence per single) mi deprimeva, così ci stavo il meno possibile. Anche se dovevo ammettere (e lo vantavo ai miei) che era a buon mercato, in bassa stagione, e a solo cinque minuti dall'oceano. Avevo anche il telefono, ma non c'era nessuno che volessi chiamare e nessuno che mi chiamasse. C'era un letto matrimoniale con un materasso morbido come un marshmallow in cui ogni notte, anche per dieci ore di fila se ce la facevo, sprofondavo in un fantastico sonno quasi senza sogni, come un cadavere in fondo all'oceano.
8
Che aspetto avevo, a ventun anni? Non ne ero sicura.
Come la gente grassa impara a evitare gli specchi a figura intera, così la gente brutta impara a non vedere ciò che è inutile vedere. Non ero propriamente grassa, e provavo una soddisfazione perversa nel contemplare il mio corpo tozzo e ridicolmente voluttuoso dentro ai miei vestiti ridicoli, ma era da anni che avevo smesso di guardarmi in faccia. Quando, per motivi pratici, non potevo farne a meno, stavo incollata allo specchio, di traverso, esaminando singole parti. Un occhio, la bocca, un pezzetto di naso. Non mi truccavo e non avevo bisogno di strapparmi le sopracciglia (alle superiori me le ero strappate quasi tutte, non sopportando di averne tante, nella vana speranza che ricrescessero); e non avevo problemi a strofinarmi la faccia con una spugna o a lavarmi i denti china sul lavandino, come facevo una volta al giorno, prima di andare a letto. Non c'era problema neanche coi capelli, e non avevo bisogno di specchiarmi per spazzolarli, se mai li spazzolavo; e quando diventavano troppo lunghi e ingarbugliati, potevo spuntarli con un paio di forbici, senza chiedere aiuto a uno specchio. A volte mi piaceva mettermi un foulard, con un effetto tra l'indiano e il fricchettone.
Ogni tanto mi veniva in mente, mai troppo sul serio, di tingermi i capelli di biondo platino e di farci qualcosa di sexy. Uno dei miei ricordi d'infanzia più vividi (e non ce ne sono molti) era quello di due ragazzi che osservavano una ragazza su tacchi alti che camminava davanti a loro. La ragazza aveva i capelli biondi alla paggetto e aveva un bel corpo, ma quando i due si avvicinarono per vederla meglio, lei si girò: era racchia, con gli occhiali e la faccia da cavallo. Uno dei due emise un gemito e scoppiò a ridere, dando di gomito all'altro. La ragazza continuò per la sua strada, facendo finta di non avere capito. Quella ragazza non era la sottoscritta, ma io avevo visto e sentito. Avevo dieci anni, e già conoscevo il mio destino.
Un vantaggio di essere brutte: per essere reale, non c'è bisogno che gli altri ti guardino. Più sei bella, e più dipendi dallo sguardo e dall'ammirazione degli altri. Più sei brutta, e più sei indipendente.
Un altro vantaggio, è che non devi perdere tempo a cercare di essere al meglio: tanto non lo sarai mai.
Quello che ricordo della mia faccia è una fronte bassa, un naso lungo con un bozzo in fondo, due occhi luccicanti e troppo vicini. Le sopracciglia un tempo spesse e nere come quelle di un orangotango. Una bocca anonima, ma ben esercitata nell'ironia fin dalla più tenera età. D'altronde, cos'è l'ironia se non la tomba della sofferenza? E cos'è la sofferenza se non la tomba della speranza? La mia pelle era scura e olivastra, come se avessi un alone di sporco. I miei pori erano oleosi prima ancora della pubertà. Agli occhi di certa gente sembravo "straniera". E questo fin dalle elementari, quando iniziarono a prendermi in giro. Cominciai ad apprezzare questa qualità. Come quando si parla di oggetto o sostanza "non identificata", in un cibo o sugli schermi di un radar. Anche se nella mia famiglia nessuno era stato "straniero" da molte generazioni. Tutti fieri di essere "americani al cento per cento" anche se nessuno aveva idea di che cosa significasse.
9
Al Sandy Hook Inn il lavoro andava a rilento, adesso che la stagione era finita. I turisti stavano alla larga dalla costa settentrionale del New Jersey, dove soffiava sempre un vento umido, e in pochi minuti si passava dal sole alla pioggia battente. Ogni mattina, prima dell'alba, il vento mi svegliava, sbatacchiando la mia unica finestra come se fosse in vena di scherzi di cattivo gusto. Gambe, piedi e schiena mi dolevano dal lavoro del giorno prima, eppure ero eccitata dalla prospettiva di un altro giorno al Sandy Hook Diner. Il mio istinto mi ha guidata nel posto giusto. O adesso o mai più.
Il Sandy Hook Diner, che fuori doveva sembrare il vagone di un treno. Scintillante come latta.
Il Sandy Hook Diner, di prima mattina: una fila di dieci sgabelli di plastica nera davanti al bancone di fòrmica. E otto séparé di plastica nera lungo il muro esterno.
Il Sandy Hook Diner, con i tubi di neon sul soffitto, abbaglianti da far male agli occhi. E io, con un sorriso estatico, a sfregare sfregare sfregare con una spugna la fòrmica consunta e le superfici di alluminio, come se fossi stata investita della sacra missione di riportarli allo splendore originario.
Chi è stato? Ma brilla come uno specchio! esclamava Mr. Yardboro. E allora qualcuno glielo diceva.
Il Sandy Hook Diner, che mi sballottava durante il sonno, che mi trascinava sotto le sue ruote. Dio, come ero eccitata! Mi precipitavo fuori, affrontavo il vento e arrivavo alle sei e cinquanta, senza fiato. Controllando ansiosa se la Lincoln Continental (un po' provata) di Mr. Yardboro fosse parcheggiata al solito posto. (Certe mattine Mr. Yardboro arrivava tardi. E certe altre non arrivava proprio.)
Mi chiedevo se il figlio autistico fosse un bambino o una bambina. E nel secondo caso, se mostrasse i segni della minorazione anche nei lineamenti. Se negli occhi gli brillasse una luce strana.
Una cotta per il capo? Quello stronzo? Senza neanche saperlo? L'avevo sempre saputo, fin dal colloquio. Era una delle mie battute preferite. E mi faceva ridere da matti.
Poiché il lavoro andava a rilento, i miei turni erano irregolari. Una cameriera più vecchia di me non si era più fatta vedere. Non feci indagini. Mi misi a lavorare di più, sempre di più. Sorridevo. Alle facce dei clienti rivolte all'insù e alle loro schiene quando uscivano. Sorridevo come una matta mentre sfregavo la griglia unta di grasso e le superfici di fòrmica, fino quasi a farle luccicare. E fantasticavo: che se Mr. Yardboro mi avesse licenziata, non avrei avuto altra scelta se non buttarmi nell'oceano e annegarmi. Avrei dovuto scegliere un posto fuori mano, e agire di notte. Ma la visione del mio corpo tozzo e fradicio sulla spiaggia, in pasto ai gabbiani tra alghe marce e pesci morti, era un buon deterrente.
10
"Dolcezza, serve altro caffè!"
Era una mattina come le altre e Artie, uno dei camionisti amici di Mr. Yardboro, mi stava chiamando con un fischio. E l'uomo in tweed, dal suo séparé d'angolo, commentò severo:
"Che razza di maleducati! Non glielo dovrebbe permettere! Perché lo sopporta?" Rimasi a fissarlo, incredula che mi avesse rivolto la parola. Era già in piedi e stava per precipitarsi fuori, guardandomi con aria indignata. Avrei voluto dirgli qualcosa, ma tutto quello che mi veniva in mente erano delle scuse, e non aveva senso scusarsi per la maleducazione di un'altra persona. Così non dissi nulla. L'uomo in tweed sbuffò disgustato, ed era già fuori dal locale. In seguito mi sarei ricordata della sua faccia pallida e paffuta coperta di chiazze rosse, come se avesse l'orticaria.
