Una
lingua abitabile
- Dibattito con autori migranti dell'Est-centro Europa -
con gli interventi di Vesna Stanic', Marija Mitrovic', Barbara Serdakowskí, Mihai Mircea Butcovan
a cura di Melita Richter
Noi non usiamo un linguaggio come strumento, noi siamo fatti di linguaggio,
è il mattone della nostra struttura inconscia. Julio Monteiro
Martins
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I partecipanti di questo dibattito sono autori stranieri provenienti dall'area che fino a poco tempo fa usava essere denominata l'Est e centro-Europa e tratta le questioni legate all'esperienza migratoria e all'utilizzo della lingua nella scrittura di chi ha adottato la lingua italiana come idioma delle proprie opere più recenti, oppure come veicolo della trasmissione delle competenze professionali già affermate nell'ambito culturale del paese d'origine.
La vita dell'emigrato è tracciata in due, segnata dalla partenza e dall'arrivo in un paese nuovo, diverso da quello natio.
Ci siamo posti il quesito: che cosa succede alla lingua in questo spostamento? Come si vive la migrazione linguistica?
L'acquisizione della nuova lingua richiede non soltanto lo sforzo di impadronirsi di un vocabolario dignitoso, delle regole grammaticali e sintattiche, ma di dare il significato alle parole, di donare loro quell'aura che le parole possiedono nella lingua madre, perché legate all'esperienza emotiva.
Di questo ci parla nel libro Lost in translation1 Eva Hoffman, scrittrice polacco-americana che indaga sulla propria esperienza migratoria:
"Le parole che imparo adesso non rappresentano le cose in quel modo assoluto caratteristico della mia lingua madre. 'Fiume' in polacco era un suono vitale, rafforzato dall'essenza del 'fiume', dei miei fiumi, di me immersa nelle acque dei fiumi. In inglese invece è freddo, è una parola senz'aura, non ha depositato associazioni dentro di me e non emana quell'alone luminoso della connotazione. Non mi evoca nulla. (...) Le parole inglesi non si agganciano a niente".
Abbiamo cercato di approfondire con i partecipanti al Forum quegli spazi intermedi che si creano necessariamente nello spostamento inteso non soltanto in termini fisici, ma in termini identitari, abbiamo voluto, assieme a loro capire che cosa si perde in ciascun passaggio, che cosa si acquisisce, che cosa rimane inespresso, non detto, impastato nella lingua.
Riappropriarsi di una nuova lingua significa raggiungere quello stato di adesione sociale e culturale che riunisce la parola all'esperienza emotiva, significa andare dalla parola alla sua fonte - al sentimento da cui essa sorge. Come avviene questo processo nella vostra esperienza? Si realizza una volta o si perpetua quotidianamente? Può mai terminare?
Barbara Serdakowski: scrivere è un atto misterioso per me, forse addirittura mistico. La scrittura fa parte di me come la fede nel futuro, l'ansia, l'amore, il pensiero. Già da tempo seguo l'insegnamento di Borges di interferire il meno possibile con la mia opera scritta. Infatti i miei racconti più belli, le mie poesie più riuscite sono fluite quasi a mia insaputa passando attraverso di me utilizzando le lingue che hanno trovato per esprimere al meglio il loro significato. Lo si può vedere nelle mie poesie scritte tra il 1992 e il 2004.
La maggior parte sono in lingue miste con la traduzione francese, italiana, inglese, o spagnola inserita tra i versi, a seconda del lettore, della rivista che accoglieva le mie parole, del mio interlocutore. Si potrebbe quasi analizzare quali sono le parole, i concetti, le sensazioni che mi avvicinano a tale o tale altra lingua. Conoscendo più registri ho scelto di leggere autori nelle loro lingue originali (per quanto potevo) e quindi non solo attingo al mio immaginario tra le parole dei paesi nei quali ho vissuto o dove ho viaggiato ma anche nei mondi degli autori che mi hanno colpito. Per quello che riguarda la narrativa invece ho la necessità di scrivere nella lingua del paese nel quale vivo.
Sono molto legata alla verbalità del mondo che mi circonda. Il distacco fra me e una singola lingua è avvenuto in età precoce, non credo di poter riuscire ad avere legami così esclusivi con una sola lingua.
Anche se in questo momento non mi verrebbe di scrivere spontaneamente in un'altra lingua che in italiano so che se vado a vivere da qualche altra parte questo stato di cose muterebbe velocemente.
Marija Mitrovic': non sono mai riuscita a esprimere in italiano quello che penso nella mia lingua. Rimarrà così finché penso in un'altra lingua. In lingua italiana non dovevo mai esprimere a nessuno i miei sentimenti più intimi; non ho comunicato con dei bambini; non ho nessuno in famiglia con cui dovrei parlare in italiano. In tutte queste condizioni intime uso una lingua molto diversa, che segue un altro ritmo, un'altra logica, altra sintassi.
ll mio italiano appartiene solo al campo professionale, esterno, ufficiale. Lo uso solo fuori casa, nel mio lavoro, ma neanche lì sempre, perché insegno la lingua e letteratura serba e croata e dunque gli studenti devono sentire da me la lingua che insegno. Forse è proprio questo tipo di vita, segnato da netta e costante differenza tra il mondo privato (nella mia lingua) e mondo esterno (in lingua italiana) che ultimamente mi preme e mi stanca troppo. Noto che oggi, a differenza di ieri, mi piace di più restare a casa e leggere qualche libro nella mia lingua che uscire, andare al cinema, sentire qualche conferenza in un'altra lingua, sebbene sono consapevole che proprio l'avvenimento esterno potrebbe - potenzialmente - essere più ricco e pieno di emozioni.
Da sempre sentivo una forte ammirazione per le persone che parlano bene due o più lingue, e ancor più per quelle che sanno scrivere in un'altra lingua. Samuel Beckett riteneva che in francese poteva esprimere le idee più complesse che nella propria lingua irlandese oppure in quella della sua educazione, che era l'inglese.
Verso le persone di questo genere sento più stima che per uno scrittore che scrive solo in lingua propria. Le ritengo privilegiate, in un certo modo più fortunate di noi altri, comuni mortali. Loro sono la conferma inequivocabile che il perfetto bilinguismo si può acquisire.
Abbastanza spesso e con sincera ammirazione penso ai molti predecessori, noti e sconosciuti, uomini di cultura e di politica, dell'arte e della tecnica, ingegneri e medici che studiavano a Vienna, Budapest, Praga, Parigi, Berlino, Padova, Bologna, Istanbul... Per secoli la gente proveniente dai Balcani, non avendo le università a casa, andava a studiare fuori del proprio paese, in un'altra lingua. A loro penso quando soffro perché non sono in grado di esprimermi meglio, quando non riesco a dire tutto quello che sento: da loro prendo l'incoraggiamento ad andare avanti, a non stancarmi e non spaventarmi davanti agli ostacoli che sono naturali quando uno cambia il paese e cambia la lingua.
