I RACCONTI NON NASCONO
DAL NULLA
(Un’intervista
con Raymond Carver)
Claude
Grimal
Claude
Grimal: Perché hai scelto di scrivere racconti e non,
diciamo, romanzi?
Raymond Carver: Circostanze della vita. Ero molto giovane. Mi
sono sposato a diciotto anni. Mia moglie ne aveva diciassette
ed era incinta. Non avevo neanche un soldo, dovevamo lavorare
giorno e notte e crescere i nostri due bambini. Dovevo anche
andare al college a lezioni di scrittura e mi era impossibile
iniziare qualcosa che mi avesse portato via due o tre anni. Così mi
decisi a scrivere poesie e racconti. Potevo sedermi ad un tavolo,
iniziare qualcosa e finirla in un'unica seduta.
CG:
Ti consideri un buon poeta tanto quanto un buon scrittore di
racconti? Che rapporto c'è tra la tua prosa e la tua
poesia?
RC: I racconti sono più conosciuti, ma io personalmente
amo la mia poesia. Rapporto? Entrambi sono corti. (Ride) Li scrivo
nello stesso modo, e direi che l'effetto è simile. C'è una
compressione del linguaggio, dell'emozione non riscontrabile
nel romanzo. Ho spesso affermato che racconto e poesia sono più vicini
di quanto lo siano racconto e romanzo.
CG: Ti poni nello stesso modo nei confronti dell'immagine?
RC: Ah, l'immagine. Sai, non mi pare di centrare
le mie poesie o i miei racconti su un'immagine, come qualcuno
mi ha detto.
L'immagine emerge dalla storia e non il contrario. Quando scrivo
non penso per immagini.
CG: In quale tradizione poetica ti collochi?
RC: Vediamo… Wallace Stevens non mi interessa. Mi piace
William Carlos Williams, Robert Frost e un sacco di contemporanei:
Galway Kinnell, W.S. Merwin, Ted Hughes, C.K. Williams, Robert
Hass, e molti poeti contemporanei. Proprio ora c'è una
vera e propria rinascita nella poesia statunitense. E lo stesso
nella prosa, in particolare nei racconti.
CG: Per esempio?
RC: Ci sono un sacco di lavori eccellenti
in America. È un
buon momento per gli scrittori. I racconti vendono bene. C'è un
grandissimo numero di giovani talenti. Ho curato un'antologia, The Best American Short Stories 1986,
e ho scoperto scrittori di cui non avevo mai sentito niente,
e tutti molto bravi. Tra
i contemporanei ammiro Richard Ford, Tobias Wolff che è uno
scrittore di prima qualità, Jayne Anne Phillips per
alcuni dei suoi racconti, Ann Beattie, Barry Hannah, Grace
Paley, Harold
Brodkey, alcuni racconti di John Updike e Joyce Carol Oates.
L'inglese Ian McEwan. Mi piacciono anche alcuni racconti di
Amy Hempel, una scrittrice giovanissima. E Richard Yates, che
visse
in Francia negli anni Cinquanta.
CG: Stai pensando di scrivere un romanzo?
RC: Beh, ora come ora posso scrivere quello
che mi pare, non solo racconti, e quindi forse lo farò. Ho un contratto
per un'altra raccolta di racconti. La maggior parte sono già scritti,
uscirà in gennaio. Poi si vedrà. Dopo la prima
raccolta tutti volevano che scrivessi un romanzo. C'erano un
sacco di pressioni. Ho addirittura accettato un anticipo per
un romanzo e poi ho scritto racconti. Mah, non so, sto pensando
comunque a qualcosa di più lungo… potrebbe diventare
un romanzo. Non sento alcun obbligo di scrivere un romanzo. Scrivo
quello che voglio scrivere. Amo la libertà che ho ora.
Ho scritto poesie e saggi, anche saggi autobiografici, su John
Gardner che era il mio insegnante, su mio padre, sui miei problemi
con l'alcol, che ho superato nel 1977. Al momento il mio editore è contento,
i miei racconti vendono bene. Tutto va per il meglio.
