LO
SGUARDO EROTICO
Il
taglio chirurgico dell’occhio nel film Un chien andalou (1928)
di Luis Buñuel e Salvador Dali è già un’immagine
icastica del Ventesimo secolo. La sua stessa radicalità simbolica è presente
anche in un’altra opera dello stesso anno, La Storia
dell’occhio, di Georges Bataille, una successione
di eccessi erotici ai quali Bataille cerca di trasmettere
un valore
trascendente. Si tratta di un romanzo nella stessa lunghezza
d’onda di quelli del Marchese di Sade. La Storia
dell’occhio è il
suo libro d’esordio, e già in questa opera prima
Bataille innalza l’erotismo alla categoria di rito iniziatico,
ed elegge l’occhio come il suo strumento per eccellenza,
quell’unico disponibile ai due personaggi adolescenti
del libro, che attraverso lo sguardo raggiungono una complicità permissiva
e una fantasia erotica illimitata e insaziabile.
IL
GIUDICE DI BUDAPEST
Il
grande scrittore ungherese Sándor Márai nel suo
romanzo Divorzio a Buda è tornato al grande argomento
della sua opera, i conflitti tra i princìpi morali nelle
scelte della nostra esistenza. Per tale operazione, Márai
ha eletto come protagonista un giudice di mezz’età di
Budapest che dovrà decidere su questioni davvero spinose,
legate alla sottomissione al destino e alla forza distruttiva
delle passioni, nei processi di divorzio trascinati al suo
cospetto da “una civiltà edonista e motorizzata,
senza alcuna riserva morale”. Infatti, in quegli anni,
la febbre del divorzio si estendeva all’Europa dell’Est,
portando a galla casi estremi d’incomunicabilità e
di ossessioni morbose e nevrotiche. Dice in un dato momento
il giudice Kristóf Komives: “Chi sarebbe in grado
di fotografare, registrare o toccare il momento in cui qualcosa
si rompe tra due persone? Quando è successo? Durante
la notte, mentre dormivamo?... O molto, molto tempo fa, solo
che non l’abbiamo notato?”
LA
LEGGEREZZA DI BARTHES
Sono
parte della grande eredità intellettuale lasciata da
Rolland Barthes le sue cronicas, i testi “minori” con
osservazioni sulla vita quotidiana, che ha pubblicato tra il
1978 e il 1979 su "Le Nouvel Observateur". Sono piccole
illuminazioni del quotidiano che lui paragonava agli hai-ku
giapponesi, alle epifanie joyciane e a frammenti di un diario
intimo. Hanno sempre un tono appassionato riguardo ai temi
letterari e culturali su cui ritorna frequentemente. Barthes
ha esercitato la critica in modo inventivo e sempre in cerca
di una smarrita e (davvero) insostenibile leggerezza, in un
mondo fin troppo carico di significati e di miti.
PUDORE
Dall’Atlantis,
di Flobenius, sugli Yoruba: “Dei morti e delle loro migrazioni
la gente racconta strane cose. Per esempio, se si parte e si
compie un lungo tragitto, può accadere di incontrare
al mercato – a Ife o anche a Dahomey o nella terra degli
Ewe – individui che a casa loro sono morti e si sono
ritirati lì per restare sconosciuti. Quando vedono un
conoscente del loro paese d’origine, si ritirano da parte
in gran fretta e cercano in ogni modo di non farsi rivedere.”
APRIRE UNO SPIRAGLIO
Il
premio "Amis du Monde Diplomatique 2003" è stato
concesso allo storico statunitense Howard Zinn. I quattro padrini
del premio, Dario Fo, Costa Gavras, José Luis Sampedro e
José Saramago hanno scritto insieme per l’occasione
una dichiarazione sull’impegno degli intellettuali, che si
conferma ad ogni nuova generazione:
“
Dove sono oggi i Bertrand Russell, che è stato in grado
di lanciare, insieme a Einstein, una convocazione al disarmo nel
momento più drammatico della Guerra fredda? I Bertrand Russell,
che undici anni più tardi si è opposto all’arbitrio
degli Stati Uniti nel Vietnam creando un Tribunale Internazionale
contro i Crimini di Guerra? Chi custodisce ancora nel cuore le
ultime parole del suo discorso: “possa questo Tribunale prevenire
il crimine del silenzio”.
