IL
RAGAZZO PIÙ TRISTE DEL MONDO
Caio
Fernando Abreu
a
Ronaldo Pamplona Costa
|
"Sono
quelli che arrivano dal nulla e partono diretti in
nessun luogo. Qualcuno che compare all'improvviso,
che nessuno sa da dove sia venuto né dove stia
andando. A
man out of nowhere" (Nelson Brissac
Peixoto: Cenários em Ruína) |
Un
acquario dalle acque torbide, la notte e la foschia notturna
nella quale navigano senza scorgermi, pesci ciechi, ignari
del loro inevitabile procedere l'uno in direzione dell'altro,
e verso
di me. In pieno inverno gelido, i primi chiarori dell'alba
di un agosto australe all'angolo dell'agenzia di pompe funebri,
e loro navigano tra punk, accattoni, luci al neon, prostitute
e gemiti di un sintetizzatore elettronico - suoni, alghe, acque
- alla deriva nello spazio che separa questo maledetto bar
dalle
tenebre del parco, nella città che non è né sarà mai
la loro. Perché le città, come gli incontri occasionali
e gli appartamenti affittati, sono fatte per essere abbandonate
- si trova a riflettere in questo suo navigare.
Lui: un uomo di quasi quarant'anni, che comincia a bere un
po' troppo, non molto, solo quanto basta per accendere l'emozione
ormai stanca, e a perdere capelli in cima alla testa, non molto,
ma quanto basta per dar adito a certe battute patetiche. Su
questo
spazio privo di peli in cima alla testa cadono gocce di umidità,
cristalli di nebbia, e al di sotto sorgono certi pensieri inebriati
di notte, di un po' d'alcool e di molta solitudine. Si accende
una sigaretta bagnata, alzando il bavero dell'impermeabile
grigio fino alle orecchie. In un gesto in cui la mano che stringe
la
sigaretta sfrega contro la barba aspra di tre giorni. Emette
allora un sospiro, gelido.
Ci sono tante altre cose che si potrebbero raccontare su quest'uomo
in questa notte torbida, in questo bar in cui sta entrando
ora, nella città che un tempo era la sua. Ma nella mia immobilità,
in fondo allo stesso bar nel quale lui sta entrando, senza un
passato, perché non hanno passato gli uomini di quasi
quarant'anni che camminano solitari ai primi albori del giorno
- queste cose un po' vaghe, un po' stupide, sono tutto ciò che
so dire su di lui. Così esile, bagnato, mezzo curvo per
la magrezza, freddo e alieno. Un estraneamento tipico degli uomini
di quasi quarant'anni che vagano raminghi nelle notti in città che,
avendo cessato di essere le loro, si fanno ancora più estranee
di qualsiasi altra.
Il bar ha le sembianze di un lungo corridoio polacco. Le pareti
sono demarcate - alla destra per chi entra, ma alla sinistra
da dove sto osservando - dal bancone lungo e, dal lato opposto,
dai comuni tavolini in fila indiana, fòrmica che imita
il marmo. Lungo questa linea, orizzontalmente estesa dalla porta
d'ingresso fino al juke-box in fondo da dove mi metto a spiarlo,
lui procede - magro, ricurvo, bagnato - tra l'ingarbugliamento
delle persone. Vestito di scuro, una massa nera, mostro vomitato
dalle onde notturne sulla sabbia sudicia del bar. In mezzo a
questi individui, benché vestito di grigio, sembra totalmente
bianco.
L’uomo ordina una birra al banco, poi si perde di nuovo
tra la gente. Allungando il collo, riesco a malapena ad accompagnare
l'estremità della sua testa di uomo slanciato, mezzo calvo,
finché non scopre la sedia vuota al tavolino dov'è seduto
quel ragazzo. Dal punto in cui mi trovo, accanto al juke-box
vicino al corridoio che sprofonda nella luce tetra dei luridi
gabinetti, riesco a vederli e sentirli perfettamente attraverso
il tanfo di birra, di deodorante sanitario e di piscio che
ci giungono mischiati fino alle narici.