Nei momenti difficili penso a loro che secoli fa avevano istituito la regola: se vuoi essere presente nella società in maniera che soddisfi non solo le tue esigenze private, ma anche quelle più larghe, comuni, sociali, devi saper esprimerti almeno in una lingua diversa dalla tua.
L'ammirare, però, non aiuta e non mi avvicina "a loro", beati, che sanno perfettamente esprimersi e scrivere bene in più di una lingua.
Vesna Stanic': io non so più niente! Non so quanto l'italiano, la mia lingua d'adozione, può sostituire la mia lingua madre, quanto posso illudermi di essermi appropriata della lingua mia-non mia. Talvolta sento che la parola è quella giusta e piena di significato come se fosse nata con me. Vedo, sento, percepisco la sua nascita "lontana" dentro di me. Sono quei suoni appresi al mio arrivo a Roma, tanti anni fa, quando ascoltavo tutto come fossi una bambina, legando l'immagine, l'odore, il sapore e le sensazioni al nuovo linguaggio. Per assimilarlo velocemente, per non sentirmi dire con il dito puntato: "Sei straniera". In realtà, una giovane e carina ragazza piena di "fascino slavo" come dicevano, non doveva sentirsi in imbarazzo a causa di questa definizione, ma la voglia di integrarsi e non sentirsi diversa era una motivazione forte.
Vi sono i modi di dire che adesso, dopo tutto il tempo trascorso dentro un'altra realtà, fanno parte del mio bagaglio linguistico alla pari con il croato. Trovo alcune espressioni più appropriate nella lingua italiana, mentre altre più appropriate in croato e in entrambi i casi insostituibili!
Cielo, perché non si può di due lingue farne una sola?
Per un lungo periodo non ho avuto l'occasione di parlare spesso la mia lingua madre e allora ho cercato "aiuto" in quella italiana. Dovevo comunicare, ero "costretta" a immergermi nella lingua nuova, come fosse un altro mare, per ricreare le emozioni, nella ricerca della fonte che in realtà avevo lasciato alle spalle in una nebbia di ricordi. Si cerca la sponda conosciuta per affrontare quella nuova sulla quale approdare senza paura.
Vi sono le parole che suscitano le emozioni "antiche" e i sentimenti lontani fatti da suoni primi, da echi diversi che in qualche modo ho bisogno di tradurre, riavvicinare e accostare ad altri suoni e ritmi, per avere la sensazione di essermi espressa come avrei voluto.
Certe note di due linguaggi camminano in modo parallelo e si supportano l'uno con l'altro come due zoppi pronti a darsi il sostegno.
Due uomini e quattro stampelle! Già, si perpetuano e non termineranno mai. Perché non voglio perdere nessuna delle fonti, né quelle custodite nello scrigno della memoria lontana né quelle scoperte nei nuovi pellegrinaggi.
Mihai Mircea Butcovan: più che riappropriarmi si è trattato di una vera appropriazione di una nuova lingua e, attraverso essa, di una nuova cultura. In questo processo c'è stato un continuo confronto tra significati attribuiti dalla mia storia personale e i significati attribuiti dalle persone madrelingua.
Il sentimento genera il bisogno di comunicare e spesso mi ritrovo ad ammettere che le parole non sono sufficienti per far comprendere le mie emozioni a un interlocutore. Ritengo il linguaggio un processo logico, mentre le emozioni "sono" e basta. La parola è pensata, l'emozione esiste. Occorre, quindi, un processo razionale che permetta di riconoscere e classificare un sentimento, per poi trovare la giusta via, per comunicarlo. Personalmente ritengo si tratti di un raffronto perenne, talvolta programmato, consapevole, immediato, talvolta successivo all'interazione con la parola scritta o parlata. Ed è la scoperta, mai prevedibile, di differenti significati attribuiti, da te stesso e dagli altri nel processo infinito di apprendimento e allargamento del proprio lessico.
Nel suo libro la Hoffman afferma: "Il radicale distacco fra la parola e la cosa è un'alchimia che inaridisce - toglie al mondo non solo il significato, ma anche i colori... le sfumature, la vita stessa. È la perdita di una comunicazione viva". La comunicazione viva comprende non soltanto il rapporto di profonda fiducia con la lingua, essa significa dare il via libera al flusso di parole, acquisire la sfumature di ironia, prontezza dello sfociare nel humor, nel sarcasmo, l'utilizzo del gergo, l'afferrare il significato e ridere delle vignette... Si tratta di elementi insiti nei codici culturali profondamente legati al vissuto del paese, alla sua cultura. Quando noi immigrati ci addentriamo in queste sfere, siamo facilmente fraintesi. Qual è la vostra esperienza con un simile aspetto della rigidità/fluidità della lingua? Quanto dura il nostro (in)volontario autocontrollo? Quando ci si trova davvero "a casa" in una lingua che non è quella materna?
Barbara Serdakowski: forse perché tutto sommato le lingue che adopero si somigliano c forse perché la mia lingua madre (il polacco) è stata per me un arricchimento che mi permetteva di allargare ulteriormente la mia percezione delle parole e dei significati fraintesi o nascosti, non posso lamentarmi più di tanto. Ho sempre colto con molta facilità i significati delle battute, dei giochi di parole, anche dette in lingue/dialetti da me da poco scoperti.
Per esprimere meglio questo concetto ho sempre avuto un forte "senso" per le parole. Ma posso dire che se capivo/percepivo e utilizzavo i codici verbali/scritti con, a volte, sorprendente facilità, non mi veniva ugualmente spontaneo utilizzare i codici culturali.
Sono, infatti, caratterialmente diversa nelle varie lingue e solo in francese, la lingua che ho maggiormente vissuto e studiato, sono ironica, divertente e scherzosa (o forse lo ero... credo che con il tempo si possa perdere anche quello), nelle altre lingue tendo a essere piú pacata e ragionevole nel mio rapporto con gli altri. Mi viene spesso detto da persone a me vicino sentendomi cambiare all'improvviso lingua: "ma come sei diversa quando parli tale o tale altra lingua!" e credo che abbiano proprio ragione.
Detto questo credo che avere il "senso" per molte parole (conseguenza di lunghi pellegrinaggi) sia un arricchimento personale che ci dà accesso alla comunicazione e alla percezione di piú mondi. L'inevitabile perdita di trasmissione di concetti e sensazioni legati a una determinata parola cambiando registro linguistico è un prezzo piccolo da pagare in cambio della molteplicità di concetti guadagnati quando una parola può evocare non più un solo gruppo di sensazioni ma adesso diventa un caleidoscopio arricchito da culture "altre" attraverso suono, forma e connotati.