Dove sono le donne che col Manifesto delle 343 hanno osato mettersi
pubblicamente al di fuori della legge nel dichiarare di aver abortito
per esigere il libero accesso ai metodi contraccettivi e l’interruzione
volontaria della gravidanza?
Dove sono gli Stephan Zweig e gli Heinrich Boll contemporanei che
sfidano con energia il potere? Le oasi di Ivan Illich si sono prosciugate
definitivamente?
Dove sono gli Henri Curiel, che si rifiutò ad abbandonare
l’Egitto per resistere contro gli Afrikakorps di Rommel?
Gli Henri Curiel anticolonialisti incarcerati per 18 mesi a Fresnes
per il suo appoggio al Fronte di Liberazione Nazionale?
Dove sono i Ghandi, che perse la sua vita nello sforzo di accelerare
la caduta dell’Impero britannico in India?
Dove sono i 121 che giustificavano i loro atti di contestazione
e l’appoggio ai ribelli dichiarando che ‘ancora una
volta, al di fuori delle imposizioni e delle regole prestabilite, è nata
una resistenza, grazie a una presa di coscienza spontanea, che
cerca e inventa forme di azione e mezzi di lotta per affrontare
una situazione nuova, il cui senso e le vere esigenze si sono messe
d’accordo per non riconoscere i gruppi politici e i periodici
critici, sia per inerzia dottrinale, sia per preconcetti nazionalisti
o morali?
Dove sono oggi gli Albert Londres che usò la sua penna,
nel presidio della Guyana o di Bat’ d’Af, per denunciare
già nel 1920 le deviazioni della giovane Unione Sovietica,
riuscendo a portare modifiche nella legislazione riguardante il
diritto di asilo e osando affrontare la stampa coloniale francese?
Dove sono i pensatori della dimensione di Foucault, che ha rivoluzionato
radicalmente il modo di vedere la malattia mentale, il carcere,
la sessualità? Dove sono i Bourdieu che ha rigenerato la
Sociologia senza rinunciare a difendere con ostinazione il ruolo
sociale dell’intellettuale critico? Dove sono oggi Hannah
Arendt, Cornelius Castoriadis, Antonio Machado o Federico García
Lorca?
Uno strato fastidioso e insulso sembra essersi depositato sugli
spiriti. L’omologazione dei discorsi li fa appiattiti dalla
loro banalità – quando l’essenza dell’emancipazione
umana consiste nel capire il mondo nella sua complessità,
sottigliezze e contraddizioni.
Alcune donne, alcuni uomini, continuano tuttavia combattendo tutti
i giorni, lottando senza retrocedere, attuando instancabilmente
per aprire uno spiraglio nel pensiero dominante. Così perpetuano
con coraggio il ruolo di avversari del potere degli intellettuali
critici.
E' per portare loro appoggio, aggiungere visibilità e combattere
l’apatia intellettuale di oggi che l’Association
des Amis du Monde diplomatique ha creato il Premio Amis
du Monde Diplomatique – contro
il pensiero unico. Ed è con questo spirito che noi abbiamo
accettato di diventare i suoi padrini.”
LE DIFFICOLTÀ PER DIRE LA VERITÀ
Colui
che vorrà lottare contro la menzogna e l’ignoranza
e scrivere la verità dovrà superare almeno queste
difficoltà: essere disposto a rivelare la verità ovunque
essa sia stata sfigurata; avere l’intelligenza necessaria
per scoprirla; possedere l’arte di farla diventare maneggevole
come un’arma e il discernimento per diffonderla. Sono difficoltà enormi
per tutti quelli che scrivono sotto il fascismo, ma anche per gli
esiliati e gli spatriati, e per quelli che vivono in democrazie
borghesi. (Questo testo di Bertold Brecht è apparso nel
novembre del 1963 nel "Bollettino del Seminario di Diritto
Politico" dell’Università di Salamanca, in Spagna).