Nel juke-box, per cullare questo incontro del cui avvento sono
ancora ignari, per aiutarli a navigare meglio all'interno di
ciò che ancora non ha un nome e che loro neppure saprebbero
vedere, se non fossi io ad aiutarli - sceglierei lenti blues,
sofferti assoli di sax, pianoforti lentissimi, sull'orlo dell'estasi,
clarinetti ansimanti e voci gravi, negre voci roche e aspre per
il fumo, ma vellutate da sorsi di bourbon o cognac, affinché tutto
fluisca nei toni dorati di altre acque, diverse da queste tanto
torbide, dalle quali sono emersi dal fondo della notte due
poveri pesci ciechi, per sempre ignari della mia presenza qui,
di fianco
al juke-box, accanto al corridoio che porta ai gabinetti luridi,
intento a creare chiarori impossibili e a cullare con canzoni
maledette questo incontro inaspettato, tanto per loro, che
navigano ciechi, quanto per me, pescatore senza amo ricurvo
sull'acqua
dello spazio che mi separa da loro.
L’altro, quello su cui ora si dirige il mio sguardo, quel
ragazzo di fronte al quale l'uomo dall'impermeabile grigio sta
seduto col bicchiere di birra. Esattamente questo: un ragazzo
di quasi vent'anni, che beve un po' troppo, non molto, come di
solito bevono quei ragazzi di quasi vent'anni ancora inconsapevoli
dei limiti e dei pericoli del gioco, con alcuni brufoli, non
molti, resti d'adolescenza sparsi su un viso bianchissimo, tra
fili dispersi di una barba che non ha ancora incontrato la giusta
forma definitiva già palese sul viso degli uomini di
quasi quarant'anni, come quello che gli sta di fronte. Dietro
quei
brufoli, tra i fili dispersi di barba informe, sorgono certi
pensieri - densi di nebbia, di un po' d'alcool e di molta solitudine.
Quel ragazzo si accende una sigaretta bagnata, quel ragazzo
abbassa il colletto della giacca nera, quel ragazzo rimuove
dal bavero
sgualcito un po' di cenere, alcuni capelli, polvere, gocce,
grilli. Poi sospira, gelido. Si guarda intorno come se non
vedesse niente,
nessuno. Nemmeno quest'uomo seduto di fronte a lui, che in
apparenza sembra anch'egli non vederlo.
Ci sono tante altre cose che si potrebbero raccontare su quel
ragazzo in questa notte fosca, nella città che è sempre
stata la sua, in questo bar dove ora sta seduto di fronte a un
uomo assolutamente sconosciuto. Ma nella mia immobilità,
in fondo allo stesso bar nel quale lui ora siede, col suo piccolo
passato probabilmente melanconico e futuro nessuno, perché è sempre
oscuro, quasi invisibile, il futuro dei ragazzi di meno di vent'anni
- queste cose un po' vaghe, un po' stupide, sono tutto ciò che
so dire su di lui. Così esile, bagnato, mezzo curvo per
la magrezza e il freddo. Con quell'estraneamento tipico dei ragazzi
che non hanno ancora appreso i pericoli né i piaceri del
gioco. Se è vero che si tratta di un gioco. Se potessi
essere il grande Giove Olimpo distruggerei la città con
fiammeggianti strati solo per vivere il momento del bagliore
elettrico del raggio lui dirà, quel ragazzo, in accordo
alla prevedibile arroganza della sua età. Non ora. Per
il momento non dice niente. Né lui né l'uomo di
quasi quarant'anni, seduti faccia a faccia al tavolino alla sinistra
da dove strategicamente spio, di fianco al jukebox, alla destra
di chi entra come sorgendo dal fondo dell'acquario dalle acque
torbide della notte e dalla nebbia notturna là fuori
nella quale navigano ciechi e storditi, prima di approdare
in questo
bar. Prima che li succhiassi con i miei occhi avidi di incontri
altrui per conferirgli una vita, anche questa precaria, di
carta, in cui anche Giove Olimpo, Oxalá, Tupi esercitano il loro
potere su simulacri predestinati.
No, non dicono nulla. Intorno vi è rumore sufficiente
per risparmiare loro ogni parola, forse amara. O chissà,
al contrario, anche latte intollerabile per la gola riarsa
di chi vaga nella notte come loro, come me, come noi. Si possono
differire le loro parole. Le mie no.
Per il momento, si guardano intorno. Deliberatamente non incrociano
gli sguardi. Sebbene siano tutti e due esili, un po' curvi
per tanta magrezza, umidi per la nebbia che c'è là fuori,
sebbene uno sia vestito di grigio e l'altro di nero, come esigono
i tempi, per non essere rifiutati, sebbene tutti e due bevano
birra un po' tiepida, ma poco importa quello che si beve in questo
bar, purché si beva, e stiano fumando sigarette ugualmente
stropicciate, quelle viziose sigarette tristi che solo uomini
notturni e solitari ricercano sul finire della notte in fondo
alle tasche dei soprabiti, che abbiano venti o quarant'anni.
