LA PAROLA DI HURBINEK
- Morte di Primo Levi –


( – un brano del saggio – )

Francesco Lucrezi


(...)
Levi non si uccise subito dopo la prigionia. Una volta libero egli ritrovò, o credette di ritrovare, un suo equilibrio: creò una famiglia felice, ebbe molti amici, raggiunse fama, successo, notorietà internazionale, diede alla sua esistenza il nobile e gratificante scopo della testimonianza. Come accaduto ad altri intellettuali sopravvissuti all’Olocausto, quali Jean Améry, Paul Celan – che ebbe entrambi i genitori uccisi ad Auschwitz, e si gettò nella Senna, a Parigi, nel 1970 – o lo psicanalista Bruno Bettelheim – reduce dal Lager, che scelse di asfissiarsi con un sacchetto di plastica, nel 1990, nella sua casa di riposo nel Maryland, all’età di ottantasette anni –, anche in lui la drammatica decisione maturò dopo: quarantadue anni dopo.
Durkheim, nella sua ricognizione sociologica del suicidio, ebbe a riscontrare che il fenomeno appare meno diffuso nel popolo ebraico, evidentemente “protetto” da un maggiore senso di appartenenza e di identità. Ma il saggio di Durkheim (imperniato su una distinzione tra suicidi “egoistici”, “altruistici” e “anomici”) fu scritto nel 1897, molto prima della Shoah e dei suoi devastanti effetti. Come avrebbe classificato, il sociologo, il rifiuto di vivere da parte degli ebrei sopravvissuti al Lager? Lo avrebbe considerato un gesto “egoistico”, “altruistico” o “anomico” (ossia determinato dal venir meno di un nomos, di una cornice sociale di riferimento)? Oppure, come piace credere, avrebbe elaborato una nuova, specifica classificazione? E l’idea di Freud – anch’essa formulata prima dell’Olocausto – del suicidio come omicidio mancato, potrebbe applicarsi ai “malati di Lager”, che avrebbero alzato la mano contro sé stessi in quanto impossibilitati a colpire i loro aguzzini? Come interpretare il gesto “a scoppio ritardato” dei reduci?
Anche nel caso di Primo Levi, la corda, che aveva saputo resistere per quasi un anno (esattamente, dal 22 febbraio 1944, data della deportazione dal campo di Fòssoli di Carpi (Modena), al 27 gennaio 1945, giorno dell’ingresso in Auschwitz dei soldati russi) nelle condizioni più estreme, nell’umiliazione più schiacciante, tra selezioni e quotidiani appuntamenti con la morte, se spezzò nell’agio, nel benessere, nell’impegno professionale, nel calore degli affetti. Se il compito del testimone fu da lui vissuto come una “rivincita all’offesa”, anche per lui, come per Jean Améry, la partita si concluse con una sconfitta: “chiedo giustizia – scrisse di sé stesso – ma non sono capace personalmente... di rendere il colpo”.


(Brano tratto dal libro La parola di Hurbinek, Giuntina, Firenze, 2005)

Francesco Lucrezi, professore ordinario presso l’Università di Salerno, è studioso di ebraismo antico, diritto biblico, storia e istituzioni del moderno Stato d’Israele.



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