Forse, però, questa ricchezza si manifesta come tale più per uno scrittore, che allarga così la sua palette di emozioni, e meno per chi ha semplicemente bisogno di comunicare e si trova isolato dalla frustrazione di non riuscire a trasmettere altro che parole con significati da dizionario.
Marija Mitrovic': la risposta a questa domanda è già compresa nella precedente: vorrei tanto sapere la seconda lingua come "loro". Mi pare che "loro" siano diversi da noi altri, che la manna sia scesa dal cielo e abbia avvolto "loro" che sono così ricchi perché possono esprimersi bene in due o più lingue.
Non oserei mai scrivere un testo letterario in lingua non mia! Ritengo che scrivere testi letterari sia un atto molto responsabile; una disciplina fortemente elitista che richiede maestria e alta professionalità. Condizione principale per la scrittura letteraria è l'ottima conoscenza della letteratura e della cultura della lingua in cui si vorrebbe scrivere. Conosco troppo poco la cultura e la letteratura italiana e non avrei il coraggio di scrivere in italiano.
Come ammiro le persone che passano da una lingua a un'altra senza quasi far notare il passaggio, esprimo ancor più alto apprezzamento per quelli che scrivono in un'altra lingua. Ma mi consolo perché esistono anche casi diversi, gli scrittori che non hanno mai scritto una riga in un'altra lingua pur conoscendola benissimo: Danilo Kis parlava perfettamente il francese, ha vissuto in Francia per anni, condotto le trasmissioni televisive in francese, ma mai scritto una riga in questa lingua.
Forse mi mettono più in imbarazzo quelli che hanno ottima padronanza di un'altra lingua, che pensano nella seconda lingua, la usano per scrivere, ma la parlano sempre con "l'accento".
Si trovano benissimo nella nuova sintassi, hanno un lessico estremamente ricco e invece si sente in tutte le loro frasi che sono stranieri. Se invidio quelli che sanno scrivere in un'altra lingua, forse dovrei dire che verso quegli altri, quelli perfetti da una parte, ma comunque stranieri dalla prima parola, sento una certa commiserazione: è possibile - mi chiedo - pensare in un'altra lingua, però non poter entrare nelle regole fonetiche, ritmiche e dell'accento?
Oppure anche qui esistono due categorie: quelli che sanno imitare i native speaker in ogni minima caratteristica, e quelli invece che non hanno l'orecchio per certe cose "minime", ma importanti?
O forse per loro questo aspetto della lingua non è importante, non lo ritengono cruciale, non fanno degli sforzi di questo genere? In questo ambito aggiungerei ancora un'esperienza individuale significativa: una volta ho scritto un testo critico-letterario in sloveno, che sarebbe la mia seconda lingua. Un po' rielaborato, volevo poi pubblicarlo anche in italiano. Seppure avessi le idee chiare e sapessi che cosa volevo scrivere in italiano, il testo italiano non usciva dalla mia mano. Alla fine, ho fatto tradurre il testo dallo sloveno in italiano.
Trasmettere dalla seconda in terza mia lingua per me era completamente impossibile. Non dimenticherò mai il mio blocco totale davanti a quel testo: nessuna frase scritta prima in sloveno voleva diventare frase italiana.
Ovviamente sono tutte cose che succedono a uno che non conosce la lingua a sufficienza. La difficoltà con la quale mi avvicino al processo di scrivere ha sicuramente anche una ragione più intima: mi sento piuttosto l'ascoltatore, e non tanto uno che è pronto sempre a esporre pubblicamente le proprie esperienze e opinioni. Mi piace di più ascoltare e ragionare che raccontare la mia storia.
Vesna Stanic': ho assimilato molte sfumature della lingua italiana, girovagando sulla penisola italica. Un'amica mi ha soprannominato "Vesna itinerante".
Ho vissuto a Roma, in Sicilia (girando l'isola) e a Firenze. Ho accettato certe espressioni dialettali controvoglia, per necessità di comunicare e anche per difendermi. Se qualcuno mi manda a quel paese, vorrei almeno saperlo e rispondergli a tono! E che diamine! Ho fatto miei altri modi di dire, sono diventati miei e me li porto dietro da regione a regione.
Uso certe parole, a volte, senza pensare che non tutti capiscano il concetto di una "cammurria" che in Sicilia è di casa. Eppure, sento talvolta che le stesse parole, oramai certe e solide nella mia mente come la terra sotto i piedi, mi sfuggono come se mi trovassi improvvisamente nella palude. Vedo i rami intorno a me, vedo il terreno e la via, ma sprofondo nel fango dell'incertezza e nulla mi sorregge. Cavolo! La mia mente mi tradisce e appare sul volto dell'interlocutore un sorriso beffardo. In Croazia, particolarmente a Zagabria, dovrei sentirmi "a casa" in tutti i sensi. Nella nebbia, sulla neve o nelle giornate estive, afose so comunque muovermi bene. Tra le parole d'origine tedesca, tra i suoni dialettali provenienti dal vicino Zagorje pieno di vigneti, io sono sul mio territorio. Lo sono ancora? Non lo so.
Nei miei brevi soggiorni nella città natia a volte mi sento una turista che sta scoprendo le "curiosità" del luogo. Appena pronuncio una parola dall'accento incerto, sono corretta come se fossi una straniera. Peggio! Sono una traditrice, che ha "inquinato" e "sporcato" non solo la propria lingua madre ma anche le proprie origini, l'identità. Allora tutto si ferma, non sono a casa in nessun luogo e niente è più davvero mio. Poi torno nel paese che mi ha accolto anni addietro e riabbraccio il linguaggio come una gattina lasciata ad aspettarmi nel giardino. Mi sento "a casa" in una lingua nuova? Sarà mai mia? Me lo chiedo. È mia quando amo, quando litigo, quando vado al supermercato, non è mia quando parlo ai bambini e agli animali. Per me un gattino sarà sempre una "mala maca".
Mihai Mircea Butcovan: il primo sforzo è quello di avvicinarsi alle emozioni, proprie e altrui, prodotte dall'impatto con le parole, ricordando che un buon modo per sapere è domandare.
"Rinascimento" vibra in modo diverso nelle persone, così come la parola "comunismo" in un determinato contesto può far ridere una persona e piangere un'altra.
Eppure chi apprende una nuova lingua può anche muoversi con la spensieratezza di chi non esclude la possibilità di abbinamento o accostamento di certe parole solo perché la maestra a scuola inorridiva soltanto all'idea.