Anno più, anno meno - gli uomini solitari non hanno età.
Sebbene gelidi, intontiti dall'alcool, tesi dal freddo, lucidi
di questa solitudine che perseguita come un destino gli uomini
senza passato né futuro, senza moglie né amici,
famiglia o averi - loro non si guardano.
Si ignorano. Consci del presentimento che - sto inventando,
sono Signore della mia invenzione assurda e stupidamente reale,
che
sto vivendo ora nelle mie stesse vene, mentre invento - se
cedessero reciprocamente alle loro solitudini, non rimarrà più alcuno
spazio per altre fughe come scopare e ubriacarsi con qualcuno
di cui due giorni dopo non si ricorderà la faccia, la
polvere sniffata all'angolo della strada, la pisciata sconcia
accanto al cameriere senza pudori, ma comprensivo con qualsiasi
tipo di sbronza altrui, un frenetico joint nel fango del parco.
Cose del genere, lo sapevate? Io sì, lo so: amare il proprio
io nell'altro a volte incatena, ma quando i corpi si toccano
le menti riescono a volare ben più in là dell'orizzonte,
che non si percepisce da qui, ma sarà chiaramente visibile:
quando i corpi si toccano dopo aver amato il proprio io nell'altro.
Per questo, non si guardano. E non sono io a decidere, ma loro.
Non si deve guardare quando guardare significa sporgersi su
uno specchio, forse infranto. Che può ferire, con i frammenti
deformanti. Proprio per questo esito, dunque, nel far cadere
la scelta su Bessie Smith o Louis Armstrong (tutto è immaginario
in questa notte, in questo bar, in questo juke-box ricolmo di
altre opzioni più in voga), per facilitare il flusso,
rendere di nuovo scorrevole il transito, per addolcire o inasprire
il tutto, pur nel timore che i ragazzi di meno di vent'anni non
siano ancora in grado di comprendere tali abissi colonizzati,
negre sottigliezze notturne di voci roche contro il velluto blu
che riveste le pareti di un altro luogo che non sia questo corridoio
polacco in una città di provincia di cui ho dimenticato,
abbiamo dimenticato, il nome. Sophistication, posa: fatica e
guanti lunghi fino al gomito.
La mia, la loro. Perché siamo tre e uno. Colui che vede
da fuori, colui che vede da lontano, colui che vede in anticipo.
Questo, la sua visione a priori. Noi tre, lo stesso orrore. Perché vediamo
da dentro, ingarbugliati gli uni agli altri. Adesso in quattro?
Perché è a questo punto che comincia. Ma comincia
in un modo così banale - come ti chiami, di che segno
sei, vuoi un'altra birra, hai una sigaretta, sono al verde, pago
io, lascia stare, cosa vieni a fare qui, così, per vedere
come gira, ci vieni sempre, fa un freddo cane che sono quasi
tentato di schiacciare il pulsante di ben altre melodie, altre
da quelle che immagino, così roche, perché al grido
teso di un basso elettrico possano impantanarsi nello stridore
della notte. Ma subito i due si ricompongono - questo uomo dall’impermeabile
grigio, quel ragazzo dal soprabito nero, seduti insieme allo
stesso tavolo - e senza che io ne fossi prevenuto, benché lo
fossi, perché fui io ad architettare questo agguato, d’improvviso
si guardano ben dentro e in fondo agli occhi. Accanto alla
massa in nero, mostro marino, in mezzo al fetore di piscio
e di birra,
tra le piastrelle bianche del bar, quasi un'enorme latrina
conficcata al centro della notte dove si sono persi - loro
si incontrano
e si guardano.