Più tardi, in mattinata, quando il locale era quasi vuoto, l'uomo in tweed tornò. Aveva lasciato lì un guanto, disse. Ma non trovammo niente vicino a dove si era seduto. Con grande imbarazzo, vincendo un tic alle labbra, mi disse, a voce bassa: "Spero... di non averla turbata, Miss. Naturalmente non sono affari miei. Intendo lei, e questo locale." Ci osservammo torvi, come due sfigati che si trovano faccia a faccia a una festa. Mi accorsi che non era poi tanto giovane: aveva solchi profondi sotto gli occhi e rughe sulla fronte. Stavo cercando una risposta intelligente per sdrammatizzare, o addirittura spiritosa, ma anche se sorridevo per riflesso, d'un tratto sentii ronzarmi le orecchie, e nella mia testa si creò il vuoto. Come quando, a scuola, venivo interrogata o dovevo fare un test decisivo, e di colpo c'era il black-out. Naturalmente l'uomo in tweed si era preparato questo discorsetto, che doveva essere nobile e galante, ma lo slancio si era esaurito e cominciava a perdere colpi. Comunque si ostinò a continuare: "È un... un brutto spettacolo. Capisco che ha bisogno di lavorare. Le mance. Per cosa sennò? Si capisce. Sembra che non aspiri a niente di meglio."
"Ma a me piace, qui," mi sentii balbettare. "Sono... sono contenta."
"Quanti anni ha?"
"Quanti? Ventuno."
D'un tratto sembrava qualcosa di cui vergognarsi. Volevo gridargli di lasciarmi in pace, a quel bastardo.
Lesse il disagio nei miei occhi, e guardò da un'altra parte. Si schiarì la gola con un suono lacerante, e dovette deglutire un grumo di catarro. "Mi pare che... che lei era una mia alunna. Anni fa."
Mr. Cantry? Era lui?
Ma era già uscito. Rimasi a guardarlo, intontita. La mattina, prima di scappare, mi aveva lasciato sul tavolo due banconote da un dollaro stropicciate, oltre a un piatto di uova, salsicce e patatine ancora a metà. Avevo mangiato una salsiccia e quasi tutte le patatine senza neanche rendermene conto.
11
Il giorno dopo, l'uomo in tweed non si fece vedere al Sandy Hook Diner, e così quello successivo. Ogni volta che qualcuno della sua stazza apriva la porta, stavo sulle spine, piena di rabbia. E tiravo un sospiro di sollievo quando vedevo che non era lui.
Cercai di ricordarmi che cosa fosse successo a Mr. Cantry, nove anni prima. Come insegnante non mi piaceva, ma lo stesso valeva per la maggior parte dei miei prof. Erano corse voci bizzarre. Un giorno, in mensa, aveva litigato col preside. Aveva preso a schiaffi un ragazzo. L'avevano fermato per guida in stato di ubriachezza, aveva opposto resistenza all'arresto, e l'avevano picchiato, ammanettato e portato alla stazione di polizia, dove l'avevano messo in cella. Oppure aveva dato fuori da matto in un locale pubblico. Nella sala d'attesa di un medico. In un minimarket. Aveva cominciato a gridare ed era scoppiato a piangere. O ancora, si era ammalato, e aveva subìto un intervento. Era stato in ospedale per mesi e mesi, e alla fine, quando era uscito, il suo posto di insegnante di matematica era andato a qualcun altro.
Una prof giovane e popolare gli aveva fatto da supplente, e alla fine era stata assunta lei. Nel giro di qualche settimana, Mr. Cantry era stato completamente dimenticato anche dai pochi studenti che lo stimavano.
Si stava riparando dalla pioggia sulla soglia di una lavanderia a secco, l'isolato dopo il Sandy Hook Diner. Impossibile credere che non mi stesse aspettando. Eppure tentò goffamente di fingere un'espressione di sorpresa, quando mi vide arrivare. Fece un passo avanti e aprì un grosso ombrello nero. "Salve! Che coincidenza! Temo però di non ricordarmi il suo nome."
Tese l'ombrello sopra di me, da vero gentiluomo. La pioggia cadeva in morbide scaglie, sottile come spruzzi delle onde. Il tipo sorrideva ansiosamente, e già mi disprezzavo per non essere scappata. "Xavia," dissi.
"Prego?"
"È rumeno."
Era un nome che non avevo mai sentito, e non so come avesse fatto a venirmi in testa in quel momento.
Così iniziammo a camminare. Più o meno senza meta. Avrei girato all'angolo per andare a casa, ma con Mr. Cantry al mio fianco che mi parlava con la sua voce incerta, dimenticai dove stessi andando. Per la seconda volta si scusò per quello che aveva detto alla tavola calda. "Ma non credo che quello sia l'ambiente adatto a una ragazza come lei." Ribattei: "Quale sarebbe allora la ragazza adatta a un ambiente come quello?" Ma Mr. Cantry non replicò. Si stava infervorando a proposito di "ambiente", "decenza" e "giustizia", e non riuscivo a seguire il filo del discorso. Mentre eravamo fermi a un semaforo ad aspettare il verde - anche se non c'era traffico - si presentò come Virgil Cantry, e mi tese la mano. Fui costretta a stringerla - era salda e carnosa. "Mi è permesso di accompagnarla fino a casa, Xavia?"
No! Non le è concesso! gridavo dentro di me, ma invece dissi, col mio tono brillante appreso sul lavoro: "Perché no?"
La solitudine è come la denutrizione: non ti accorgi di quanto sei affamato finché non cominci a mangiare.
"Ho smesso di essere un insegnante. Adesso mi definirei un privato cittadino. Un testimone." Mr. Cantry mi reggeva l'ombrello tenendosi a rispettosa distanza, e anzi bagnandosi al posto mio. Mentre parlava, la sua testa bislunga si muoveva a scatti, e le spalle gli fremevano senza sosta sotto il trench. La mia presenza sembrava eccitarlo e al tempo stesso innervosirlo. Mentre camminavamo - eravamo una strana coppia: lui più alto di me di un buon trenta centimetri - cercavo di non sfiorargli il braccio; sentivo il cuore che mi batteva veloce, incredula e al tempo stesso terrorizzata; ma dovetti resistere anche all'impulso di mettermi a sghignazzare. Dopotutto non era una specie di appuntamento? Di incontro romantico? Mi chiedevo che impressione potevamo dare, a camminare in coppia in una strada quasi deserta di Sandy Hook, New Jersey, sotto la pioggia. Se fosse stato un film, ci sarebbe voluta la musica per capire se era una scena solenne, triste, commovente oppure comica. "A un certo punto non sono più stato bene," raccontò Mr. Cantry, "e in quel periodo ho perso il senso di me. Ho scoperto che le nostre esistenze biografiche non sono la nostra essenza. E adesso penso di essermi liberato dalle contaminazioni e dalle distrazioni dell'io. È sufficiente sapere che esisto. Perché esistere significa essere testimoni. Ho un astigmatismo così forte che mi devo mettere le lenti a contatto, ma è senza che ho imparato a vedere davvero."
"Anch'io porto le lenti a contatto," dissi. "Le odio."
Non c'entrava niente, e sorrisi. Ma Mr. Cantry quasi sembrava non ascoltare. "Era nella mia classe, Xavia? Qualche settimana fa mi sembrava di averla riconosciuta, ma mi sembra strano che non ricordi un nome così fuori dal normale."
"Non ero una studentessa fuori dal normale. Anzi, non andavo bene in matematica."
"La ricordo come un'allieva intelligente e seria. Ma timida. Forse ansiosa. Chiedeva sempre dei compiti supplementari, e li faceva sempre bene."
Non trattenni una risata sonora quanto imbarazzata. "Quella non ero io, Mr. Cantry."
"La prego, mi chiami Virgil. Comunque era lei."
Mi sentii offesa che quello sconosciuto pretendesse di sapere di me più di quanto sapessi io.
Non avendo svoltato prima, adesso ero costretta a fare un altro giro per tornare a casa. E Mr. Cantry, infervorato a parlare dei suoi anni di insegnamento, della malattia, convalescenza e miracolosa trasformazione dell'io, sembrava non accorgersi di dove stessimo andando. Sembrava lo si potesse guidare sfiorandolo appena, come un bue bendato. Non faceva caso alla pioggia, che era abbastanza fredda, e continuava a reggere l'ombrello nero sopra la mia testa. Immaginai che avrei potuto portare questo strano individuo dovunque: sul molo, che a quest'ora brulicava di ragazzini che andavano nella sala giochi; o lungo la spiaggia piena di immondizie portate dal vento, fino al faro dipinto di bianco, che da tempo era diventato un monumento locale. Mi sembrava strano, e mi metteva a disagio, che quest'uomo che non mi conosceva si fidasse tanto di me.