Il migrante esce da una realtà ed entra in una nuova realtà. Scopre analogie e differenze, luci e ombre. Nuovi rumori, nuovi suoni, nuove parole.
Quando ascolto una persona che parla una lingua straniera, io non sono solo un orecchio che registra dei suoni, ma continuo a provare un flusso di emozioni.
Il processo che s'innesca è quello di scoprire nuovi suoni (parole) e abbinarli a nuove o antiche emozioni, in un confronto continuo con chi possiede già il linguaggio che a me suona nuovo.
Ad esempio, uno "studente" di lingua è meno vincolato da regole preesistenti e dai luoghi comuni vigenti. Può "giocare" con le nuove parole, abbinarle, accostarle in modo del tutto inedito perché svincolato da invalicabili norme grammaticali apprese sui banchi delle scuole elementari.
Capita anche di produrre nuove assonanze (suggerite dal bagaglio linguistico pregresso), alcune delle quali possono rivelarsi "orrende" ma si beneficia dell'attenuante di chi la lingua la sta ancora imparando.
Io mi sento a casa quando le emozioni suscitate da un'immagine o da una situazione trovano una via d'uscita e un passaggio verso un altro essere umano. Che sia un linguaggio verbale o no, poco importa. Quello che è importante è la comunicazione. Arriva un momento in cui l'espressione di quello che pensi nella nuova lingua viene spontanea, senza più "insicurezze inibitorie". Ma ti senti veramente a casa nel momento in cui quello che stai vivendo lo puoi raccontare e (de)scrivere ad altri senza dover ricorrere a un dizionario bilingue.
L'immigrato si fa educare a una nuova lingua, a una nuova cultura, ma deve educare a sua volta, creando così i presupposti per un dialogo e quindi per l'integrazione. L'immigrato educa raccontando se stesso e rievocando le proprie emozioni e la propria storia. Quando si riesce a realizzare questa comunicazione ci si trova in una nuova casa. Ogni casa poi, è stretta o larga a seconda di come la vivi e percepisci. Sicuramente va arredata con gusto, il "tuo" gusto.
II processo migratorio significa spesso essere deportati dal personale centro dell'universo, il che comprende anche quello linguistico. Quali conseguenze subisce in questo "smottamento" la lingua madre? Spesso se ne parla in termini di perdite. Scrive Eugenia Mazza: "Al di là di tentativi di conciliazione, alcuni scrittori lasciano trasparire un senso di perdita nella loro condizione in mezzo a due o più culture. Se consideriamo la lingua un tutt'uno con l'identità e la
cultura, allora anch'essa subisce un travaso da un contenitore ad un altro, lasciandone uno vuoto"2.
C'è il rischio che in questo vuoto la lingua madre si possa smarrire. Julio Monteiro Martins3, autore brasiliano che vive da anni in Italia, redattore della rivista on line Sagarana, parla della sua imbarazzante esperienza vissuta al ritorno a casa. Dopo soli tre anni di assenza, il suo portoghese subì un tale arresto che lo stesso fratello, stupito del fatto, gli disse con rammarico che non sapeva più parlare il portoghese. La parola recisa dalla realtà, dalla memoria, dai paesaggi e dagli odori "di casa"... può sclerotizzarsi? Può diventarci estranea?
Quali sono i vostri bilanci personali con la lingua madre, con la perdita della comunicazione viva con il proprio paese/i d'origine?
Barbara Serdakowski: se si definisce come lingua madre la mia prima lingua, ho un rapporto mancato con lei. È una lingua che ho imparato a casa. La parlo male con errori infantili e non posso considerarla una vera perdita.
È una cosa incompiuta nella mia vita.
La Polonia rappresenta per me un amore non vissuto. Non sento rimpianti particolari, so benissimo che la Polonia degli anni Sessanta, Settanta, ma anche Ottanta e Novanta non aveva da offrirmi quello che gli altri paesi mi hanno dato. Sono contenta di aver viaggiato, di avere imparato altre lingue, di avere visto mondi diversi. Il rimpianto si è manifestato qualche tempo dopo il mio arrivo in Italia dove non riuscivo più a scrivere in francese e non riuscivo ancora a scrivere in italiano. È stato un momento difficile che ha scatenato in me tutta una serie di sentimenti che non sapevo neanche di avere: la solitudine immediata, non avevo la famiglia vicino (intesa come madre, padre, fratello, nipotine), la solitudine storica (non conoscevo zii, nonni, parenti - tutti in Polonia e visti solo qualche volta in età piccolissima), la solitudine linguistica (mi dicono spesso in mezzo a una frase: "ma lei non è italiana / ma come parla bene l'italiano! / ma si sente un po' l'accento, sa?" - interrompendo qualunque sia il discorso), la solitudine culturale (il mio era un mix unico, non associabile a nessun altro e quindi senza poter interagire con persone che abbiano punti di riferimento simili - tutto era sempre da spiegare, le tradizioni perdevano il loro significato collettivo).
In breve mi sono sentita sola e senza radici. Con il passare degli anni, qui in Italia, ho capito che se non ho radici profonde ho, però, molteplici radicine tentacolari e che ogni mia perdita ha occasionato la nascita di molte mie ricchezze e che in fondo non cambierei niente alla mia storia e quindi va benissimo così! Credo che molto sia dovuto al fatto che l'Italia rappresenta per me una scelta di vita, un ritorno al vecchio continente per vivere di persona l'unione europea e dare ai miei figli una prospettiva doppia (canadese e europea) che ritengo utile nel mondo di oggi. Una scelta dopo un lungo pellegrinaggio e la scoperta di altri mondi.
L'Italia non è stata per me una scelta obbligata per sfuggire a problemi del mio paese. Credo che questo significhi tanto e che condizioni l'accettazione delle mie perdite. Non mi sento tradita e costretta a rincominciare la corsa della vita con dieci, venti o trenta anni di svantaggio.
Marija Mitrovic': i più grossi problemi nel "dimenticare" la propria lingua hanno le persone che si soffermano a lungo nell'ambito linguistico vicino alla lingua propria: gli spagnoli in Italia e viceversa. Forse da quelli si potrebbe notare al ritorno nella patria un altro ritmo, una melodia diversa della propria lingua. Quando le lingue sono completamente diverse, è più difficile portare il riflesso della nuova lingua nella lingua di partenza.