HILDA HILST
È morta
la poetessa brasiliana Hilda Hilst. Aveva 74 anni, e viveva
da molti anni isolata in una villa in campagna in stile
messicano, la Casa do Sol, con i suoi ottanta cani. La
Hilst ha scritto nientemeno che 41 libri, ed è stata
spesso eticchetata come “immorale”, “provocatrice” o
addirittura “pornografica”, a causa del linguaggio
libertino che utilizzava nelle sue poesie e nelle sue cronicas,
già dagli anni ’60. Nel suo sito Internet
( www.hildahilst.cjb.net), compare la sua immagine in un
gesto osceno e dice: "La scrittrice e i suoi multipli
dicono addio; ha provato nella parola l’estremo-tutto
e si è abbozzata santa, prostituta e corifea". “Il
mio grande charme è essere stata libera. Per vivere
e per scrivere” ha affermato una volta..
Nata a Jaú, a São Paulo, nell’aprile del 1930, Hilda Hilst
ha avuto i suoi testi tradotti in francese, in inglese in italiano e in tedesco.
Ha ricevuto, tra l’altro, il Premio Pen Club per il libro Sette canti
dal poeta all’angelo. Altri suoi libri di successo sono Con i
miei occhi di cane e altri racconti (1986) e Lettere di un seduttore (1991). |
LA CULTURA DELLA PAURA
Lo
storico francese Jean Delumeau, nel suo libro La storia
della paura nell’Occidente 1300-1800, afferma che, ''senza
la paura nessuna specie sarebbe sopravissuta. Ma se la paura
oltrepassa un’intensità sopportabile, diventa
patologica e crea forti blocchi”. È proprio di
questa patologia, tanto presente negli USA, di cui parla il
sociologo statunitense Barry Glassner nel suo nuovo libro pubblicato
nel suo paese nel 1999, The Culture of Fear (La cultura
della paura).
Le sue riflessioni sono state la principale ispirazione per il
famoso film Bowling for Columbine, di Michael Moore.
Nel film, vincitore dell’Oscar per il Miglior Documentario,
nel 2003, il professore di Sociologia dell’Università della
California del Sud compare parlando con Moore sulle paure reali
e su quelle frutto delle fantasie createsi all’interno
del sistema capitalistico statunitense. Glassner, con le sue
analisi molto lucide, riesce a sdrammatizzare le principali paure
degli occidentali di questo inizio di millennio.
LA STORIA DI SONIA
Per
chiudere queste “dicas”, una storia vera raccontata
da Elias Canetti: “L'altro ieri a tarda ora: Sonia, la
sua storia che sembra uscita da Grimmelshausen. Il padre, ungherese
di nascita e proprietario terriero in Slovacchia, la madre
ebrea, tre figlie (ora conosco Enid e Sonia). Il padre sempre
nella sua biblioteca. Le sue conversazioni con Sonia, la più forte
delle figlie, durante la seconda metà della guerra;
la sua certezza della catastrofe. Due figlie le manda a Budapest,
e Sonia studia agraria all'Università ungherese di Altenburg.
La sua ultima visita alla proprietà, nella quale non
potrà più mettere piede. L'ultima cartolina dei
genitori: ‘Partiamo col camion per Komorn’. Da
uno studente, che a lei risulta essere mezzo ebreo ma che ha
documenti falsi, apprende di essere in pericolo. Chiede allora
i propri documenti e li ottiene: vi è messa in grande
evidenza l'origine ebraica dei suoi nonni. Il bravo studente
la accompagna, prima a Komorn, dove lei cerca notizie dei genitori.