"È andata via da casa, Xavia? Vive da sola?"
Avrei voluto rispondergli: Preferisco non parlare dei fatti miei, grazie! ma invece dissi, col mio tono brillante da cameriera: "Sì, da sola."
"Io non mi sono mai sposato," specificò Mr. Cantry. "Non ne ho mai avuto l'occasione."
"Ma che peccato."
"No, no, no! Certe nature non sono fatte per sposarsi. O almeno per generare bambini."
"Si può essere sposati senza avere figli, Mr. Cantry."
"Ma allora che senso avrebbe il matrimonio?" ribatté con veemenza. "Il legame coniugale non è altro che una legge imposta alla natura per rafforzarla. L'incarnazione sociale della natura. Per riprodurre la specie e nutrire la progenie. Senza progenie, non ci sarebbe neanche matrimonio."
Non era il caso di prolungare la discussione. Mi chiesi di cosa stessimo parlando. Se non altro, non era il matrimonio quello che aveva in testa.
Eravamo arrivati nella strada stretta e buia dove abitavo; e sembrava che Mr. Cantry e io ci scontrassimo più di frequente. "Mi scusi!" mormorò più di una volta. Doveva essere stato in seconda media, stavo pensando, quando avevo avuto le mestruazioni per la prima volta, e la mia pelle aveva cominciato a rovinarsi; e magari Mr. Cantry si ricordava di me prima dell'invasione dei foruncoli. Mentre io non riuscivo proprio a ricordarmelo.
Mi venne in mente che potevo portare Mr. Cantry davanti a un'altra casa, e salutarlo lì. Ma sembrava così distratto che pensai non si sarebbe ricordato dove abitassi. Mi accompagnò fin sotto il portico, all'asciutto. Ansimava per i pochi gradini, e aveva la voce stentata. E come se non avessimo parlato d'altro, disse: "E quindi, Xavia, mi rendo contro che il mio è un consiglio non richiesto, ma sono fermamente convinto che lei dovrebbe cercare un altro lavoro. In un ambiente più civile."
"Lei può sempre andare a mangiare in un altro posto, Mr. Cantry." "Non è questo il punto! È lei quella che viene degradata."
Avrei tanto voluto dirgli, con una risata volgare: Ma vaffanculo! Degradata chi? Invece gli dissi, stizzita: "Senta, non sono andata al college, Mr. Cantry. È già tanto se ho finito le superiori. E poi gliel'ho detto, a me il Sandy Hook Diner piace."
Era da settimane, forse da mesi, che non facevo un discorso così lungo con un altro essere umano. Mi sentivo eccitata e piena di energia, come se stessi correndo.
"Va bene. Ho torto," guaì Mr. Cantry.
L'avevo deluso. Mi aveva presa per una prima della classe, e adesso stava accorgendosi del suo errore.
Lo ringraziai per il suo interessamento, e gli augurai buonanotte. Fece qualche passo indietro, esitante, come se d'un tratto si fosse reso conto della nostra situazione, del fatto di essere soli sul portico. Mi accorsi che voleva stringermi di nuovo la mano, ma le nascosi entrambe dietro la schiena. E mi disse, incerto: "Magari, un'altra volta, se le fa piacere, potremmo mangiare insieme. Non alla tavola calda." Era un tentativo di battuta, ma la ignorai, e prima di cedere, mi affrettai a ribattere: "Non so. Magari."
Dentro l'atrio odoroso di muffa della vecchia casa, osservai il mio ex prof di matematica che scendeva con cautela i gradini e si allontanava sotto la pioggia. Era evidente che zoppicava leggermente, e si appoggiava alla gamba sinistra. Le spalle ce le aveva curve. Prima aveva chiuso l'ombrello, come se volesse entrare, e adesso, sotto la pioggia, si era dimenticato di aprirlo.
Quella notte, cosa strana, feci un sogno. Una di quelle che chiamavo le mie fantasmagorie masochiste (e che avevo avuto sin dalle elementari). Ero al Sandy Hook Diner e dovevo servire gli amici di Mr. Yardboro, anche se non riconoscevo nessuno. E Mr. Yardboro fischiava per chiamarmi. Io ero nuda, a parte uno straccio sottile che mi stava cadendo. Facevo vedere le tette e il pube peloso e non potevo farci niente. E gli uomini a chiamare: "Cameriera! Qui!" come se fossi un cane. Anche se volevano solo scherzare. Comunque non mi toccava nessuno. Gli portavo i piatti, ma non mi toccavano. Mangiavano pezzi di carne con le mani, e avevano le dita e la bocca sporche di sangue. Mi accorsi che mangiavano seni e genitali femminili. Toglievano la carne rosea dagli involucri pelosi come si fa con le ostriche dalle conchiglie. E ridevano per la faccia che facevo. Mi lanciavano delle monetine, io mi chinavo a raccoglierle e arrossivo, finché sentii una sensazione erotica, qualcosa che premeva come quando si gonfia un palloncino fino a farlo scoppiare, e mi svegliai affannata ed eccitata, col cuore che mi batteva così forte da far male, e il corpo fradicio di sudore freddo sotto la camicia da notte sporca, e ci misi un bel po' prima di riaddormentarmi. Mr. Cantry, lui non lo sognai.
12
Alla fine di novembre le mie ore al Sandy Hook Diner si erano molto ridotte. I miei turni erano imprevedibili, dipendendo (pensai) dalla disponibilità delle altre cameriere. Un giorno potevo cominciare alle sette di mattina, il giorno dopo alle quattro e mezza del pomeriggio, l'ora della cena "per chi andava a letto con le galline" (un menu speciale per la terza età a sette dollari e novantanove). Altri giorni, non lavoravo proprio. Dormivo.
Quando facevo il turno serale, Mr. Cantry, chissà come, sembrava saperlo sempre. E centellinava il caffè fino alle dieci di sera - l'ora di chiusura -, nella speranza di "scortarmi" fino a casa.
Io gli dicevo educatamente grazie, ma avevo un altro impegno.
E glielo sibilavo inviperita, non volendo che gli altri lo sentissero.
Avevo sempre il terrore di essere licenziata, e così cercavo di stordirmi a furia di energia, buonumore e sorrisi. E ce l'avevo stampato in faccia talmente bene, il mio sorriso, che impiegava un po' di tempo a scomparire, finito il turno; a volte mi svegliavo nel mezzo della notte per scoprire che mi era ritornato. Cameriera! Cameriera! Sentivo voci che mi richiedevano impazienti, ma quando mi giravo, ero sola.
Comunque Mr. Cantry si faceva vedere spesso. Sempre nel suo séparé, che era nell'area che dovevo servire io. Vestito di tweed marrone, e camicia bianca inamidata. I riflessi metallici dei capelli tagliati a spazzola. Le spalle e il testone che fremevano come se dovesse sempre aggiustare l'allineamento del collo. Dalla sera che mi aveva accompagnato a casa, non avevamo più parlato; ma quando mi avvicinavo, sorrideva sempre, timido e ansioso. Non lo incoraggiavo in nessun modo. E temevo che qualcuno alla tavola calda sospettasse che "Bello di mamma" o il "Signor Checca" e io ci conoscessimo, per quanto superficialmente. Quando Mr. Cantry mi salutava: "Salve, Xavia! Come va stamattina?" io sorridevo come un robot e chiedevo: "Che cosa le posso portare, signore?" Se Mr. Cantry si azzardava a lasciarmi una mancia troppo grossa (per esempio una banconota da cinque dollari per un piatto di frutti di mare da nove dollari e novantanove!), lo chiamavo indietro: "Signore, ha dimenticato il resto." E lui, arrossendo pentito, riprendeva i soldi mormorando una scusa.
In questi momenti mi sentivo trionfare di vendetta. E sentivo le guance arrossate, come quando, ai tempi della scuola, mi facevo valere - o facevo proprio la prepotente - durante turbolente partite di pallacanestro o di pallavolo. Attività in cui ero una specialista, dato che ero molto più forte delle altre.
13
Una sera, all'ora di chiusura, al Sandy Hook Diner non c'era nessuno, a parte Mr. Yardboro e me.