CG: Che ne dici del fatto che in Francia di tutte
le tue collezioni di racconti la prima ad essere tradotta è stata
l'ultima che hai scritto?
RC: Beh, il vantaggio è che i racconti
di Cathedral (Cattedrale)
hanno un maggiore sviluppo e questo nuovo libro attrarrà lettori
che non erano interessati a What We Talk About When We Talk
About Love (Di cosa parliamo quando parliamo d'amore).
Non saprei… sì,
credo che l'editore ha fatto una buona scelta.
CG: Quindi pensi d'aver cambiato modo di scrivere tra il tuo
primo e il tuo ultimo libro?
RC: Sì, moltissimo. Lo stile è più pieno,
più generoso. Nel mio secondo libro, What We Talk
About When We Talk About Love, le storie sono fulminee, cortissime,
molto compresse, con pochissima emozione. Nel mio ultimo libro,
Cathedral, le storie hanno più respiro. Sono più piene,
forti, sviluppate e più fiduciose.
CG: L'hai fatto intenzionalmente?
RC: No, non intenzionalmente. Non ho piani,
ma sono cambiate le circostanze della vita. Ho smesso di bere
e forse ora che
sono più vecchio sono più fiducioso. Non so,
ma ritengo importante che uno scrittore cambi, che ci sia uno
sviluppo
naturale e non una decisione. Infatti, nei sei mesi successivi
alla stesura di un libro, non scrivo niente tranne qualche
poesia ed un saggio.
CG: Quando scrivi racconti, scrivi con l'idea di un
insieme, un intero che darà vita ad una collezione o
li consideri l'uno indipendente dall'altro?
RC: Li penso come un insieme. Li scrivo e un po' alla volta l'idea
di un intero prende forma.
CG: Come fai a scegliere il titolo delle tue collezioni?
RC: Di solito è il titolo del racconto migliore. Ma anche
il titolo più stimolante. What We Talk About When
We Talk About Love è un titolo affascinante.
CG: Quali sono i tuoi racconti preferiti?
RC: Cathedral e A Small, Good Thing.
Ci sono parecchi racconti che non mi piacciono più, ma non ti dirò quali.
Vorrei pubblicare una raccolta scelta ma non certo una collezione
completa dei racconti.
CG: A Small, Good Thing è nato dalla
riscrittura di un racconto precedente, The Bath, che si trova in What
We Talk About When We Talk About Love.
RC: Sì. The Bath apparve su
una rivista. Vinse non so più che premio ma la storia
mi intrigava. Non si sembrava conclusa. C'erano altre cose
da dire, e scrivendo Cathedral (non
ho mai scritto un libro così velocemente -detto di passaggio,
non ci ho messo più di diciotto mesi), mi accaddero
delle cose. Il racconto Cathedral mi sembrava completamente diverso
da tutto quanto avevo scritto prima. Mi trovavo in un periodo
generoso. Diedi un occhio a The Bath e lo trovai come
un dipinto incompiuto. Così lo riscrissi. Ora è molto
meglio. Qualcuno ci ha pure fatto un film, uno di Hollywood.
Anche gli
australiani hanno fatto un film da Feathers. Ho visto il primo
e sembrava buono, come il secondo del resto. Ci hanno messo il
pavone, il calco dei denti; molto divertente.
CG: Puoi dirmi qualcosa del finale dei tuoi racconti? Quello
di Cathedral per esempio?
RC: Beh, il personaggio è pieno di pregiudizi sui ciechi.
Cambia, cresce. Non ho mai scritto un racconto così. È il
primo che ho scritto dopo What We Talk About When We Talk
About Love e avevo lasciato passare sei mesi. Poi, quando
lo scrissi, sentii che era davvero diverso. Sentii un vero
impeto scrivendolo,
e non capita per tutti i racconti. Ma sentii d'aver attinto
da qualcosa. Il tutto era molto stimolante. Il personaggio
cambia.