Si riconoscono, finalmente accettano di riconoscersi. Si accendono
le sigarette stropicciate, sicuri e con una certa tenerezza,
ancora timida. Si dividono delicatamente una birra. Si contemplano
con distanza, precisione, metodo, ordine, disciplina. Senza
sorpresa né desiderio, perché questo ragazzo dal soprabito
nero, barba irregolare e qualche brufolo non potrebbe essere
quello che quell'uomo con lo spazio privo di peli in cima alla
testa vorrebbe per sé, se volesse un altro uomo, come
forse vuole. Né il contrario: quel ragazzo, pur essendo
forse capace di tali audacie, non desidererebbe quest'uomo per
inventare follie col palmo delle mani nel silenzio della sua
stanza, certamente piena di gagliardetti, supereroi, adesivi
e tutte quelle vestigia di un tempo non ancora trascorso, quando è ancora
troppo presto per sapere se si desidera, fatalmente, un proprio
simile. Forse sì, chissà. Ma quest'uomo, quel ragazzo
- no. È in altri termini che tutto succede.
Loro si contemplano senza desiderio. Si contemplano dolci,
disarmati, complici, abbandonati, pungenti, severi, come compagni.
Compassionevoli.
Armano parole che giungono fino a me in frammenti scagliati
attraverso lo spazio che ci separa, in forma di interrogativi
placidi, esitanti,
domande che girano con cautela e incanto intorno a un riconoscimento
che ha smesso d'essere notturno per trasformarsi in una cosa
qualsiasi alla quale ancora non ho dato un nome, né so
se mai ne avrà uno, così luminosa che rischia di
accecare anche me. Sono io a contenere il verbo, mentre loro
adesso vedono ciò che a malapena sta per disegnarsi,
e che trovo bello.
Il ragazzo si guarda le braccia e dice: sono tanto magro, io,
vedi? Quando abbraccio una figliola - dice proprio
così,
una figliola, e l'uomo strizza l'occhio leggermente,
discreto, per non accentuare l'abisso di quasi vent'anni -
continuo a guardarmi
queste braccia fragili incapaci di abbracciare con forza una
donna, e allora comincio a immaginare muscoli che non ho, a
inventare una forza che non ho, perché sono tanto debole, tanto
magro, tanto giovane. Il ragazzo si guarda intorno brusco, sul
suo viso bianchissimo nessuna traccia di passione, e aggiunge:
voglio morire, non voglio continuare a vivere, non ho un padre,
mia madre mi picchia ogni giorno e dice svegliati, alzati, fannullone,
va' a lavorare. Voglio leggere poesie, non ho mai avuto un amico,
nessuno mi ha mai scritto una lettera. Di notte continuo a vagare
da un bar all'altro, ho paura di dormire, ho paura di svegliarmi,
finisco per giocare a biliardo tutta la notte e per andare a
dormire quando il sole si sveglia, completamente ubriaco. Sono
nato in un'epoca in cui tutto è finito, non ho futuro,
non credo in niente - no, questo non lo dice, ma io ascolto,
e così l'uomo che gli sta di fronte, e con lui tutto
il bar. Allora l'uomo risponde, con quella saggezza in parte
composta
che inevitabilmente raggiungono gli uomini di quasi quarant'anni.
Lui, l'uomo, si passa il palmo della mano nei rari capelli,
come accarezzando il tempo trascorso, e dice, l'uomo dice:
non aver
paura, passerà. Non aver paura, ragazzo. Troverai la strada
giusta, anche se la strada giusta non esiste. Ma troverai la
tua strada, ed è quello che conta. Se saprai tener duro,
potrà essere persino piacevole. L’uomo estrae dalla
tasca il portafogli, ordina un'altra birra e un pacchetto di
sigarette tutto nuovo, quindi guarda il ragazzo con occhi lucidi
e dice così. No, non dice niente. Fissa il ragazzo con
occhi lucidi. Indugiando a lungo, un uomo di quasi quarant'anni
guarda con occhi lucidi un ragazzo di quasi vent'anni, che non
aveva mai visto prima, nel mezzo di un bar sperduto in questa
città che non è più la loro. Mentre lo sta
guardando, così, con insistenza, l'uomo scopre quello
che io stesso scopro, nel medesimo istante.
Quel ragazzo dalla giacca scura, alcuni brufoli, barba irregolare
e pelle bianchissima - è il ragazzo più triste
del mondo.
E per rendere tutto ciò ancora più ridicolo, o
almeno improbabile, domani, che è già oggi, sarà la
Festa del Papà. Stordito da ricorrenze che niente significano
per chi non possiede nulla, neanche un figlio, ma per rinforzare
il lato solidale, l'uomo di quasi quarant'anni si mette a raccontare
che è venuto in questa città a trovare suo padre.