Le dicono che l'unico uomo da cui potrebbe sapere qualcosa è un
fotografo, capo degli ultranazionalisti della città.
Va da lui, nella sua bottega, e lo trova lì, in uniforme.
Gli chiede notizie del padre. ‘Il barone Weiss? Sì,
mi ricordo di lui, è ripartito quattro giorni fa’.
Solo molto più tardi scopre che cosa è successo:
il fotografo era responsabile dello smistamento. Prima di tutto
si separavano gli ‘intellettuali’ dai ‘lavoratori
manuali’. Suo padre e sua madre erano stati aggregati
agli ‘intellettuali’, e questi si pensava di rispedirli
a casa. Non c'erano vagoni ferroviari o camion. In ogni caso,
però, tra gli ‘intellettuali’ venivano isolati
gli ebrei, perché loro non sarebbero stati rispediti
a casa. La madre finì tra gli ebrei. Il padre disse: ‘Allora
vado con lei’. ‘Prego, come desidera’ disse
il fotografo, che così si ricordò del barone
Weiss, l'unico non ebreo che partì con gli altri, per
così dire, da volontario. Ma poi le donne furono subito
separate dagli uomini – il padre andò a Flossenbürg,
dove lo misero ai lavori più duri e poi lo picchiarono
a morte nel dicembre del 1944. La madre finì a Ravensbrück
era troppo debole per lavorare. Morì il 12 gennaio 1945.
Sonia e lo studente uscirono dalla bottega del fotografo e si
misero in cammino per Budapest. Nel primo paese lei udì un
gran frastuono; fu presa da un senso di sgomento; mancò poco
che svenisse, e non capiva perché: poi venne a sapere
che era cominciata la ‘caccia agli ebrei’. Avrebbe
voluto cercare i suoi genitori in mezzo a loro, lo studente la
trascinò via, ‘è inutile, sono partiti già da
quattro giorni’, lei lo sapeva, e tuttavia il pensiero
che i suoi genitori fossero portati via, lontano da lei, non
la abbandonò più. Lo studente la accompagnò fino
a Budapest e la affidò alle sorelle.
Di lì a poco sentì che era vacante un posto di
cameriera presso l'arciduchessa Stefania, la vedova del principe
ereditario Rodolfo d'Austria (si era risposata con un Lónyay
e viveva, ottantenne, nel castello di Oroszvár). L'’Altezza
Reale’ voleva emigrare in Svizzera e cercava una cameriera
che conoscesse le lingue, per portarla con sé. Sonia si
presentò, la vecchia non capiva perché volesse
quel posto; Sonia le si confidò e trovò comprensione:
non era un'antisemita. Dopo una settimana Sonia entrò in
servizio; la maggior parte del castello era occupata da militari
tedeschi, e lei dovette superare i vari controlli. ‘Ma
questa non è una cameriera’. Finse di non capire
il tedesco, e fu ammessa. A poco a poco fu ammaestrata dall'arciduchessa,
che però rinunciò alla sua parrucca solo il quinto
giorno; da quel momento Sonia si rese indispensabile. Furono
sbrigati in fretta i preparativi per il viaggio in Svizzera;
poi la vecchia ebbe un colpo apoplettico, e tutti i progetti
andarono in fumo. Un colonnello medico tedesco andò a
visitare l'Altezza; tenne d'occhio Sonia e le domandò: ‘Lei
non è una cameriera. Chi è? Sono pronto ad aiutarla!’.
Sonia si confidò dicendo tutta la verità. L'ufficiale
le raccontò che si parlava di lei tra i soldati tedeschi
in servizio al castello: erano convinti che fosse un'ebrea latitante.
Lui poteva aiutarla solo se lei accettava di passare per la sua
amante. Sonia acconsentì. Lui si comportava da gentiluomo;
nel corso delle settimane successive le confessò di amarla.