"Ti va un giro?" disse Mr. Yardboro, ed eccoci nella sua Lincoln Continental un po' arrugginita ma ancora seducente, lungo la strada costiera. Oltre il faro e il parco. Una luna simile a un osso levigato, che si rifletteva sulle acque scure e increspate. Dentro la macchina si stava al calduccio e mi sembrava di sognare. La mia testa sulla spalla di Mr. Yardboro, la fronte contro la sua gola. Non ricordo bene di cosa parlavamo, forse non parlammo proprio, non ce n'era bisogno. Il suo odore inconfondibile, il suo alito da fumatore, il suo corpo, le sue ascelle, l'olio che si spalmava sulla sua pelle ruvida, mi facevano girare la testa e non capivo più niente. Dove stiamo andando? Che cosa mi vuoi fare? Anche se, a guardare più da vicino la ragazza con la testa sulla spalla di Mr. Yardboro, mi accorsi che aveva i capelli di un biondo abbagliante. E aveva una faccia a forma di cuore, da ragazza carina, che io non avevo mai visto. E anche la luna piena simile a una perla si dissolse in una nuvola di fumo.
Ma capitò un'altra occasione in cui all'ora di chiusura non c'era nessuno, a parte Mr. Yardboro e me. Pulii i séparé per l'ultima volta nella giornata, e passai al bancone. Spensi le luci. E davanti alla cucina, con le mani sui fianchi, ecco Mr. Yardboro guardarmi con quel suo sorriso beffardo, che poteva essere amichevole come maligno. E che mi diceva: "Vieni in cucina un momento, tesoro. Ho delle istruzioni speciali da darti."
14
Il giorno del Ringraziamento presi un pullman e andai a casa. Non ci volevo andare, ma mia madre mi aveva supplicato con molta insistenza. Sapevo che stavo facendo un errore, ma ormai ero nella mia vecchia casa, mille ricordi che mi venivano in mente e tutti deprimenti, l'odore del tacchino arrosto che mi faceva vomitare, l'odore del grasso, l'odore della lacca di mia madre. Due minuti dopo essere entrata capii che non ce l'avrei fatta. In ogni caso il pomeriggio, mentre eravamo in cucina, dissi: "Scusa, mamma, torno subito," e andai a prendere il vecchio album con le foto, le mani fradice di sudore. "Ti posso chiedere una cosa, mamma?" dissi, e lei, sospettosa, dato che anni di convivenza l'avevano resa diffidente nei miei confronti: "Che cosa?" E io: "Prometti di dirmi la verità, mamma?" E lei, scocciata: "Come faccio finché non so qual è la domanda?" E io: "D'accordo. Ho avuto una sorella che è nata prima di me, è stata chiamata come me ed è morta? Voglio sapere solo questo." E mia madre, fissandomi come se le avessi gridato delle oscenità: "Che cosa, Alice?" Ripetei la domanda, che per me era perfettamente logica, e mia madre disse: "Non hai mai avuto nessuna sorella, e tanto meno una che sia morta! Da dove ti vengono certe idee?" E io: "Da qui. Da queste foto." E aprii l'album per mostrarle le foto di me da neonata e da bambina, dicendo a voce bassa, rabbiosa: "Non cercare di dirmi che questa sono io, che non è vero!" E mia madre, alzando la voce: "Ma certo che sei tu! E chi altra? Sei pazza?" E io: "Mi posso fidare di te, mamma?" E lei: "Cos'è, un altro dei tuoi scherzi? Certo che sei tu!" E io, asciugandomi le lacrime: "Non è vero! Maledetta bugiarda! Questa è qualcun'altra, questa non sono io! Questa è una ragazzina carina mentre io sono brutta e questa non sono io!" E mia madre perse il lume della ragione, come spesso le succedeva quando litigavamo, e cominciò a gridarmi a prendermi a schiaffi a singhiozzare: "Cattiva! Cattiva! Perché dici queste cose? Mi vuoi spezzare il cuore! Sì che sei brutta! Vattene! Non ti vogliamo qui! Il tuo posto non è tra la gente normale!"
E così me ne andai. Presi il primo pullman per Sandy Hook e quando quella sera andai a letto presto, sperando di dormire almeno dodici ore di fila, sembrò che non me ne fossi mai andata.
15
La sera della domenica successiva Mr. Cantry si azzardò a venire a casa mia. E a suonare il mio campanello, come se lo stessi aspettando! Era la prima volta che squillava il campanello del 3F da quando stavo in quello squallido posto, ed era così assordante che sembrava ci fossero delle vespe impazzite. Mi sarebbe piaciuto non sapere chi era, ma lo sapevo.
Senza fretta scesi le scale con la mia felpa POTERE ALLA POESIA sporca e un paio di jeans. Ed eccolo, il mio ex prof di matematica, con la sua facciona color lardo, che mi guardava socchiudendo gli occhi. Aveva il trench scampanato e si stava rigirando nervosamente tra le mani il berretto con la visiera. "Buonasera, Xavia! Spero di non averla disturbata! Le va di venire con me a cena? Non al Sandy Hook Diner." Rimase in attesa della mia risposta, ma non sorrisi. Dissi solo che avevo mangiato, grazie tante. "Che ne direbbe allora di una passeggiata? Di bere qualcosa? È un'ora ragionevole? Ho visto che non era di servizio al solito posto, e così mi sono preso la libertà di venire qui. È arrabbiata?"
Volevo dire: Grazie, ma ho da fare. Ma mi sentii dire: "Sì, una passeggiata andrebbe bene. Perché dovrei essere arrabbiata?"
Le ultime due volte che Mr. Cantry era venuto al Sandy Hook Diner, ero stata fredda. Non mi piaceva che se ne stesse rintanato nel suo angolo a guardarmi. A sorridere corrucciato come se a volte non mi vedesse proprio, Dio sa che cosa vedeva. Il giorno prima alcuni clienti mi avevano voluto fare uno dei soliti scherzi, passandosi tra loro una copia di Hustler, in modo da farmi intravedere uno dei primi piani di sessi femminili da manuale di anatomia. Il mio ruolo consisteva nel far finta di non avere visto, arrossendo e abbassando gli occhi come una ragazzina. Io, con il culone, e i seni che sballonzolavano dentro la maglietta e il golf sbottonato. È tutto okay. Sono una che sta agli scherzi. Senza fare troppe scene, che gli uomini non sopportano le donne che fanno scene, come quelle che piangono, li fanno sentire in colpa, gli ricordano le loro madri. Più come se chiedessi la loro protezione. Ed era tutto okay, se non che c'era anche Mr. Cantry. Apparve alle mie spalle, con la bocca distorta dal disgusto e il suo vecchio tono professorale: "Mi scusino! Un momento solo, per favore!" Gli altri lo guardarono esterrefatti, non sapendo che cosa diavolo stesse succedendo, ma io sapevo, credevo di sapere, e fui pronta a girarmi, a prenderlo per la manica e a riportarlo al suo posto, bisbigliando: "Mi lasci in pace, Dio la maledica!" E lui, sempre sotto voce: "Ma la stanno molestando, quei mascalzoni!" E io: "E come fa a saperlo?" Aveva gli occhi a raggi X e poteva vedere quello che succedeva dietro il séparé? Comunque avevo evitato il peggio, e tornai dagli altri clienti che stavano sghignazzando, facendo più o meno finta di non avere capito niente, la solita cameriera oca che cerca di compiacere i suoi clienti: Ehi, ragazzi, ma voi non ce l'avete un cuore? Tant'è che alla fine funzionò, e mi lasciarono mance decenti in monetine sparse sul tavolo appiccicoso. Ma ero furibonda con Mr. Cantry e gli avrei chiesto per favore di non farsi più vedere al Sandy Hook Diner se, a essere onesti, ci fossimo potuti permettere il lusso di perdere un cliente.
"Spero non se la sia presa per ieri. Non sembrava contenta." "Quelli lì sono amici del padrone. Devo essere gentile con loro."
"Sono volgari, ignoranti..."
"Sono amici del padrone. E comunque a me piacciono." "Le piacciono? Degli individui così?"
Alzai le spalle. Risi. "Si sa come sono fatti i ragazzi." "Nella mia classe non avrei..."
"Lei non ha più una classe."
Eravamo su di giri. Una specie di litigio tra innamorati. Camminavo davanti a Mr. Cantry, in fretta. Mi sembrava di sentire le fitte nelle sue gambe, che dovevano reggere il peso del suo corpo sgraziato.