Per noi tutti dall'area linguistica che una volta si chiamava "serbo-croata" questo problema si pone in maniera un po' diversa: non abbiamo perso solo lo stato comune, la patria grande, ma anche la lingua! Tutte le lingue cambiano col tempo, si modificano e si adattano alle nuove realtà. Ma nelle parti geografiche dove una volta si usava la lingua serbo-croata, i cambiamenti della lingua sono forzati così che quando torni "a casa" ti si rimprovera che stai usando il lessico non (più) appropriato, il lessico che oggi appartiene solo "agli altri" e non (più) a "noi". Una volta potevo usare liberamente un lessico molto più vasto; oggi, nonostante i miei sforzi di controllare il lessico usato nelle mie frasi per non entrare nel campo "proibito" (perché adesso non esistono più le parole comuni, ma solo quelle "serbe" o quelle "croate"), quando torno a Belgrado, i belgradesi mi dicono: usi troppe parole croate. Quando vado a Zagabria, mi limito a parlare solo con degli amici molto vicini, perché temo di essere percepita come "diversa" e questo non sarebbe molto piacevole. Le differenze minime che esistono tra le due varianti di lingua (serba e croata) attualmente si potenziano, perché si cerca di produrre due lingue diverse. Nel frattempo si è creata tra tutti i parlanti di questa lingua, e soprattutto tra noi esiliati, l'incertezza enorme, una situazione anomala che ti porta alla conclusione di non avere più la lingua materna. Quella che avevi una volta, non puoi usarla. Su questo argomento ha riflettuto la scrittrice croata, Dubravka Ugresic', in un suo racconto, intitolato Ministero del dolore:
La lingua, che prima era unitaria, ora era ufficialmente divisa in tre, croato, serbo e bosniaco. E tuttavia queste nuove lingue mi davano meno pensieri, non mi passava nemmeno per la testa di dividerle io in base a differenze contenute in appena una cinquantina di parole. Ciò che mi preoccupava era la scoperta di una generale durezza propria della lingua, e poi una generale incapacità dei miei studenti di servirsene. Alla loro balbettante lingua madre avevano aggiunto, oltre all'inglese, anche l'olandese.
Boban ci raccontò di come di notte gli si riproponesse spesso lo stesso incubo: di trovarsi a Zagabria, di non riuscire a trovare l'indirizzo e di aver paura di domandare perché i passanti avrebbero potuto accorgersi che era di Belgrado. Nevena soffriva di schizofrenia linguistica. Balbettava, confondeva le parlate, scambiava gli accenti. Un attimo parlava con una specie di accento serbo meridionale, poi con una pseudo imitazione di croato, poi strascinava alla bosniaca, alzando e abbassando senza ragione i toni come i bambini autistici. In seguito mi raccontò che il padre, serbo di Krusevac, e la madre, croata di Mostar, avevano violentemente litigato per tutta la vita, e che alla fine, alle soglie della guerra, s'erano lasciati. Ognuno di loro tendeva al proprio branco etnico. Nevena si era trasferita dalla nonna a Sarajevo prima della guerra e da lì si era ritrovata profuga ad Amsterdam.
Igor si serviva della lingua olandese senza problemi. L'olandese per lui significava libertà, viveva la lingua madre come una prigione.
- Quando parlo la nostra lingua, mi sento come in prigione, come il personaggio di un misero dramma provinciale, if you know what I mean - disse Igor. Per questo spesso "pepava" il "nostrano" con degli anglicismi. Il "nostrano" insieme agli anglicismi suonava più sopportabile.
- Tutte le nostre lingue si sforzano di costituire una norma letteraria, ma suonano naturali soltanto nella loro variante mista, bastarda, da Geistarbeiter. Oppure nella dialettale. Vivo forse il dalmata come una lingua, ma il croato proprio no. Tutte queste lingue, questi croato, serbo e bosniaco, sono qualcosa di fortemente innaturale... Io sono un cocker, ho un orecchio sopraffino, I know what I'm talking about...
Vesna Stanic': vi sono stati nel passato dei momenti nei quali mi ero allontanata molto dalla mia lingua madre, il che vuol dire anche dalle mie origini, come se appartenessero a qualcun altro. Ero quasi indifferente nei riguardi della lingua che, come in un ripostiglio, avevo messo in disparte. Non temevo la lontananza delle parole con le quali sono nata, sapevo che erano lì, dentro la vecchia valigia e che avrei potuto tirarle fuori come un caro vestito della nonna.
Quello di cui sentivo nostalgia erano invece gli odori, i sapori e il mio mare. La roccia bianca, specchiata nel mare cobalto, stranamente è stata sempre la corda alla quale attaccarsi per salvarmi dalla perdita e dallo sradicamento. Lo spazio e il cielo sopra di me, i suoi colori e odori rappresentano il linguaggio senza sillabe, parole, verbi e regole grammaticali. Lo sguardo che ti è familiare lo comprendi meglio. È rassicurante. Poi, qualcosa nella mia impalcatura era crollato! Pezzo dopo pezzo mi sono arrivate le schegge delle parole accantonate a ricordarmi che io avevo altre risorse, conservate con cura, a me ignota, dalla mia memoria. Il mare era meno che more e reclamava la sua pienezza. Il sole maschio mi turbava, quando sunce era dolcemente neutro. Un elemento della natura così vitale perché deve essere al maschile? Già, vi è chi si consola
ricordando come la Terra fosse al femminile. In realtà non m'importava cosa accadesse in un'altra lingua; nella mia aveva un senso maggiore vedere tanta acqua verde o scura, scorrere pronunciando rijeka, femmina grande e abbraccievole, invece che immaginare un maschio fiume!
Ho vissuto un dolore per le parole che raramente potevo pronunciare; era come visitare la madre lontana e dover partire dopo due giorni. Col tempo era arrivata la riconciliazione. So di non avere pieno potere sulle parole né della mia lingua madre né di quella acquisita.
È una realtà che ho accettato e non m'importa se qualche volta debbo ricorrere a delle stampelle, appoggiandomi un po' su una, un po' sull'altra.
Mihai Mircea Butcovan: ho vissuto l'amarezza della stessa esperienza al mio primo ritorno a casa. La parola rimane sospesa tra il ricordo e una realtà quotidiana dove non trova la libertà per esprimersi. Si perde sempre qualcosa prima di conquistare altro. Essa può allontanarsi dallo scaffale delle parole a nostra disposizione quando pensiamo, parliamo, scriviamo, viviamo il presente. Ma di fronte a certi stimoli può riemergere, uscire dalla memoria con la forza di una "macchina del tempo" in grado di trasportarti nel passato, in luoghi e situazioni archiviate - sembrava - per sempre, dove lo stesso tempo si è fermato.
Per quanto riguarda i bilanci, in termini di entrate e uscite, li faccio di continuo con almeno due lingue.