E glielo rivela così, con lo stesso tono desolato del
ragazzo che ora e per sempre sarà il ragazzo più triste
del mondo, come un tempo fu anche lui, e mai più sarà,
pur non cessando mai di esserlo, glielo dice così. Ma
non mi guardano, se ne stanno laggiù in quella sicurezza
carica di toni familiari che non ammette niente e nessuno capace
di turbare il suo falso sussiego, e non mi guardano, non mi vedono,
non sanno di me. Mi diluiscono, mi rendono invisibile, mi arginano
in quel limite insopportabile di ciò che hanno scelto
di sopportare, ed io non lo sopporto - riuscite a capirmi?
Il ragazzo di circa vent'anni non riesce quasi a capire. Ma
tende la mano attraverso il tavolino per toccare la mano dell'uomo
di quasi quarant'anni. Le dita di quest'uomo si stringono intorno
alle dita della mano di quel ragazzo. C'è tanta sete
dentro di loro, dentro di noi.
Trascorse molto tempo. Di lì a poco sarà giorno.
Fa più freddo. Il bar è mezzo vuoto, sta quasi
per chiudere. Sbracato sulla cassa, il proprietario dorme. Ho
già usato quasi tutte le monete: tutto è blues,
azzurro e dolore mansueto. Me ne resta solo una, che di certo
farò cadere su Tom Waits. Mi preparo. Intanto - mentre
i camerieri accatastano sedie sui tavoli vuoti, un poco irritati
con me, che tutto invento e alimento, e con questi due tipi strani,
perdutamente appassionati per qualcuno che non è l'altro,
ma potrebbe esserlo, se osassero tanto e non dovessero andarsene
- l'uomo rinsalda la presa intorno alle mani del ragazzo più triste
del mondo. Le quattro mani si stringono, si riscaldano, si
confondono, si confortano. Non un nero viscido mostro dei mari,
vomito del
mattino. Ma bianca stella marina. Pentacolo, madreperla. Ostrica
semiaperta che esibisce la nera perla strappata alla notte
e al male, puro blues. E dice, l'uomo dice:
"
Tu non esisti. Io non esisto. Ma sono tanto poderoso nella mia
arsura che ti ho inventato per spegnere la mia sete sconfinata.
Tu sei così potente nella tua fragilità che hai
inventato me per uccidere la tua sete. Ci siamo inventati l'un
l'altro perché eravamo tutto ciò di cui avevamo
bisogno per continuare a vivere. E poiché ci siamo inventati,
io ti conferisco ogni potere sopra il mio destino e tu mi conferisci
ogni potere sopra il tuo destino. Tu mi dai il tuo futuro, e
io ti offro il mio passato. Allora e in questo modo, siamo presente,
passato e futuro. Tempo infinito e unico, l'eternità".
Nel bar dalle sedie accatastate, resta solo quel tavolino dove
i due rimangono seduti, estranei alle rovine della scena. Dal
mio angolo, continuo a spiare. Ci dev'essere qualche puttana
distesa in un angolo, qualche frocetto che masturba un negro
nel bagno. Non li vedo. In questo momento, no. Dal mio angolino,
vedo soltanto questi uomini diversi e uguali, le quattro mani
strette sopra il tavolino ordinario, fòrmica che imita
il marmo.
È
allora che il ragazzo racconta che ha consegnato fiori tutto
il giorno, che ha tirato su un po' di grana, che quasi gli fottevano
un deca, e simili bazzecole, quelle cose da ragazzi di meno di
vent'anni - e insiste, magnifico, per offrire l'ultima birra.
Tutto è ultimo adesso. Non ci sono più bar aperti
in città. Una luce vitrea a poco a poco penetra la foschia
della notte nella quale sono ancora immersi insieme a me, insieme
a voi, pesci miopi con gli occhi sgranati per guardarsi da vicino,
in primo piano, e ci riescono. Belli, inquietanti: le branchie
fremono. L’uomo estrae di nuovo il portafogli pieno di
biglietti, assegni e tessere, di quei portafogli che solo gli
uomini di quasi quarant'anni sono riusciti a conquistare, ma
non significano niente in momenti come questi. Il ragazzo insiste,
l'uomo cede, lascio cadere l'ultima moneta nel juke-box, scelgo
l'ultimo blues. Nessuno vede, nessuno sente più niente
nel mattino che sorge per addormentare le follie. Domani, ricorderete
qualcosa voi?