Si mette nella situazione del cieco. Il racconto afferma qualcosa. È una
storia positiva e mi piace proprio per questo. La gente dice
che è una metafora per qualcos'altro, per l'arte, per
il fare… ma, no, io pensavo al contatto fisico della mano
del cieco con la sua. È del tutto immaginario. Non mi è mai
successo niente del genere. Beh, è stata una scoperta
straordinaria. Mi accadde lo stesso con A Small, Good Thing.
I genitori sono dal pasticcere. Non vorrei dire che il racconto
eleva l'anima, ma anche se lo facesse, finisce con una nota
positiva. La coppia è in grado di accettare la morte del figlio.
Ciò è positivo. C'è una comunione di destini.
Le due storie finiscono con una nota positiva e questo mi piace
moltissimo. Sarei felicissimo se queste due storie durassero
nel tempo.
CG: È importante l'elemento autobiografico
nelle tue storie?
RC: Lo è per gli scrittori che amo di più: Maupassant
e Cechov. Le storie devono nascere da qualche parte. Per lo meno è così in
quelle che amo. Vi devono essere dei riferimenti che vengono
dal mondo reale.
CG: Ciò vale per te quando scrivi, ma pensi
che la tua biografia possa aiutare il lettore?
RC: No, per niente. Semplicemente, uso degli
elementi autobiografici, un'immagine, una frase sentita o una
cosa vista o qualcosa che
ho fatto, e cerco di trasformarla in qualcos'altro. Sì,
c'è qualche elemento autobiografico e spero molta immaginazione.
Ma c'è sempre un elemento che fa scoccare una scintilla,
per Philip Roth, Tolstoj, Maupassant, per gli scrittori che amo.
I racconti non nascono dal nulla. C'è sempre una scintilla.
Queste sono le storie che mi interessano di più. Per
esempio, per Fat, mia moglie, la mia prima moglie,
faceva la cameriera e una sera tornò a casa e mi parlò di un cliente,
un uomo enorme, che parlava di se stesso al plurale: "Vorremmo
ancora un po' di pane… prendiamo il dessert speciale".
Rimasi colpito, era straordinario. Questa fu la scintilla che
fece nascere la storia. Scrissi il racconto anni dopo, ma non
dimenticai mai quanto mi aveva detto mia moglie. Molto più tardi,
quindi, mi misi al lavoro e mi domandai quale sarebbe stato
il modo migliore di raccontare questa storia. Una scelta deliberata.
Decisi di scrivere dal punto di vista della cameriera, non
di
mia moglie, della cameriera.
CG: Alla fine del racconto, la donna dice che la sua vita sta
cambiando, come lo spieghi?
RC: Non lo spiego. Anche lì ho voluto
mettere qualcosa di positivo, forse.
CG: Il racconto è al presente.
RC: Sì. È il tempo che mi sembrava più adatto.
Le quattro, cinque storie pubblicate l'anno scorso su The
New Yorker sono al presente. Non so perché. Una decisione
presa senza sapere perché. Parte della decisione si prende
da sé, ma non vorrei farti credere che sia qualcosa di
misterioso. È semplicemente così.
CG: Cerchi di scrivere nella parlata americana?
RC: Certo! A volte si dice che ho orecchio
per i dialoghi eccetera. Di sicuro non penso che la gente parli
come io scrivo. È come
Hemingway. Anche di lui si diceva avesse un buon orecchio, ma
si inventò tutto. La gente non parla a quel modo. È una
questione di ritmo.
CG: Che importanza dai ai dialoghi nei tuoi racconti?
RC: Sono importanti. Dovrebbero far procedere la storia o illuminare
un personaggio eccetera. Non amo la gente che parla senza motivo,
ma mi piacciono moltissimo i dialoghi tra persone che non si
ascoltano.
CG: Potresti parlarmi dei tuoi soggetti?