Sono partito dal mio paese con un discreto saldo di parole. Poi le entrate sono diminuite e ho aperto un nuovo conto linguistico. Forse in regime di partita doppia. Per un lungo periodo si vive con ansia il deficit nella nuova lingua, arriva poi il momento del sentimento di pareggio e in seguito si crea persino un fondo di riserva. Del resto nell'esperienza di migrazione le parole hanno la potenza delle note musicali: per quanto poche siano puoi comporre un'infinità di melodie, con un'infinità di vibrazioni nel musicista e nell'ascoltatore.
La scrittura degli stranieri in lingua italiana ha genesi e percorsi diversi. Qual è il procedimento della vostra scrittura - avviene in lingua madre, poi si traduce, oppure scrivete subito in italiano? Mi piacerebbe mettere a confronto esperienze diverse, il vostro rapporto con la scrittura in italiano, Lingua 2, come lo definiscono coloro che sono soliti costruire le gerarchie linguistiche.
Alcuni di voi scrivono poesie e narrativa in italiano, Vesna, Mihai, rivelando un profondo legame con la memoria personale e collettiva del paese di provenienza, altri, come Barbara, ripropongono una particolare "contaminazione" linguistica; le poesie di Barbara sono scritte contemporaneamente in tre, quattro lingue diverse, la musicalità di queste lingue, tutte "sue", s'intreccia... Questo procedimento significa rendere la lingua "abitabile", ricreare nella lingua
straniera la memoria della propria terra, della migrazione. Anche Vesna utilizza, in modo molto più limitato, l'intreccio di parole che appartengono a lingue diverse: l'italiano e il croato. Marija è in contatto con diverse lingue per esigenze professionali: insegnare la letteratura serba e croata all'Università di Trieste la tiene in contatto quotidiano con le sue "lingue madri" plurime. La sua scrittura in lingue diverse è parallela, rimane la questione se essa raggiunge la simmetria espressiva e quella spontaneità di cui si è parlato prima...
Come nasce la vostra scrittura che ormai molti chiamano "migrante"? Si tratta prevalentemente di una ricostruzione della memoria o del legame con il presente che è contestualizzato in uno spazio culturale nuovo, dove la cittadinanza dell'immigrato deve appena avverarsi?
È una partenza da zero che ci permette di plasmare la nuova lingua, modellarla con distorsioni, con tentativi ed errori, con usi impropri di parole e di forme, contribuendo così alla contemporanea crescita di noi stessi, incamminati verso una nuova nascita? O è un continuo tradursi, da una lingua all'altra, da un'esperienza emotiva all'altra? E, infine, si può trattare di un semplice travaso di saperi e di competenze professionali?
Barbara Serdakowski: credo di avere già risposto parzialmente a tutte queste domande in precedenza ma per andare più a fondo nella questione dirci che in me non c'è una conflittualità tra le lingue che utilizzo.
Il momento di maggior difficoltà con la grammatica italiana, l'uso improprio di verbi e di preposizioni è ormai superato. Sono riuscita ad affinare sufficientemente lo strumento, mi sento più tranquilla e riesco a creare senza troppe interruzioni. Per sicurezza faccio rileggere i miei scritti ma sento un controllo su ogni singola frase. Paragonerei le mie lingue all'inglese americano. Il fenomeno dell'inglese americano, che cresce, si espande, accetta senza riserva contaminazioni, parole nuove, ispanismi ecc., documentando il tutto nei dizionari, senza cercare di ripulire sempre, di correggere ad oltranza i neologismi, di proteggere e mantenere la lingua incontaminata come avviene per le lingue europee. Credo che dove c'è più appartenenza ci sia, giustamente, più protezionismo per la lingua e non sono contraria a questa tendenza. Le tradizioni vanno protette. È una semplice osservazione: le mie lingue somigliano di più all'inglese americano: prendono, accettano, osservano le evoluzioni con sorpresa, a volte fastidio, ma senza grandi gelosie.
Marija Mitrovic': raramente, davvero raramente scrivo subito in italiano. Finora, solo gli appunti per le lezioni nascono così. Tutto il resto nasce prima nella mia lingua che continuo a chiamare il serbocroato e solo dopo mi sforzo a tradurla in un'altra lingua. Che ovviamente non è mai la traduzione fedele, ma sempre una rielaborazione di quello che volevo dire.
Vesna Stanic': scrivo in italiano. È una sfida continua e vi sono parziali successi da parte mia. Così mi pare. Certo, è imbarazzante scrivere e contemporaneamente chiedersi se una parola si scrive con la lettera doppia o no. E il congiuntivo? Cerco perennemente di farmela amica questa lingua, di andarci a braccetto, ma la nostra amicizia non è iniziata nell'infanzia quando certe intese nascono spontaneamente, libere dai pensieri. La sento talvolta bizzarra, si nega, si allontana per poi trovarmela vicina, al punto di sentire il suo respiro sulla mia pelle. E io la faccio mia, voglio possederla, annusarla, sentire il suo calore, l'asprezza. Mi può anche ferire. Più della mia lingua madre? Di questo non sono certa. In ogni modo ho bisogno di sentire il suo sapore in bocca anche quando le mie mascelle si muovono in modo innaturale. Certe volte mi fermo, ricorro alle "voci di casa", mastico e "assaggio" le parole, come se fossero delle caramelle Bronhi, i bonbon della mia infanzia.
Non so se sarei capace di scrivere usando la mia lingua madre.
Temo questo confronto. Temo che perderei l'altra. So nel fondo del mio cuore che non ho perduto la lingua della mia terra, dell'infanzia, delle risate ma anche delle delusioni e dei dolori. Potrei ritornarci in ogni momento, penso. Non potrebbe essere altrimenti.
Mihai Mircea Butcovan: sogno in italiano, spero in italiano, penso in italiano, dunque scrivo in italiano. Da adulto scrivo nella lingua della mia età, comunque nella lingua del presente e di quello che immagino come futuro. Consapevole del mio passato e delle mie emozioni che erau ("erano" in romeno), sono e saranno. La scrittura come pratica espressiva l'ho utilizzata già nel paese d'origine, non per fini divulgativi ma in forma diaristica. Con l'esperienza migratoria il bisogno di scrivere è diventato maggiore.