Andammo da Woody's, un caffè che avevo sempre visto dal di fuori, ammirandone le luci intermittenti, in anticipo sul Natale. Attraverso la vetrina ovale avevo spesso visto coppie romantiche a lume di candela, mano nella mano. Nel momento in cui Mr. Cantry e io ci sedemmo a un tavolino, con le ginocchia che cozzavano goffamente, mi sembrò di essere in un altro posto. Le candele erano finte, e in sottofondo imperversava una musica rock da teenager, sempre la stessa. Mr. Cantry sussultò per il frastuono, ma aveva deciso di essere di compagnia. Ordinai un vodka martini. Era la prima volta che lo bevevo, e sapevo che di tutti gli alcolici in circolazione la vodka era il più potente. Mr. Cantry si limitò a un'acqua tonica con una fettina di limone. Il nostro cameriere era giovane e annoiato, e fissava me e Mr. Cantry con un'espressione ostentatamente neutrale. "Tutti vogliamo realizzarci. Emergere in qualche modo," disse Mr. Cantry alzando la voce per sovrastare il frastuono. "Concorda?"
Non lo stavo seguendo. La mia coda di cavallo si stava disfando e volevo legarmela con un elastico, che però era vecchio e si ruppe. Rinunciai. Arrivò il mio vodka martini e ne bevvi un bel sorso mentre Mr. Cantry alzava il suo bicchiere per un tentativo di brindisi.
Con tutta la mia cattiveria ribattei: "Ma perché uno dovrebbe realizzarsi? Francamente, a chi cazzo gliene frega?"
"Xavia, non può dirmi questo." Più che scioccato, Mr. Cantry sembrava perplesso, come succedeva a mia madre prima di rendersi conto della bruttezza incommensurabile che aveva generato. "Non penso sia una risposta onesta. La contesto."
"La maggior parte della gente non ha niente da realizzare. La maggior parte vive senza andare da nessuna parte. Perché non accettarlo?" dissi.
"Ma è nella natura umana il desiderio di migliorarsi. Proiettare all'esterno l'essere interiore. Non lasciarsi prendere dalla disperazione. Non arrendersi." Mentre parlava arricciava il labbro in modo schifiltoso.
"Ma lei non si è arreso, Mr. Cantry?"
Era una provocazione crudele. Mi sorpresi di avere mirato con tanta precisione. Ma devo ammettere che Mr. Cantry incassò bene. Alzò le spalle, respirò profondamente, rimase a rimuginare. E poi disse: "Dall'esterno, forse. Ma all'interno, no."
"Che cos'è l"interno'? L'anima? La pancia?"
"Xavia, mi sconvolge. Non è da lei."
"Se si guarda allo specchio, Mr. Cantry, pensa davvero che quello che vede non è lei? Chi è, allora?"
"Non mi fido degli specchi," singhiozzò Mr. Cantry. Finì la sua acqua tonica, ghiaccio compreso, e si mise a succhiare la fettina di limone. "E non li ho mai considerati come una misura dell'anima."
Scoppiai a ridere. Mi sentivo bene. Il vodka martini non era la mazzata che credevo, ed era delizioso. Nelle vene mi guizzavano lampi azzurri, veloci come la fiamma di un fornello a gas. "Io lo so che sono brutta. E non ho bisogno di prendermi in giro."
Mr. Cantry mi fissò, increspando le labbra. "Xavia, cosa dice mai? Lei non è brutta."
"No? Io non sarei brutta?" Risi, dandomi una pacca sulle mie guance carnose. Le fiamme mi scorrevano dappertutto, e mi scottava la pelle.
Mr. Cantry scelse le parole con cura. "Lei è una giovane donna di tipo esotico. Forse non è attraente in modo tradizionale, come lo sono, banalmente, le classiche ragazze americane. I suoi occhi, la forma del suo volto, sono... interessanti! Ma non brutti."
Ero stufa di queste stronzate. Chiamai il cameriere annoiato. Doveva avere la mia età, con una faccetta rotonda, ciglia lunghe e una boccuccia da cupido. Un bel ragazzino, e lo sapeva. "Cameriere!" dissi, e quando ottenni un cenno di disponibilità, sia pure guardinga, gli chiesi: "Mi dica, sono brutta?"
"Prego?"
Mr. Cantry mi fece segno di tacere, come un genitore scandalizzato. "Xavia! Per favore!"
Il giovanotto imbarazzato mi fissava, arrossendo.
"Guardi," gli dissi civettuola, "che ne va della sua mancia. Se non risponde sinceramente."
Il cameriere cercò di sorridere, sperando di buttarla sullo scherzo.
"Sono brutta? Dica la verità."
Ma il cameriere mormorò delle scuse, che lo chiamavano in cucina, e scappò.
Mr. Cantry mi rimproverò. "Non dovrebbe imbarazzare il prossimo, Xavia, se non sta bene con se stessa."
Protestai. "Ma io sto benissimo con me stessa! Credo solo che si debba dire la verità."
Qualche minuto dopo il cameriere tornò, probabilmente dopo avere preparato una risposta spiritosa, ma ormai Mr. Cantry e io stavamo discutendo di altre cose. La vodka mi aveva dato alla testa ed ero di buon umore. "Un altro," dissi schioccando le dita. "Di entrambi."
Mr. Cantry estrasse un grosso fazzoletto e si soffiò sonoramente e meticolosamente il naso. Se stavo cominciando a sentire qualcosa per quest'uomo, i suoi barriti bastarono a smontarmi. Mi chinai verso di lui e gli chiesi, solennemente: "Mr. Cantry, lei pensa spesso alla morte?"
Era come avvicinare un fiammifero acceso a una tanica di benzina.
Per un momento tormentoso, Mr. Cantry non fu in grado di parlare. I suoi occhi tremarono come se stessero per sciogliersi. Mi accorsi che la sua pelle sembrava rattoppata come la mia, per quanto me ne ricordavo; come se fosse stato fatto a pezzetti e poi rabberciato alla bell'e meglio. "La morte, certo. Ci penso in continuazione." E attaccò a parlare dei suoi genitori, morti entrambi, e di una sorella cui era molto legato e che era morta di leucemia a undici anni, e di un cocker spaniel che si era portato a Sandy Hook per fargli compagnia e che era morto in agosto, ad appena sette anni di età. Dal giorno che era morto il cane, confessò, ogni mattina si chiedeva se avrebbe trovato la forza di alzarsi dal letto; dormiva ore e ore fino a stordirsi, e a volte credeva di andare molto vicino alla morte. "Mio padre è morto così, nel sonno, a cinquantadue anni. Gli si è fermato il cuore, come un orologio." Vidi che aveva gli occhi umidi di lacrime; e mi sembrarono belli e luminosi quegli occhi; così come le sue labbra umide e pendule, e addirittura le sue narici luccicanti; il mio cuore accelerò i battiti, cercando di resistere all'emozione che stava provando e che mi pompava nelle vene, anche se rifiutavo di riconoscerla. Ma una voce maligna insinuava: Ecco perché ti sta dando la caccia. Perché gli è morto il cane.
Ero affascinata da questo uomo brutto che sembrava non rendersene conto. Quando dei rivoli di lacrime gli scivolarono sulle guance, e si affrettò ad asciugarli, imbarazzato, con un tovagliolino, mi stravaccai sulla sedia, osservando il locale affollato, con aria annoiata. Il naso di Mr. Cantry colava come una fontana, e dovette soffiarlo di nuovo, questa volta col mio tovagliolino. Ora che ebbe finito, il sentimentalismo mi era passato.
Scolai il mio vodka martini e mi alzai. Mr. Cantry annaspò per mettersi al mio fianco, come se si fosse scosso da un sogno. La fronte bozzoluta gli luccicava di sudore. Mentre mi facevo largo verso l'uscita, mi stava appiccicato e mi disse: "Xavia, penso che lo debba sapere... Provo un'attrazione nei suoi riguardi. Mi rendo conto della differenza di età, e di sensibilità. Ma spero di non offenderla."
Al guardaroba c'era una gran confusione, e quasi stavo per sfuggire al mio accompagnatore.
Ma sul marciapiede, con l'aria che gelava, Mr. Cantry ripeté supplichevole: "Xavia, spero di non offenderla."
Lo ignorai. Mi ero infilata la giacca a vento e il mio berretto a maglia. La prima era unisex e voluminosa, mentre il secondo mi faceva sembrare la testa piccola come una nocciolina. Mi vidi di traverso in uno specchio nella vetrina mezzo nascosto dalle piante, e mi venne da trasalire e al tempo stesso da scoppiare a ridere. Dio, quanto ero brutta! Non esageravo. Una bruttezza tale da essere quasi trionfante, come quando fai canestro dopo avere subito fallo.
