UN MONTONE IN CASA
MIA
Pablo Neruda
Avevo
un parente senatore che, dopo aver vinto le elezioni, venne
a passare qualche giorno nella mia casa di Isla Negra. Così
comincia la storia del montone. Successe che i suoi elettori
più entusiasti erano venuti a festeggiare il senatore.
Nella prima sera di festa, arrostirono un montone alla maniera
contadina del Cile, con un grande fuoco all'aria aperta e il
corpo dell'animale trafitto su uno spiedo. Questo viene chiamato
asado al palo e viene celebrato con molto vino e lamentose
chitarre criolle.
L'altro montone era rimasto per la cerimonia del giorno dopo.
Poiché non era giunta la sua ora, lo avevano legato vicino
alla mia finestra. Passò tutta la notte a gemere, piangere,
belare e lamentarsi della sua solitudine. Straziava il cuore,
ascoltare le modulazioni di quel montone, tanto che decisi di
alzarmi prima dell'alba e rapirlo. Sistemato in macchina, lo
portai a 150 chilometri da lì, nella mia casa di Santiago,
dove i coltelli non lo avrebbero raggiunto. Appena entrato,
si mise a pascolare voracemente nell'angolo più bello
del mio giardino. I tulipani lo entusiasmarono e non ne rispettò
uno e alle rose non si avvicinò solo per questioni spinose.
Ma, in compenso, divorò le violacciocche e i gigli con
uno strano piacere. Non avevo altra scelta che legarlo un'altra
volta. E subito, si rimise a belare, cercando chiaramente di
commuovermi come prima. Ero disperato.
A questo punto, la storia del montone si intreccia con quella
di Juanito. Successe che in quel tempo era iniziato uno sciopero
di contadini nel sud. I latifondisti della regione, che pagavano
i propri braccianti non più di 20 centesimi al giorno,
misero fine a quello sciopero con bastonate e arresti.
Un giovane contadino si impaurì così tanto da
salire su un treno in movimento. Il ragazzo si chiamava Juanito,
era molto religioso e non sapeva niente di come va il mondo.
Quando passò il controllore, chiedendo i biglietti, Juanito
rispose che lui non ce l'aveva, che stava andando a Santiago
e che pensava che i treni servissero a farci salire la gente,
quando avesse bisogno di viaggiare. Cercarono di farlo scendere,
ovviamente. Ma i passeggeri di terza classe - gente del popolo,
sempre generosa - fecero una colletta e gli pagarono il biglietto.
Juanito vagabondò per le vie e le piazze della città
con un fagotto di vestiti sotto il braccio. Visto che non conosceva
nessuno, non aveva voglia di parlare con nessuno. In campagna
si diceva che a Santiago ci fossero più ladri che persone
e lui temeva che gli rubassero la camicia e i sandali, che portava
avvolti in un giornale. Durante il giorno, vagava per le strade
più affollate, dove le persone erano sempre di fretta
e allontanavano con uno spintone questo Kaspar Hauser venuto
da un altro pianeta. Anche di notte cercava i quartieri più
affollati, ma questi erano i viali del cabaret e della vita
notturna e lì la sua presenza era ancor più strana,
pallido pastore perduto tra i peccatori. Poiché non aveva
un soldo, non poteva mangiare, tanto che un giorno cadde al
suolo privo di sensi.
Una folla di curiosi circondò l'uomo steso nella strada.
La porta, davanti alla quale era caduto, era quella di un piccolo
ristorante. Lo portarono dentro, mettendolo sul pavimento. E'
il cuore, dissero alcuni. E' una crisi epatica, dissero altri.
Il padrone del ristorante si avvicinò, lo guardò
e disse: E' fame. Non appena ebbe mangiato qualche boccone,
quel cadavere resuscitò. Il padrone lo mise a lavare
i patti e gli si affezionò tantissimo. Ne aveva tutte
le ragioni. Sempre sorridente, il giovane contadino lavava montagne
di piatti. Tutto andava bene. Mangiava molto più che
nella sua terra.
Il sortilegio della città si intrecciò in modo
strano, affinché si riunissero in casa mia il pastore
e il montone. Al pastore venne voglia di conoscere la città,.
Spingendo i suoi passi un po' oltre quelle montagne di cocci.
Si incamminò con entusiasmo lungo una strada, attraversò
una piazza e tutto lo meravigliò. Ma quando volle tornare
indietro, non era più in grado di farlo. Non si era annotato
l'indirizzo, perché non sapeva scrivere, cercando così
invano la porta ospitale che lo aveva accolto. Non la ritrovò
mai più.
Un passante, impietosito dal suo smarrimento, gli disse di rivolgersi
a me, il poeta Pablo Neruda. Non so perché glielo abbiano
suggerito. Probabilmente perché in Cile, c'è l'abitudine
di sobbarcarmi di tutte le cose strane che passano per la testa
alle persone e allo stesso tempo di incolparmi di tutto ciò
che succede. Sono strani costumi nazionali.
Certo è che il ragazzo, un giorno, giunse a casa mia
e incontrò l'animale legato. Visto che mi prendevo cura
di quell'inutile montone, non mi costava nulla occuparmi di
questo pastore. Gli diedi l'incarico di impedire che il montone
gourmet divorasse esclusivamente i miei fiori, ma che
ogni tanto si saziasse con l'erba del mio giardino.
Si capirono al volo. Nei primi giorni gli mise, tanto per fare,
una cordicella attorno al collo con un nastro e con essa lo
portava da un posto all'altro. Il montone mangiava incessantemente
e il pastore individualista pure, transitando entrambi per tutta
la casa, persino nelle mie stanze. Era un'unione perfetta, riuscita
grazie al cordone ombelicale della madre terra e alla natura
autentica dell'uomo. Così passarono molti mesi. Tanto
il pastore che il montone arrotondarono le loro forme, specialmente
il ruminante, che riusciva a malapena a seguire il suo pastore,
tanto era ingrassato. A volte entrava con discrezione nella
mia stanza, mi guardava con indifferenza e usciva, lasciando
un piccolo rosario di grani scuri sul pavimento.
Tutto finì, quando il contadino ebbe nostalgia della
campagna e mi disse che sarebbe tornato nella sua terra lontana.
Era una decisione dell'ultima ora. Doveva mantenere un voto
alla Vergine del suo villaggio. Non poteva portare il montone,
si congedarono con tenerezza. Il pastore prese il treno, stavolta
col suo biglietto in mano. Fu una partenza malinconica.
Nel mio giardino, non lasciò un montone, bensì
un problema grande o meglio grasso. Che farne del ruminante?
Chi se ne sarebbe preso cura? Avevo troppe preoccupazioni politiche.
Per di più, casa mia era messa a soqquadro dopo le persecuzioni
politiche che la mia poesia combattente mi aveva portato. Il
montone cominciò nuovamente a belare le sue lamentose
partiture.
Chiusi gli occhi e dissi a mia sorella di portarlo via. Ahimè,
stavolta ero sicuro che niente lo avrebbe salvato dal forno.
(Traduzione
di Julio Monteiro Martins insieme a Mirella Abriani e ai suoi
studenti dell'Università di Pisa: Lorenzo Tamburini,
Marco Merlini, Chiara Zucconi, Alessandra Pescaglini, Francesca
Renda e Gabriele Ceriani)