La narrazione di sé è diventata autobiografia, per tenersi insieme laddove era facile perdersi. I flussi migratori odierni costringono a incontrare altro. Altre persone, altre culture. E per continuare a vivere, ospite e ospitante devono trovare un accordo. Quest'ultimo si rivela temporaneo e deve portare all'integrazione perché, prima o poi, l'ospite diventi "di casa" e possa quindi a sua volta ospitare. L'integrazione passa attraverso il dialogo. Ma per dialogare gli interlocutori devono concordare un comune veicolo linguistico. E in un dialogo bisogna parlare e ascoltare. In quale sequenza? L'uovo o la gallina? Di certo uno non può esistere senza l'altro. Parlando a chi ci ascolta raccontiamo. E nel racconto cala tutto il nostro essere. Ci raccontiamo per farci sentire e conoscere. E siamo quanto abbiamo precedentemente sentito e conosciuto. Ascoltando. La "nostra" narrazione ci fa incontrare l'altro ma, prima ancora, anche noi stessi. E l'incontro con se stessi è soltanto il principio di nuovi mondi, nuove scoperte. Per dare un senso alla nostra vita e continuare, semmai avessimo incominciato, a respirarla. Perché "raccontarsi" può farci stare, se non bene, almeno meglio.
Penso che si tratta nel contempo di ricostruzione della memoria e di legame col presente. La cittadinanza dell'immigrato è in costruzione permanente, si tratta di una crescita continua e questo vale per chiunque.
Si può essere pellegrini e stranieri anche senza aver mai sconfinato. Si può essere estranei, o apparire tali, nel proprio paese. Perché essere/sentirsi straniero, in patria o altrove, significa avere, almeno una volta nella propria biografia, fatto l'esperienza della dimensione psicologica del viaggiatore, dell'errante, dell'esule, del profugo. Ho imparato da Nichita Stanescu che importante è saper tenere aperti i confini del proprio pensare.
Sono convinto che scrivere sia un atto di estrema libertà e che ci vuole molto coraggio per scrivere e ancora di più per scriversi, perché attraverso la scrittura l'individuo può svelarsi a se stesso. Ogni uomo, arrivato a un certo momento della sua maturazione, avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita. Questo per darsi un'identità, per presentarsi a se stesso e agli altri, per ritrovare emozioni perdute e sapere come si è diventati.
Per quanto riguarda l'ultima domanda, se si tratti solo di un travaso di saperi e competenze professionali, credo di no. A mio avviso si può "tradurre" una teoria mentre l'esperienza si deve interpretare.
Sono in molti a sostenere che dopo la scrittura nella lingua acquisita, avviene il passo successivo, quello di non poter più scrivere in quella materna. Si può smettere di scrivere nella lingua madre?
Alcuni scrittori migranti passano con semplicità da un codice linguistico all'altro, testimoniando così la contemporanea appartenenza a due mondi. La scrittrice croata Dubravka Ugresic' parla della vita dell'emigrante come una vita di continuo cambio di voltaggio o hertz "come se avessimo incorporato sotto la pelle un trasformatore, altrimenti ci bruceremmo..."
Altri invece ritengono di aver fatto i "conti" personali con la lingua scegliendo la "lingua del presente". Monteiro Martins dirà che esiste "solo una lingua viva, che ti ferisce, ti guarisce, ti colpisce, ti lenisce e ti fa sognare tutti i giorni. È quella la tua lingua. La lingua che hai, in cui la tua vita interna ed esterna si svolge. (...) Io scrivo nella mia lingua, quella che ho". Anche la Hoffman dichiarerà: "Se devo scegliere, scelgo l'inglese. Se devo scrivere del presente devo farlo nella lingua del presente, anche se non è quella la lingua dell'io".
Qual è la vostra lingua dell'io? E, se l'io è plurimo? Se esso non corrisponde all'io scritto? Qual è la lingua del monologo interiore? Quella con cui invochiamo la memoria? La scrittura in una lingua acquisita è l'iscrizione nella cittadinanza?
Barbara Serdakowski: ritorno a Borges ripetendo che ho già scelto da qualche tempo di interferire il meno possibile con la mia opera scritta. Scelgo l'italiano
spontaneamente ma non come scelta temporale (passato contro presente), ma piuttosto come lingua della verbalità che mi circonda. Non credo, almeno per adesso, che il fatto che io scriva in italiano mi faccia sentire più italiana. Sono convinta che se andassi a vivere, anche temporaneamente, in un paese diverso, dopo pochissimo avrei l'impulso di scrivere in quella lingua. Sono molto legata al dialogo, spesso nella mia immaginazione vedo persone che parlano, i loro volti, le loro espressioni e quindi mi viene naturale esprimere i concetti nella lingua di queste persone. Un po' come un pittore cambia registro di colori vivendo sotto un altro sole. La lingua del monologo interiore... per me non c'è. Il distacco in me tra lingua e pensiero è avvenuto molto tempo fa, credo durante l'infanzia. Non penso in lingua. Anche la lingua dei miei sogni è fortemente condizionata da chi è vicino a me quando li racconto. Almeno di aver sentito, nel sogno, qualcuno parlare distintamente e dire qualcosa di preciso in una o in un'altra lingua, il sogno si svolge senza una precisa associazione linguistica. Non riesco a capire in quale lingua si formula il mio pensiero, credo che sia pensiero e basta. Il pensiero si materializza prima di uscire dalla bocca o su carta con il registro appropriato, ma sento che questo processo avviene all'ultimo anche se poi, negli anni, si formano canali preferenziali. Succede con tutto, la legge dell'uso e del disuso.
Marija Mitrovic': quando ho dovuto prendere la decisione sull'andare in un altro paese e lavorare usando l'altra lingua, ho pensato con ansia alla nuova lingua come mezzo di comunicazione. Avevo in mente la comunicazione quotidiana e non la lingua come elemento dell'identità. Allora non sognavo neanche che difficoltà si creano davanti a uno che si trasferisce e deve chiedere sempre vari permessi, attestati, domande... L'incubo della comunicazione amministrativa rimarrà per me eterno: non solo perché l'italiano amministrativo sia tanto diverso dalla versione parlata, ma proprio perché per sempre ti rimane nella memoria negativa l'atto iniziale, la papirologia enorme che devi maneggiare all'inizio della nuova vita.
Vesna Stanic': per me non esiste una lingua sola. Si completano e si sostituiscono non sempre in sincronia, purtroppo. Creano dei vuoti, dei buchi come nel formaggio svizzero Emmental. La memoria la invoco non curandomi della parola poiché è il pensiero e l'emozione che contano. Ho bisogno della parola per spiegare all'interlocutore ciò che mi sta a cuore. La mia lingua dell'Io è interscambiabile. Ho scritto un libro che parla della mia terra in italiano, ascoltando continuamente la musica della Dalmazia che mi trasportava di qua e di là, tra le due sponde dell'Adriatico. Avevo bisogno della lingua d'adozione per filtrare le emozioni forti che sgorgavano dal mio corpo.
Non so quale sia la mia lingua prima, so che vi sono esperienze che non potrò mai tradurre né spiegare nella lingua "nuova". Mancano dell'essenza, del vissuto. Le mani, i volti, le voci "l'altro" non li riconosce. Viceversa, le situazioni conosciute nella lingua d'adozione sono difficilmente narrabili e traducibili in croato. Sono perdite e acquisizioni che si susseguono. Le emozioni si rincorrono e si adattano alla lingua del bisogno. Già, del presente.