Volevo tornare a casa e camminavo in fretta, costringendo Mr. Cantry a corrermi dietro. Respirando sembrava che sfregasse carta vetrata contro una superficie ruvida. Poveraccio. Mi chiesi se le sue gambe bianche e molli fossero coperte di vene varicose. E se i suoi piedi, come i miei, si gonfiassero come due gozzi e richiedessero bagni serali. Eppure Mr. Cantry cercava di riprendere fiato e di riguadagnare una parte della sua dignità dilapidata: "Quanto alla morte, Xavia, penso che sia un argomento su cui è inutile discutere. Poiché, da morti, siamo in uno stato di beata non-esistenza; ossia di non-conoscenza. Il che significa..."
Parlava con passione, agitando entrambe le mani. Avrei potuto provare qualcosa, ma l'effetto delle sue parole fu compromesso dall'improvvisa ansia che lo prese quando una macchina della polizia passò lungo la strada; sembrava quasi che avesse paura di essere visto. Feci una battuta sul fatto che a Sandy Hook non succedeva mai niente, ma Mr. Cantry era troppo agitato per rispondermi. E si calmò solo quando la volante girò a una traversa.
"Il fatto è, Mr. Cantry, che noi moriamo," gli dissi scocciata. "È un verbo attivo. Io muoio, tu muori, noi moriamo. Non è uno stato di beatitudine, è un'azione. Dove c'è terrore e dolore. Come annegare nell'oceano..."
Ma Mr. Cantry aveva la testa altrove. Forse era demoralizzato. Lo mollai sul marciapiede davanti a casa mia, lo ringraziai per il drink, e salii di corsa i gradini prima che potesse accompagnarmi, sbuffando come un mantice. "Xavia... buonanotte," disse esitante alle mie spalle.
16
"Lee, accidenti! Possibile che tu sia tanto sensibile, che il lavoro sporco lo devo fare sempre io?"
Maxine stava telefonando. La faccia più lunga che mai, a significare esasperazione per il cugino. Anche se era proprietario del Sandy Hook Inn, o almeno aveva una ragguardevole ipoteca sulla proprietà, era Maxine quella che, dietro suo ordine, a turno licenziava o allontanava i dipendenti.
Naturalmente non avrei dovuto sentire niente. Maxine non sapeva che mi ero avvicinata di nascosto.
Con mio orrore, era stata assunta una nuova cameriera. Non l'avevo vista, ma ne avevo sentito parlare: una rossa carina, si diceva. Da novembre gli affari erano calati ulteriormente, per poi stabilizzarsi. Un McDonald's simile a un tempio aveva aperto a un miglio di distanza, e di certo ci avrebbe rubato altri clienti. Non si parlava mai della concorrenza; una semplice allusione bastava a imbestialire Mr. Yardboro.
In qualche modo credevo di piacere a Mr. Yardboro. Peraltro mi controllava come tutte le sue dipendenti. I suoi occhi azzurri a palla mi stavano sempre appiccicati addosso, mentre masticava uno stuzzicadenti. Ehi, tesoro. Ehi, dolcezza, vediamo di darci una mossa. Ma non ciabattare troppo, eh? Cercavo di obbedire a Mr. Yardboro senza aspettare le sue istruzioni. Cercavo di anticipare i suoi minimi desideri. Ero molto gentile e sorridevo sempre quando servivo i suoi amici casinisti. Non gli sparlavo mai alle spalle, come facevano le altre. Non facevo mai i lavori a metà, non mi nascondevo mai nei bagni a piangere e a bestemmiare. La mia unica debolezza, che cercavo di tenere segreta, era di mangiare gli avanzi dai piatti. Come la maggior parte di chi lavora con le cose da mangiare, mi era venuta presto una forma di ripugnanza verso il cibo; eppure continuavo a mangiare, e una volta che iniziavo, qualunque roba fosse, per quanto schifosa, mi veniva l'acquolina in bocca, ed era impossibile fermarmi. Quando avevo ascoltato per caso la telefonata di Maxine, era una giornata particolarmente difficile: una giornata di mance striminzite, di clienti rognosi e di profondo disgusto esistenziale. E quando portai in cucina un carrello di piatti sporchi, approfittai del fatto che non ci fosse nessuno per divorare un bel po' di cipolle fritte, di patatine zuppe di ketchup e ciò che rimaneva di un cheeseburger che nel mezzo era quasi crudo e sanguinolento. Non capivo più niente, e attaccai un altro piatto, ingurgitando gli avanzi di un filetto di persico, un pesce dal sapore così schifoso che neanche il ketchup lo mascherava: e in quel momento terribile Mr. Yardboro sbatté la porta girevole fischiettando. Dovette vedermi, gli occhi colpevoli e terrorizzati, le dita e la bocca unte, ma in un gesto di tatto inaspettato - a meno che non fosse semplice imbarazzo, poiché c'erano cose che imbarazzavano anche Lee Yardboro - continuò tranquillo fino al suo ufficio, facendo finta di non avere visto.
Anche se prima di chiudersi dentro mi squadrò con i suoi occhi azzurri e mi disse, con una smorfia di disprezzo: "Mangia tutti gli avanzi che vuoi, dolcezza. Risparmieremo in sacchetti della spazzatura."
17
Mr. Cantry, a quanto pareva, aveva smesso di mangiare al Sandy Hook Diner. Lo venni a sapere per caso, da una cameriera. Stava raccontando che "il tipo grosso e strano, quello coi capelli a spazzola" era venuto un paio di settimane prima, quando non ero di turno, e che Mr. Yardboro gli aveva detto per favore di non farsi più vedere, perché altri clienti - vale a dire gli amici suoi, che si erano legati al dito che "Bello di mamma" non apprezzasse Hustler - si erano lamentati nei suoi confronti. "E che cosa ha risposto?" chiesi. Era buffo che avessi fatto un sorriso complice, come se stessi stabilendo un contatto con questa collega acida che non conoscevo e che non mi stava simpatica più di quanto io non fossi simpatica a lei, per il solo fatto di parlare di un individuo incapace di difendersi. Ci stavamo comportando come amiche! "Ha detto qualcosa tipo: `La ringrazio, è proprio quello che intendevo fare anch'io.' E se ne è andato. Mi ricordava uno strano professore che avevo, che parlava sempre al soffitto." Risi cercando di immaginare la scena. Grazie a Dio non aveva detto niente di "Xavia". Era un sollievo che nessuno potesse intuire il nostro rapporto.
Ci pensavo mai a Mr. Cantry, il mio vecchio prof di matematica? Neanche una volta. Cancellato dalla memoria come una macchia da un tavolo di fòrmica.
Tranne il pomeriggio buio e ventoso della vigilia di Natale. Stavamo per chiudere, prima del solito (momento di solitudine: Mr. Yardboro era andato con la famiglia a passare una settimana a Orlando, in Florida), quando entrò Mr. Cantry, per chiedermi se mi poteva vedere quella sera. Indossava un goffo cappotto di lana nera e un berretto floscio calcato sulla fronte. I suoi occhi senza colore mi fissavano con bramosia e rimprovero in egual misura, come se fossi stata io quella che l'aveva bandito dal Sandy Hook Diner. Volevo dire: Che cosa? Sta scherzando? La vigilia di Natale con lei? ma mi sentii rispondere, con un sospiro: "Va bene. Però non posso fare tardi."
La tavola calda aveva decorazioni essenziali ma sgargianti. Ci avevamo pensato Maxine e io, e ne eravamo quasi fiere. Sopra i séparé erano appesi agrifoglio, vischio di plastica e fili d'argento; in una vetrina c'era un alberello di plastica alto un metro, con le luci intermittenti; e accanto alla cassa un babbo Natale comicamente panciuto, cui si accendeva il naso (tra cameriere si scherzava sulla sua somiglianza con Mr. Yardboro, date le guance paonazze e gli occhi azzurri a palla). Chiesi ironicamente a Mr. Cantry che cosa pensasse delle decorazioni, e lo vidi girarsi lentamente, come per farne l'inventario. In quel momento eravamo soli e, vedendo la tavola calda con gli occhi di Mr. Cantry, mi vennero i brividi. Il Sandy Hook Diner non era altro che la somma delle sue superfici. Come uno di quei paesaggi urbani iperrealisti che vanno di moda, tutti neon, acciaio cromato, fòrmica, plastica e vetro, che stai a guardarli e ti chiedi come faccia uno a essere tanto coglione da mettersi a dipingerli.