RC: Uno scrittore dovrebbe parlare delle cose
che ritiene importanti. Come sai, ho insegnato all'università per una quindicina
d'anni. Avevo il tempo per altri lavori e non ho mai scritto
un solo racconto sulla vita universitaria perché è un'esperienza
che non mi ha segnato a livello emozionale. Tendo a riandare
ai momenti e alle persone che conoscevo quand'ero più giovane
e che hanno lasciato una forte impressione su di me… alcuni
dei miei racconti recenti parlano di direttori. (Per esempio
quello ne The New Yorker, Whoever Was Using This
Bed, dove vengono
discussi temi che i personaggi dei miei racconti precedenti
non avrebbero mai discusso). È un uomo d'affari e così via.
Ma la maggior parte della gente nei miei racconti è povera
e smarrita, è vero. L'economia, ecco l'importante… Non
mi sento politicamente impegnato e tuttavia sono attaccato dai
critici statunitensi di destra perché non offro un quadro
più roseo dell'America, perché non sono abbastanza
ottimista e scrivo storie di persone che non riescono a farcela.
Ma queste vite valgono quanto quelle dei più intraprendenti.
Certo, io prendo per dato di fatto nella vita comune la disoccupazione,
i problemi di soldi e della vita matrimoniale. La gente si preoccupa
dell'affitto, dei figli, della vita familiare. Cose basilari.
Così vive l'80-90 percento o Dio solo sa quanta gente.
Parlo di una popolazione sommersa, gente che non sempre ha qualcuno
che parli per loro. Sono una specie di testimone, e d'altro canto,
questa è la vita che ho vissuto per un bel pezzo io
stesso. Non mi considero un portavoce ma un testimone di queste
vite.
Sono uno scrittore.
CG: Come scrivi i racconti e come li concludi?
RC: Per i finali, uno scrittore deve avere
un senso del drammatico. Non arrivi al finale miracolosamente.
Lo trovi rivedendo il racconto.
Ed io rivedo quindici, venti volte. Tengo le varie versioni… una
volta non lo facevo ma ora sì, per via dei collezionisti.
Amo il lavoro fisico dello scrivere. Non ho un computer, al suo
posto un dattilografo mi restituisce delle copie corrette… ed
io le vedo e le rivedo. Tolstoj ha scritto Guerra e Pace sette
volte e ha continuato a rivederlo fino all'ultimo momento prima
della stampa. Ho visto le foto delle bozze! Ammiro questa cura
per un lavoro ben fatto.
CG: Di sicuro quindi non ti piacerà Kerouac
il quale sosteneva d'aver scritto On the Road in un'unica tirata alla macchina da
scrivere, su un enorme rotolo di carta?
RC: Sì, anche se On the Road mi
piace molto. Il resto della sua opera, no. È illeggibile ed è invecchiata
malissimo.
CG: E forse Kerouac mentiva.
RC: Sì, gli scrittori sono dei gran
bugiardi. (Ride).
CG: Anche tu?
RC: (Ride) Oddio, no, non io. Sono l'unica eccezione.
CG: Quali sono gli scrittori che ti interessano?
RC: Quando insegnavo, sceglievo gli scrittori che amavo e che
erano utili alla mia condizione di giovane scrittore. Flaubert,
le lettere e le novelle, Maupassant (sul quale ho scritto una
poesia, Ask Him), Cechov, Flannery O'Connor, un romanzo
di William Gass e i suoi saggi critici, Eudora Welty…
CG: Ed Hemingway, al quale sei spesso paragonato?
RC: Di lui ho letto moltissimo. A diciannove,
vent'anni leggevo un sacco e Hemingway era parte delle mie
letture. Mi interessava
più di Faulkner per esempio, che leggevo nello stesso
periodo. Sono certo d'aver imparato da Hemingway, senza dubbio,
in particolare dai suoi primi lavori. Mi piacciono. Mi sento
onorato nel venir paragonato a lui. Per me i periodi di Hemingway
sono poesia. Hanno un ritmo, una cadenza. Posso rileggere i suoi
primi racconti e trovarli sempre straordinari. Mi infiammano
più che mai. È una scrittura meravigliosa. Egli
diceva che la prosa è architettura e che il barocco era
già finito. Fa per me. Flaubert disse quasi la stessa
cosa, che le parole sono pietre con le quali si costruiscono
muri. Ne sono straconvinto. Non amo quegli scrittori privi
di attenzione, le cui parole non sono ancorate, e sono scivolose.
