LA TROMBETTA DI
DEYÁ
Mario
Vargas Llosa
[Frammento
del prologo di Mario Vargas Llosa ai Racconti Completi di
Julio Cortázar. (Ed. Alfaguara).]
(…)
Il cambiamento di Cortázar, il più straordinario
che mi sia mai capitato di vedere in un essere umano, un mutamento
che spesso mi è successo di paragonare con quello che
sperimenta il narratore di Axolotl, avvenne, secondo la versione
ufficiale – quella che confermò lui stesso –,
nel Maggio francese del ’68. Allora lo si poteva vedere,
in questi giorni tumultuosi, sulle barricate di Parigi, mentre
distribuiva volantini di sua invenzione, e confuso tra gli studenti
che volevano condurre “l’immaginazione al potere”.
Aveva cinquantaquattro anni. I diciassette che gli restavano
da vivere sarebbe stato lo scrittore impegnato con il socialismo,
il difensore di Cuba e Nicaragua, il firmatario di manifesti
e l’habitué di congressi rivoluzionari che è stato
fino alla morte.
Nel
suo caso, diversamente da molti nostri colleghi che optarono
per una similare militanza, ma per snobismo od opportunismo – un
modus vivendi e una maniera di scalare posizioni nell’ambito
intellettuale, che era e in un certo senso, continua ad esserlo,
un monopolio della sinistra nel mondo della lingua spagnola –,
questo cambiamento fu genuino, dettato più dall’etica
che dall’ideologia (alla quale continuò ad essere
allergico) e da una coerenza totale. La sua vita si organizzò in
funzione di questo, e si trasformò in pubblica, quasi
promiscua, e buona parte della sua opera si disperse nella
circostanza e nell’attualità, fino a sembrare
scritta da un’altra persona, molto diversa da quella
che, prima, percepiva la politica come qualcosa di lontano
e con ironico disdegno. (Ricordo quella volta che volli presentargli
Juan Goytisolo: “Mi astengo – scherzò –. È troppo
politico per me.”) Come nella prima, sebbene in maniera
distinta, in questa seconda tappa della sua vita ha dato più di
quello che ha ricevuto, e sebbene credo che si sia sbagliato
molte volte – come quando affermò che tutti i
crimini dello stato erano un mero accident de parcours del
comunismo –, anche in questi sbagli aveva una tanto manifesta
innocenza e ingenuità che era difficile mancargli di
rispetto. Io non l’ho mai perso, né tantomeno
l’affetto e l’amicizia, che – nonostante
la distanza – sopravvissero a tutte le nostre discrepanze
politiche.
Ma il cambiamento di Julio fu molto più profondo e coinvolgente
di quello dell’azione politica. Io sono sicuro che iniziò un
anno prima del ’68, al momento della sua separazione da
Aurora. Nel 1967, come ho già detto, eravamo tutti e tre
in Grecia, dove lavoravamo insieme come traduttori. Trascorrevamo
la mattina e il pomeriggio seduti allo stesso tavolo, nella sala
delle conferenze dell’Hilton, e le notti nei ristoranti
di Plaka, ai piedi dell’Acropoli, dove infallibilmente
andavamo a cenare. Ed insieme visitavamo musei, chiese ortodosse,
templi, e, un fine settimana persino la piccola isola di Hydra.
Quando tornai a Londra, dissi a Patricia: “La coppia perfetta
esiste. Aurora e Julio sono riusciti a realizzare questo miracolo:
un matrimonio felice.” Pochi giorni dopo ricevetti una
lettera da Julio che mi annunciava il loro divorzio. Credo di
non essermi mai sentito così disorientato.
Quando
lo vidi di nuovo, a Londra, con la sua nuova compagna, era
un’altra persona. Si era lasciato crescere i capelli
e aveva una barba rossiccia e imponente, da profeta biblico.
Mi chiese di accompagnarlo a comprare riviste erotiche e parlava
di mariuana, di donne, di rivoluzione, come faceva prima di
jazz e di fantasmi. Aveva sempre questa simpatia calorosa,
questa totale mancanza di pretese e di atteggiamenti che quasi
inevitabilmente rendono insopportabili gli scrittori famosi
da cinquant’anni in su, e inoltre devo dire che era diventato
più fresco e giovanile, ma facevo fatica a collegarlo
a quello di prima. Tutte le volte che lo vidi dopo – a
Barcellona, a Cuba, a Londra o a Parigi, a congressi o tavole
rotonde, a riunioni sociali o cospiratorie – ogni volta,
rimasi sempre più perplesso della volta prima; era lui?
Era Julio Cortázar? Era sicuramente lui, ma come il
baco che si trasforma in farfalla o il fachiro del racconto
che a forza di sognare i maragià, apre gli occhi ed è seduto
in un trono, circondato da cortigiani che gli rendono omaggio.
Questo altro Julio Cortázar, mi sembra, fu meno personale
e creatore come scrittore di quello di prima. Ma ho il sospetto
che, in compenso, ebbe una vita più intensa e, forse,
più felice di quella in cui, come scrisse, l’esistenza
si riassumeva per lui in un libro. Per lo meno, tutte le volte
che lo vidi, mi sembrò giovane, esaltato, disponibile.
Naturalmente, se qualcuno poteva saperlo,quella doveva essere
Aurora. Io non commetto l’impertinenza di chiederglielo.
Non abbiamo neppure parlato molto di Julio, durante questi calorosi
giorni estivi di Deyá, sebbene lui sia sempre lì,
dietro ogni conversazione, imponendosi con la destrezza di allora.
La piccola casa, seminascosta tra gli olivi, i cipressi, le bouganville,
i limoni e le ortensie, hanno l’ordine e la purezza mentale
di Aurora , certamente, e sentire con immenso piacere, nella
piccola terrazza accanto al ruscello, il decadere del giorno,
la brezza della sera, e vedere apparire il corno della luna tra
le cime delle montagne. Non c’è nessuno nei paraggi.
Però il suono sale, quello di questo manifesto in fondo
alla sala, dove un bambino allampanato e ingenuo, con i capelli
tagliati alla tedesca e una camicia con maniche corte – il
Julio Cortázar che io conobbi – gioca con il suo
gioco preferito.
(Pubblicato
originalmente in Spagnolo nel Novembre 1992. Traduzione di
Samanta Catastini.)
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