Mr. Cantry cercò di essere gentile. "Be', cattura un certo spirito natalizio."
Malgrado la sua faticosa andatura, Mr. Cantry insistette per passare a prendermi e portarmi a casa sua. Con mia sorpresa, abitava in una strada parallela alla mia, a pochi isolati di distanza; un condominio di cinque piani. Il suo appartamento, al secondo piano, aveva un soffitto alto e un inutile caminetto nel soggiorno zeppo di mobili. Il tappeto polveroso era pieno di peli di cane color rame, che sembravano parte della trama originale; altri peli erano sul sofà vittoriano di crine su cui Mr. Cantry mi invitò a sedere. Le finestre erano oscurate quasi per intero da pesanti drappi di velluto. Aleggiava un odore insistente, come di medicinali. La solita voce mi bisbigliò: La scena della seduzione! Mentre Mr. Cantry si arrabattava in cucina - doveva scaldare gli antipasti, aveva detto - esaminai un tavolo carico di foto incorniciate e impolverate di parenti dal cranio oblungo e dall'aria austera, quasi tutti di mezza età o anziani, con vestiti e acconciature fuori moda. Nella fila anteriore campeggiavano le foto di un cocker spaniel col pelo color caramello e gli occhi acquosi. Mr. Cantry entrò nel salone fischiettando e reggendo un vassoio d'argento con una bottiglia di champagne, due coppe di cristallo, e un piatto di salsicce ancora fumanti e pezzetti di formaggio. "Ah, Xavia," mi disse. "Quello è il mio altare dei morti. Ma non deve rattristarci, la vigilia di Natale."
L'odore degli antipasti mi fece venire subito fame, anche se ero un po' nauseata dall'odore di medicinali e dal tanfo di polvere, sporco e solitudine. Mr. Cantry depose cerimoniosamente il vassoio davanti a me, come se ci fosse una tavolata di gente. Aveva gli occhi appannati dallo sforzo, e gli tremavano le dita. Dato che iniziai a mangiare senza dire nulla, aggiunse, in tono assorto: "Quando, come me, ci si ritrova a essere l'ultimo della propria stirpe, si guarda indietro, Xavia, e non avanti. Con dei bambini, certo, tutte le attenzioni e le speranze sarebbero rivolte al futuro."
"Be', io non sono dell'umore di avere un bambino. Anche se è la vigilia di Natale. Non faccia affidamento su di me, Mr. Cantry." "Xavia, dici di quelle cose!"
Mr. Cantry arrossì, ma era compiaciuto, come se gli avessi fatto il solletico. Ero diventata la saputella sfacciata che affascina inspiegabilmente alcuni professori. "Non stavo parlando di noi, naturalmente. Parlavo così, in generale." Si sedette sul sofà accanto a me, facendolo cigolare. Mi stupii che si mettesse così vicino. Tra le mura del suo appartamento, Mr. Cantry sembrava avere guadagnato punti in sicurezza maschile. Con qualche affanno stappò lo champagne - francese, con un'etichetta nera e una pretenziosa scritta dorata - e riempì le coppe fino all'orlo. E rise quando un po' di liquido traboccò sulle mie dita e i pantaloni di velluto. "Alle vacanze, Xavia! E al nuovo anno, che spero porti a entrambi tanta felicità." C'era qualcosa di sballato e di inquietante nel modo in cui sorrise, alzò la sua coppa contro la mia, e bevve. Mi venne in mente di chiedergli una cosa. "È sicuro che può bere, Mr. Cantry?" E lui, risentito: "La vigilia di Natale non è un giorno come gli altri, penso."
Se sei un alcolizzato nessun giorno può essere speciale, pensai. A dire il vero, qualche anno prima un problema con l'alcol l'avevo avuto io. Ma me l'ero tenuto per me.
Nel giro di pochi minuti, Mr. Cantry e io avevamo bevuto due coppe di champagne a testa. E mangiato gran parte delle salsiccette unte e del formaggio. Mr. Cantry mi stava intrattenendo sulle sue fonti di sostentamento - una pensione di invalidità dello Stato del New Jersey e un piccolo patrimonio di famiglia. "Non mi sono ancora sposato," disse, soffocando un ruttino, "per il buon motivo che non mi sono mai ancora innamorato." In testa sentii un brusio come se scoppiassero tante bollicine; o forse erano cellule cerebrali. Sorrisi, vedendo una mano maschile grassoccia che brancicava verso la mia, una creatura glabra che cercava un'anima gemella. Vai con la seduzione! Vai con lo stupro! Mi misi a ridere, anche se cominciavo a essere terrorizzata. "Sei così misteriosa, Xavia!" disse Mr. Cantry. "Così esotica. Al contrario di tutte le altre giovani cameriere che ho conosciuto a Sandy Hook." Non avevo voglia di sapere che c'erano state altre cameriere nella vita di Mr. Cantry. "Perché sono così speciale?" gli chiesi ironicamente, osservando le sue dita che serravano le mie, le nostre mani sulle mie ginocchia. Le sue nocche erano grosse e bianche, e le unghie ben curate, meglio delle mie. "Perché sei stata una mia studentessa. C'è sempre qualcosa di sacro in un rapporto del genere." Risi mascherando la delusione. Non ero neanche sicura che fosse stato il mio professore. Mi liberai dalla sua presa e rovesciai sul sofà lo champagne che restava nella mia coppa. Mr. Cantry armeggiò con i tovagliolini, mormorando qualcosa di incomprensibile. "Penso che sia meglio che vada, Mr. Cantry. Non mi sento bene."
"Puoi sdraiarti! Qui, o nell'altra stanza," disse Mr. Cantry, respirando affannato. "Questa doveva essere un'occasione felice." Mi alzai, e la stanza mi girò attorno. Mr. Cantry fece per reggermi ma barcollava anche lui, e rovinammo maldestri sul pavimento, avvinghiati uno all'altra. Io stavo ridendo come una matta, e per poco non mi mancava il fiato. Adesso ti strangola. Hai visto che occhi? E cominciai a fuggire, strisciando carponi. Dovevo avere staccato il filo di una lampada, e la stanza era in parte al buio. Mr. Cantry era in ginocchio di fianco a me, ansimando e accarezzandomi goffamente i capelli. "Ti prego, perdonami! Non volevo turbarti!" Mi trovai davanti qualcosa - una sedia. Cercai di liberarmi dalla sua mano, che mi toccava i capelli e il collo in un modo che poteva essere interpretato come giocoso, così come Mr. Yardboro e i suoi amici si davano virilmente dei pugni sugli avambracci. Ma Mr. Cantry era forte, e pesante. Adesso mi stava accarezzando la schiena e mi stava baciando la nuca, con la bocca umida e bramosa come quella di un cane. "Io ti potrei amare. Tu hai bisogno di una guida forte e devota. In quel posto non fai che degradarti. E a furia di essere puniti, uno diventa colpevole. È una cosa che conosco bene, Xavia..." Presa dal panico, gli diedi uno spintone. Mr. Cantry perse l'equilibrio, si abbatté contro un tavolo, e ci fu una cascata di cornici con conseguente rottura di vetri.
Strisciai disperatamente, mi divincolai, saltai in piedi e afferrai la mia giacca a vento. Mr. Cantry gridò alle mie spalle, come un animale ferito: "Che cosa hai fatto! Come hai potuto! Ti prego! Torna qui!" Corsi fuori dall'appartamento e scesi le scale, e quando tornai a casa e sprangai la porta, i miei occhi furiosi e pieni di lacrime appresero che erano solo le otto e dieci della sera della vigilia di Natale - mi era sembrato che fosse molto più tardi.
Pensai che forse a Mr. Cantry poteva venire in mente di seguirmi per farmi le sue scuse. Ma non lo fece. Il telefono non suonò. Non aspettavo telefonate di auguri da parte di mia madre, così come non avevo intenzione di chiamarla io; e così fu.