CG: Ma tu stesso parli molto di segreti e poi non
dici mai di cosa si tratta. C'è una certa frustrazione nel lettore
a causa della discontinuità, diciamo, della non connessione
nel finale dei tuoi racconti. Deludi i lettori.
RC: Non so nemmeno io se so come scrivo i
miei racconti. Scrivo. Non ho piani. C'è qualcuno che riesce a dire che una storia
deve progredire, poi raggiungere un apice e così via.
Io, non so. Scrivo il miglior racconto che posso… il racconto
dovrebbe rivelare qualcosa ma non tutto. Ci dovrebbe essere un
certo mistero. Non voglio che il lettore si senta frustrato,
però è vero che creo un'aspettativa che poi non
soddisfo.
CG: Pensi ci sia del voyeurismo nei tuoi racconti? Spesso ci
sono persone che spiano delle altre, che sono affascinate dalla
vita dei vicini eccetera.
RC: Sì, è vero. Ma si può dire lo stesso
di tutta la narrativa. Scrivere è dire cose che normalmente
non si direbbero mai alla gente. (Ride). In Neighbors c'è voyeurismo
ed anche in The Idea, la coppia anziana e la carica
sessuale. Proprio così. E in Neighbors dopo
aver visto l'appartamento dei vicini la coppia è eccitata.
CG: Il sesso nei tuoi racconti sembra monotono o risvegliato
dall'osservazione della vita privata degli altri. Per esempio
in Feathers, in Neighbors…
RC: Ma non ce n'è molto di sesso nei miei racconti. I
racconti sono alquanto freddi, e così il sesso. È freddo,
non caldo. È vero che il sesso nei miei racconti, quando
c'è, si svolge fuori campo o in modo meccanico… ma,
non so.
CG: In The Idea metti insieme due cose che non sembrano andare
insieme: la coppia che spia i loro vicini e le formiche sotto
il lavello. Metti insieme cose che non sembrano avere nessuna
connessione.
RC: Sì, ma tale connessione sembra non solo possibile
ma anche inevitabile. Non so come spiegarlo. Ripeto, non ho un
piano quando scrivo. Iniziai a scrivere senza sapere che ci avrei
messo le formiche. Quando inizio non so dove vado a finire. Ma
a tal riguardo ho predecessori illustri. Quando fu chiesto ad
Hemingway se sapeva come avrebbe concluso un racconto quando
lo stava iniziando, rispose: "No, non ne ho idea".
Flannery O'Connor ha detto che scrivere è scoprire. Non
sapeva cosa accadeva tra una frase e un'altra. Ma come ho già detto,
non arrivi al finale per miracolo. Devi avere un senso drammatico.
E scopri il finale nella scrittura, o meglio, nella riscrittura,
dal momento che io credo nella riscrittura. Nella riscrittura,
il soggetto, o piuttosto, visto che la parola soggetto mi mette
un po' a disagio, diciamo è il senso della storia nella
riscrittura, il senso della storia, quindi, a cambiare un po'
di volta in volta.
CG: Sei in qualche modo al corrente di quanto viene scritto in
Francia?
RC: Mmm, no… non dal nouveau roman.
(Va bene, no?). Ma sembra che i racconti non siano popolari
in Francia. Mi è stato
detto che l'anno scorso sono stati pubblicati appena dieci
libri di racconti. Che succede? Con un predecessore come Maupassant!
(Intervista
concessa per la rivista La quinzaine littéraire, a Parigi,
nella primavera del 1987. Traduzione dall’Inglese di
Giampaolo Mattiello)
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