Aveva una cinquantina d'anni ed era sposato, aveva dei figli,
ma con sua moglie non s'intendeva. Stavano per arrivare i russi,
e i tedeschi sgombrarono il castello; il colonnello voleva rimanere,
per amore di Sonia, purché lei si dichiarasse pronta a
sposarlo. Ne parlarono a lungo e giunsero alla conclusione che
lui non doveva rimanere. L'ufficiale se ne andò, e lei
rimase sola, in preda all'angoscia.
Quando ormai si aspettavano i russi da un momento all'altro,
un frate (un benedettino che si trovava al castello) riunì tutte
le donne e le ragazze per isolarle in un nascondiglio (e proteggerle
così dai soldati russi). Sonia però doveva restare
accanto all'Altezza. I russi entrarono, sentirono che al castello
c'era una vecchia principessa e si misero in testa di andare
a vederla. Poco prima che mettessero piede nella stanza dell'inferma,
il frate ebbe un'idea: Sonia, se voleva salvarsi, doveva nascondersi
nel letto della vecchia. E lei, vestita com'era, s'infilò sotto
la coperta, raggomitolandosi contro la parete. Subito dopo cominciò la
sfilata dei russi. Uno dopo l'altro passarono compunti davanti
al letto della ‘principessa’ e la guardarono con
gli occhi sgranati. Mentre il castello veniva saccheggiato da
cima a fondo, nella stanza della ‘principessa’ non
toccarono nulla. Il frate li ricevette e rese, per così dire,
gli ‘onori’. Non gli torsero un capello; non si poteva
dire che i russi se la prendessero con gli aristocratici, i religiosi
o gli ungheresi in generale. Davano solo la caccia ai soldati
tedeschi e, quando erano ubriachi, alle donne.
Quando ebbero lasciato la stanza dell'inferma, Sonia si credette
salva. Ma poi, venuta la notte, salì fino a lei, dal cortile,
la voce di un russo ubriaco. Parlava di una cameriera che, secondo
lui, era nascosta nel letto della ‘principessa’:
sì, lui lo sapeva. L'uomo si avviò su per le scale.
Lei si rannicchiò contro il muro e udì i passi
che si avvicinavano. Di colpo l'ubriaco tirò giù la
coperta dell'arciduchessa, e Sonia si trovò con un mitra
puntato addosso. In quel momento di terrore dimenticò tutto
quello che era accaduto, anche il nome dell'ufficiale medico
tedesco, e nei diciassette anni trascorsi da allora si è inutilmente
tormentata il cervello, non è più riuscita a trovarlo. – Si
alzò dal letto e seguì il russo, sempre sotto la
minaccia del mitra. Si rendeva conto che non aveva scampo: o
morire o cedere. D'un tratto, nel lungo loggiato, si udirono
le voci dell'appello in corso nel cortile. La guerra non era
finita: il russo la piantò in asso e scappò via
per raggiungere il suo reparto. I russi potevano darsi al saccheggio
e approfittare delle donne, ma quando suonava l'appello dovevano
obbedire all'istante, o finivano fucilati. Per Sonia fu la salvezza;
un miracolo, disse il frate, era stato un vero miracolo.
Rimase al castello ancora un po', mentre l'arciduchessa Stefania
declinava rapidamente. Il frate comprò un cavallo per
Sonia, e lei per quattro giorni cavalcò alla volta di
Budapest. Durante quei quattro giorni il valore del cavallo aumentò fino
a decuplicare. Subito dopo il suo arrivo lo vendette, e fu fortunata,
perché due ore dopo non avrebbe più potuto venderlo.
Col ricavato le due sorelle e lei vissero sei mesi. Sonia mi
ha raccontato la sua storia fin qui. Ci sarebbe stato ancora
molto altro, ma si era fatto così tardi che dovetti interrompere
e mandarla a letto. Ho annotato sommariamente solo le cose più importanti,
e tutto il colore è sparito dal racconto. Se vado a trovarla
a Parigi, spero di saperne di più.”
Copertina.
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