18
Il giorno di Natale, il Sandy Hook Diner rimaneva chiuso. Il giorno dopo, un venerdì, quando andai a lavorare il pomeriggio tardi, venni a sapere che Mr. Cantry era stato arrestato a Natale perché cercava di spiare nell'appartamento di una donna. Maxine, tutta contenta, mi mostrò una copia del quotidiano locale: nel registro degli arresti c'era un trafiletto e una foto di Virgil Cantry in una classica posa di vergogna: intontito dai flash, con una mano alzata senza troppa convinzione per nascondersi la faccia. "È lui, vero? Il tipo che veniva sempre qui." Presi il giornale e lessi, sbalordita, che la vigilia di Natale una donna aveva denunciato un individuo di sesso maschile che si aggirava furtivamente nel cortile sul retro di casa sua, e spiava nelle sue finestre: si era messa a gridare, era scappata e aveva chiamato la polizia, che non aveva trovato nessuno. Il giorno dopo, sulla base della descrizione della donna e di altre informazioni, la polizia aveva arrestato Mr. Virgil Cantry, trentanove anni, che si era dichiarato innocente. "Non ci credo," mi sentii dire. "Mr. Cantry non farebbe una cosa del genere."
Maxine e le altre mi guardarono e si misero a ridere. "No, sul serio. Non la farebbe mai," dissi.
Andai ad appendere la mia giacca a vento, stordita come se avessi preso una botta in testa. Alle mie spalle stavano ancora sghignazzando.
Durante la pausa, corsi alla stazione di polizia, che era a pochi isolati. Chiesi di vedere Virgil Cantry e mi dissero che non si trovava lì; non era stato arrestato, come diceva il giornale, ma solo interrogato. Non stavo più nella pelle e chiesi di parlare con uno degli agenti che si era occupato del caso, dicendo che Mr. Cantry e io avevamo passato assieme la vigilia, e non poteva essere stato lui. "E poi non può neanche correre. Ha un problema alle gambe."
La donna che aveva fatto la denuncia aveva chiamato la polizia alle nove meno dieci di sera. Era assurdo pensare che Virgil Cantry fosse uscito dopo che me n'ero andata, per comportarsi in modo così disperato. Insistetti che eravamo stati assieme fino a dopo le nove. Feci una deposizione ufficiale, e la firmai. Tremavo dalla rabbia. "Questa persona è innocente," ripetevo. "Non avete il diritto di tormentarlo."
In seguito (mi ero ripromessa di seguire gli sviluppi) venni a sapere che Mr. Cantry era stato uno dei tanti sospettati portati al comando per essere interrogati. Anche se non rispondeva alla descrizione della donna - che parlava di un uomo prestante, con i capelli scuri, la barba incolta e un giubbotto di pelle, - la polizia aveva voluto interrogarlo ugualmente, dato che era uno dei pochi abitanti del luogo con dei precedenti (per ubriachezza molesta, disturbo della quiete pubblica e resistenza all'arresto, nove anni prima: accuse di cui si era dichiarato colpevole in cambio della libertà vigilata e di un'ammenda). Quattro giorni dopo, il vero guardone venne arrestato, e confessò.
Quando Mr. Yardboro tornò dalla Florida, abbronzato, pieno di vita e con qualche chilo in meno, seppe dell"`arresto" del suo ex cliente, del mio interessamento e della mia testimonianza. Ero diventata lo zimbello del Sandy Hook Diner, e la mia storia continuava a essere raccontata come una barzelletta. Anche Mr. Yardboro pensò che fosse molto buffa, e si fece una grassa risata; era un uomo a cui piaceva ridere. "Ma allora, tesoro mio, sei la ragazza di `Bello di mamma'? Da quanto diavolo di tempo andava avanti la cosa?"
Mi sentivo bruciare la faccia. "No. Volevo solo aiutarlo." "E hai passato con lui la vigilia di Natale?"
Mr. Yardboro rideva, rideva, con la sua mano calda e pesante sulla mia spalla.
19
Verso la metà di gennaio trovai nella mia cassetta una busta bianca senza francobollo per "Xavia", con l'indirizzo scritto a macchina.
Cara Xavia,
Grazie! Le sono profondamente grato. Ma mi sento anche così umiliato. Da questo momento so di essere un bersaglio facile in questo posto terribile.
Il Suo amico,
Virgil Cantry
Non rividi mai più Mr. Cantry; immagino se ne fosse andato da Sandy Hook. Ma almeno per un'ora mi aveva amata. Io non l'avevo ricambiato, ed era un peccato. Ma per quell'ora, ero stata amata.
20
Un giorno, alla fine di gennaio, Mr. Yardboro mi chiamò in cucina per istruirmi sulla pulizia del pesce. Una di quelle che aiutavano in cucina se n'era appena andata. Stuzzicadenti in bocca, Mr. Yardboro mi indicò la mannaia, già sporca di sangue diluito, e mi disse di prenderla. Otto pesci interi se ne stavano pancia all'aria sul tagliere. "Comincia dalla testa, tesoro. Decisa, ma attenta. E poi la coda. Non tagliare storto. Non avere paura. Così, brava."
Avevo le dita come di ghiaccio. Ero eccitata e nervosa. Mr. Yardboro sorrideva perché facevo la schizzinosa.
Trota, pesce persico, halibut. I pesci venivano comprati interi dal grossista, perché erano molto più convenienti. Dovevano essere sventrati, puliti, spinati, sciacquati nell'acqua fredda, e poi fritti impanati, oppure messi in forno con un ripieno gommoso che il menu definiva "salsa di funghi e granchio", e che di fatto consisteva in gambi di funghi tritati e una ripugnante roba sintetica giapponese.
I pesci erano freddi e viscidi come serpenti. Le squame riflettevano il neon accecante. Occhi a bottone stranamente tondi che mi fissavano neutri e senza rimprovero. Un giorno toccherà anche a te. Non sentirai niente.
Feci cadere la pesante mannaia con più violenza di quella richiesta. La lama tagliente decapitò una trota e si conficcò nel legno per un centimetro. "Non così forte, tesoro," ghignò Mr. Yardboro. "Sei una ragazza forte, vero?"
"Non me ne rendo conto," dissi allegramente.
La puzza di pesce mi nauseava e sentivo un ronzio nelle orecchie, ma tagliai energicamente teste e code, buttandole in un secchiello. Senza gli occhi tondi che mi fissavano, mi sarei sentita più calma.
"Adesso gli intestini e tutto il resto. Su, infila dentro le dita." "Dentro?"
Mr. Yardboro, che spesso si vantava di essere andato a pescare sull'oceano fin da quando era ragazzo, mi mostrò come si puliva il pesce. Le sue dita erano tozze, ma abili e veloci. Le mie molto meno sicure.
Quando la nostra cuoca puliva il pesce, usava guanti di gomma. Ne ero certa. Ma Mr. Yardboro non prese in considerazione la possibilità.
Ero maldestra. Gli intestini si appiccicavano alle mie dita. Sangue, tessuti. Schegge sotto le unghie. Per riflesso dovevo avere cominciato a toccarmi la testa. Più tardi scoprii un pezzo di budello traslucido tra i miei capelli, e capii perché Mr. Yardboro mi aveva sorriso al suo solito modo. Sulla sua guancia, una fossetta che sembrava una tacca fatta col rasoio.
Poi bisognava togliere le spine. "Fa niente se non ne togli il cento per cento," disse Mr. Yardboro. "Qui siamo mica al Ritz." Togliere la spina dorsale dalla carne non era facile. Ma mi accorsi di quanto fossero belle e delicate le spine. Arcuate e di un bianco traslucido, alcune sottili come capelli. Sotto l'involucro da serpente, c'era un labirinto; un labirinto che una goffa mano umana poteva distruggere tanto facilmente. "Che stai aspettando? Butta via quella roba."
Imbarazzata, gettai le spine nel secchiello. Che emanava una puzza tremenda.
"Okay, tesoro. Adesso ripeti tutto da capo, da sola."
Mr. Yardboro non era molto alto, ma incombeva dietro di me. Spalla contro spalla. Come se fossimo quasi pari. Ma non ci cascavo.
Per tutta la mia vita non sono riuscita a mangiare pesce senza sentire gli odori della cucina del Sandy Hook Diner, e avvertire un'eccitazione nascosta dietro la nausea. Interiora di pesce crudo, pesce fritto, impanato e unto. Era disgustoso, ma continuavo a mangiare.
Nota
1 - Labor Day, nel nord America, il primo martedì di settembre (N.d.T.)
(Tratto dalla raccolta Misfatti, Bompiani editrice, Milano, 2003)
Joyce Carol Oates
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