Mihai Mircea Butcovan: sì, come si può smettere di scrivere nella lingua acquisita. Come si può smettere di scrivere...
Si è liberi di scegliere se scrivere o no ma riaccostarsi alla lingua madre dopo aver fatto esperienza di altre lingue può sempre significare un arricchimento inatteso e imprevedibile. Ci si trova così a importare nuovi abbinamenti di significati, nuove assonanze che di certo non impoveriranno la lingua d'origine e nemmeno il nostro rapporto con essa. Il passato può essere la promessa di ulteriore futuro per la mente. Le mie due lingue dell'io sono sia l'italiano sia il romeno, in proporzioni fluttuanti, a seconda dei ricordi, emozioni, stimoli che vivo. Ritengo che l'io non abbia confini culturali; le parole fanno riferimento a stati ed emozioni umane che accomunano tutti gli uomini al di là delle loro culture. Anche per quanto riguarda il monologo interiore esso avviene, ancora una volta, in italiano o romeno a seconda dei destinatari dei miei pensieri, in relazione ai ricordi evocati o frequentati. La scrittura in una lingua acquisita può semmai comportare l'iscrizione in una nuova cittadinanza, non iscrivibile in alcun passaporto. Ma diventa un fatto piuttosto personale.
Ci sono idee che si presentano spontanee in una lingua, altre in un'altra. Qual è, secondo voi, la sorgente di questi flussi mentali? Nella vostra scrittura, nella vostra esperienza, rimarrà sempre qualcosa che non si riesce a esprimere in italiano?
Barbara Serdakowski: questa domanda, nel mio caso, evidentemente, si applica soltanto alla poesia dove lascio la mia mente libera di scorrazzare scegliendo tra quello che possiedo. Non c'è nulla che non riuscirei a esprimere in italiano. Ogni tanto qualche espressione, parola, concetto, proverbio, detto proveniente da altri registri linguistici farebbe comodo per esprimere meglio una determinata cosa ma lo stesso avviene per altre ricchezze italiane che verrebbero spianate se tradotte in altre lingue. Non cerco confronti quando scrivo narrativa. Credo che ogni lingua abbia le sue incontabili sfumature e il suo infinito. Quando mi sento limitata nella mia espressione, quando sento che qualche parola calza stretto, capisco subito che il limite è mio, smetto di scrivere e vado a leggere, in qualunque lingua, la lettura mi ridimensiona.
Marija Mitrovic': ma non si può neanche discutere: rimangono sempre tante cose non dette, non esprimibili, non solo nella seconda, ma anche nella prima lingua! La lingua è potente, ma non onnipotente mezzo di comunicazione.
Vesna Stanic': mentre scrivo vorrei evocare nella mia lingua madre le parole che corrispondono, calzano perfettamente a quelle italiane. Adesso, nello stesso istante! Non posso; la memoria mi tradisce poiché sto percorrendo un flusso, una corrente che in questo remare mi porta in una direzione, talvolta parallela, ma pur sempre diversa. Moje misti me vode prema drugoj rijeci, drugacijim bojama, drugim oblicima. Potrei scrivere qualcosa di simile, potrei tradurmi ma, sento che non avrebbe lo stesso colore. Sì, direi che le espressioni e i pensieri possano essere comunicati in varie lingue, anche se, inizialmente sono mosse dalla stessa ragione, dallo stesso impulso. Il problema nasce quando sentiamo il bisogno di usare il linguaggio che il nostro interlocutore non capisce. Perdiamo la spontaneità, il ritmo e tutto ci appare sbiadito. Il pensiero di per sé, forse, sorge a prescindere dalla lingua, ma poi ha bisogno di trovare la via più facile e sentita per prendere forma, per manifestarsi attraverso le parole.
Non so se le idee e i pensieri del passato si manifestano in me soltanto nella mia lingua madre, il croato. Ho scritto di situazioni vissute nella mia città natia, descrivendole in italiano. Credo che, per questo, si sono distaccate da quel vissuto, mentre le parole che appartengono ai luoghi dove si sono create hanno conservato, intatte, il loro "segreto". Viceversa, mi si presenta, a volte, nella realtà "italiana" di ricorrere alla mia lingua madre e, forse, per evidenziare (emersa dal subconscio) la mia diversità, il bisogno di distanziarmi dalla comunità che mi circonda.
Sì, ci sarà sempre qualcosa che non riuscirò a esprimere in italiano, anche se, non posso individuarlo, come si individua una regione sconosciuta sulla carta geografica. Emerge dal fondo della memoria, quando meno me lo aspetto; è il basamento o la roccia del "mio" mare su cui appoggiarmi e trovare quel qualcosa di assolutamente "riconoscibile" e intimo da non poter essere "prestato" e, nemmeno nascente con altre parole.
Mihai Mircea Butcovan: dipende dal "destinatario del pensiero". Per esempio immagino di interloquire con una persona romena in romeno. Immagino luoghi e fatti romeni in italiano. Li descrivo in italiano. Ma non sono io a decidere. Per la seconda parte della domanda, credo, più in generale, che rimane sempre una grande voglia di raccontarsi, di trasmettere o spiegare le emozioni del passato. Ci sono angoli, sfumature che è difficile descrivere o esprimere in parole. Perché sono cose dell'anima...
Note:
1 - Il libro è stato tradotto in italiano con il titolo Come si dice?, Donzelli editore, 1996. Eva Hoffman è autrice anche del romanzo-reportage sui paesi dell'Est, Exit into History, Penguin Books, 1992.
2 - Sagarana, rivista on line (www.sagarana.net), Scrittori migranti, (Secondo seminario), n. 16, 2004.
3 - Attualmente insegna Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria all'Università degli Studi di Pisa e dirige il Laboratorio di Narrativa del Master della Scuola Sagarana, a Lucca. Autore di diversi libri in patria, in Italia pubblica Il percorso dell'idea (1998), Racconti italiani (2000), La passione del vuoto (2003) e madrelingua (2005). Con Antonio Tabucchi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Erri De Luca e Gianni Vattimo ha pubblicato il volume Non siamo in vendita - voci contro il regime (2001). E stato anche autore di opere teatrali (L 'isteria del marmo, Per motivi di forza maggiore, Aula magna, Hitler e Chaplin) e i suoi scritti hanno ispirato opere cinematografiche.
(Tratto dalla rivista Pagina Zero, quadrimestrale di letteratura, arte e culture, numero 6, di marzo 2005)
Melita Richter
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