Teneri, pallidi, reali: i due si guardano. Si accarezzano le
mani, poi le braccia, le spalle, il collo, il viso, i tratti
del viso, i capelli. Con quella dolcezza che nasce tra due
uomini soli nel mezzo di una notte gelida, mezzi ubriachi e
senza nessun'altra
risorsa se non quella di amarsi così, con più passione
di quella con cui si amerebbero se fossero a caccia di un altro
corpo, uguale o diverso dal loro - poco importa, tutto è sete.
Da dove mi trovo, vedo la loro anima brillare. Giallognolo, violetto
chiaro: una danza sui rifiuti. Accarezzandosi piangono. Un uomo
di quasi quarant'anni e un ragazzo di meno di venti, senza età tutti
e due.
Io sono quei due, io sono i tre, io sono noi quattro. Questi
due che si sono incontrati, quel terzo che spia e racconta,
il quarto che ascolta. Noi siamo uno - colui che cerca senza
trovare
e, quando trova, non può sopportare un incontro che smentisca
il suo supposto destino. È necessario che non esista
quello che cerca, altrimenti si dovrebbe ripercorrere tutto
l'itinerario
per introdurre Tui, l'Allegria. E l'allegria è il lago,
non l'acquario torbido, nebbia, parole sporche: Nettuno, quadratura.
E forse esiste, sì, per rimpiazzare la sete del tempo
che se n'è andato, del tempo che non è mai stato,
del tempo che si immagina, si inventa o si calcola. Del tempo,
insomma.
Questo strano potere demiurgico mi stordisce ancora più di
loro, quando si alzano e si abbracciano a lungo sulla porta
del bar, dopo aver pagato il conto. Amanti, parenti, simili:
estranei.
Allora il ragazzo se ne va, perché la sua strada è un'altra.
L’uomo rimane, perché la sua strada è un'altra.
Con lo sguardo accompagna la sagoma del ragazzo che se ne va,
esattamente con lo stesso sguardo con cui sto accompagnando la
sagoma di quest'uomo fermo per un istante sulla porta del bar.
E non resterà più li, perché questa città non è più la
sua. Il ragazzo sì, ci resterà, perché è in
questa stessa città che dovrà scegliere questa
cosa vaga - una strada, un destino, una Storia con l'esse maiuscola
- se è vero che si sceglie qualche cosa, per poi ucciderla,
questa cosa vaga e futura, quando sarà passata, se è vero
che si uccide qualche cosa. La voce roca di Tom Waits ripete
e ripete e ripete ancora che questo è il tempo, e che
verrà un tempo, come in un poema di T. S. Eliot, e sì,
verrà certamente, mentre l'ultimo cameriere tocca lievemente
la spalla di quell'uomo dall’impermeabile grigio, i capelli
sempre più rari in cima alla testa, di quasi quarant'anni,
fermo sulla porta del bar. Delicato, cordiale, col dito puntato
verso la sagoma del ragazzo più triste del mondo che
si allontana per prendere il primo autobus, il cameriere chiede:
"È suo figlio?"
Da dove mi trovo, accanto al juke-box ammutolito, mi giunge un
inspiegabile profumo di rose fresche. Come se stesse nascendo
il giorno e un'improvvisa primavera si insediasse nel parco
di fronte - niente contro la facilità dei finali. Prima che
l'uomo se ne vada, gli vedo nascere un sorriso arrendevole e
mentire quindi al cameriere dicendo sì, no, chissà.
E ciò che dirà, sarà vero. Come le mie parole.
Da qui dove rimango, so che continuiamo a essere tre e quattro.
Io loro padre, io loro figlio, io loro stessi, più ciascuno
di voi: noi quattro, un unico uomo sperduto nella notte, affondato
in questo acquario dalle acque torbide con i riflessi della
luce al neon. Pesce cieco, ignaro del mio inevitabile procedere
in
direzione all'altro che contemplo da lontano, con gli occhi
lucidi, senza il coraggio di toccarlo. Inebriato dalla notte,
da una
certa follia, un po' d'alcool e molta solitudine.
Voglio un altro whisky, un'altra pista. A poco a poco tutto
si fa giorno, e la vita - ah, la vita - può essere paura
e miele quando ti ci butti, e stai a guardare, anche da lontano.
No, non voglio e non ho bisogno di niente, se mi tocchi. Ti tendo
la mano.
Poi sospiro, gelido. E ti abbandono.
(Traduzione
di Bruno Persico)
Caio
Fernando Abreu
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