IL RAGAZZO PIÙ TRISTE DEL MONDO


Caio Fernando Abreu

a Ronaldo Pamplona Costa

 

 

"Sono quelli che arrivano dal nulla e partono diretti in nessun luogo. Qualcuno che compare all'improvviso, che nessuno sa da dove sia venuto né dove stia andando. A man out of nowhere" (Nelson Brissac Peixoto: Cenários em Ruína)

 

Un acquario dalle acque torbide, la notte e la foschia notturna nella quale navigano senza scorgermi, pesci ciechi, ignari del loro inevitabile procedere l'uno in direzione dell'altro, e verso di me. In pieno inverno gelido, i primi chiarori dell'alba di un agosto australe all'angolo dell'agenzia di pompe funebri, e loro navigano tra punk, accattoni, luci al neon, prostitute e gemiti di un sintetizzatore elettronico - suoni, alghe, acque - alla deriva nello spazio che separa questo maledetto bar dalle tenebre del parco, nella città che non è né sarà mai la loro. Perché le città, come gli incontri occasionali e gli appartamenti affittati, sono fatte per essere abbandonate - si trova a riflettere in questo suo navigare.
Lui: un uomo di quasi quarant'anni, che comincia a bere un po' troppo, non molto, solo quanto basta per accendere l'emozione ormai stanca, e a perdere capelli in cima alla testa, non molto, ma quanto basta per dar adito a certe battute patetiche. Su questo spazio privo di peli in cima alla testa cadono gocce di umidità, cristalli di nebbia, e al di sotto sorgono certi pensieri inebriati di notte, di un po' d'alcool e di molta solitudine. Si accende una sigaretta bagnata, alzando il bavero dell'impermeabile grigio fino alle orecchie. In un gesto in cui la mano che stringe la sigaretta sfrega contro la barba aspra di tre giorni. Emette allora un sospiro, gelido.
Ci sono tante altre cose che si potrebbero raccontare su quest'uomo in questa notte torbida, in questo bar in cui sta entrando ora, nella città che un tempo era la sua. Ma nella mia immobilità, in fondo allo stesso bar nel quale lui sta entrando, senza un passato, perché non hanno passato gli uomini di quasi quarant'anni che camminano solitari ai primi albori del giorno - queste cose un po' vaghe, un po' stupide, sono tutto ciò che so dire su di lui. Così esile, bagnato, mezzo curvo per la magrezza, freddo e alieno. Un estraneamento tipico degli uomini di quasi quarant'anni che vagano raminghi nelle notti in città che, avendo cessato di essere le loro, si fanno ancora più estranee di qualsiasi altra.
Il bar ha le sembianze di un lungo corridoio polacco. Le pareti sono demarcate - alla destra per chi entra, ma alla sinistra da dove sto osservando - dal bancone lungo e, dal lato opposto, dai comuni tavolini in fila indiana, fòrmica che imita il marmo. Lungo questa linea, orizzontalmente estesa dalla porta d'ingresso fino al juke-box in fondo da dove mi metto a spiarlo, lui procede - magro, ricurvo, bagnato - tra l'ingarbugliamento delle persone. Vestito di scuro, una massa nera, mostro vomitato dalle onde notturne sulla sabbia sudicia del bar. In mezzo a questi individui, benché vestito di grigio, sembra totalmente bianco.
L’uomo ordina una birra al banco, poi si perde di nuovo tra la gente. Allungando il collo, riesco a malapena ad accompagnare l'estremità della sua testa di uomo slanciato, mezzo calvo, finché non scopre la sedia vuota al tavolino dov'è seduto quel ragazzo. Dal punto in cui mi trovo, accanto al juke-box vicino al corridoio che sprofonda nella luce tetra dei luridi gabinetti, riesco a vederli e sentirli perfettamente attraverso il tanfo di birra, di deodorante sanitario e di piscio che ci giungono mischiati fino alle narici.
Nel juke-box, per cullare questo incontro del cui avvento sono ancora ignari, per aiutarli a navigare meglio all'interno di ciò che ancora non ha un nome e che loro neppure saprebbero vedere, se non fossi io ad aiutarli - sceglierei lenti blues, sofferti assoli di sax, pianoforti lentissimi, sull'orlo dell'estasi, clarinetti ansimanti e voci gravi, negre voci roche e aspre per il fumo, ma vellutate da sorsi di bourbon o cognac, affinché tutto fluisca nei toni dorati di altre acque, diverse da queste tanto torbide, dalle quali sono emersi dal fondo della notte due poveri pesci ciechi, per sempre ignari della mia presenza qui, di fianco al juke-box, accanto al corridoio che porta ai gabinetti luridi, intento a creare chiarori impossibili e a cullare con canzoni maledette questo incontro inaspettato, tanto per loro, che navigano ciechi, quanto per me, pescatore senza amo ricurvo sull'acqua dello spazio che mi separa da loro.
L’altro, quello su cui ora si dirige il mio sguardo, quel ragazzo di fronte al quale l'uomo dall'impermeabile grigio sta seduto col bicchiere di birra. Esattamente questo: un ragazzo di quasi vent'anni, che beve un po' troppo, non molto, come di solito bevono quei ragazzi di quasi vent'anni ancora inconsapevoli dei limiti e dei pericoli del gioco, con alcuni brufoli, non molti, resti d'adolescenza sparsi su un viso bianchissimo, tra fili dispersi di una barba che non ha ancora incontrato la giusta forma definitiva già palese sul viso degli uomini di quasi quarant'anni, come quello che gli sta di fronte. Dietro quei brufoli, tra i fili dispersi di barba informe, sorgono certi pensieri - densi di nebbia, di un po' d'alcool e di molta solitudine. Quel ragazzo si accende una sigaretta bagnata, quel ragazzo abbassa il colletto della giacca nera, quel ragazzo rimuove dal bavero sgualcito un po' di cenere, alcuni capelli, polvere, gocce, grilli. Poi sospira, gelido. Si guarda intorno come se non vedesse niente, nessuno. Nemmeno quest'uomo seduto di fronte a lui, che in apparenza sembra anch'egli non vederlo.
Ci sono tante altre cose che si potrebbero raccontare su quel ragazzo in questa notte fosca, nella città che è sempre stata la sua, in questo bar dove ora sta seduto di fronte a un uomo assolutamente sconosciuto. Ma nella mia immobilità, in fondo allo stesso bar nel quale lui ora siede, col suo piccolo passato probabilmente melanconico e futuro nessuno, perché è sempre oscuro, quasi invisibile, il futuro dei ragazzi di meno di vent'anni - queste cose un po' vaghe, un po' stupide, sono tutto ciò che so dire su di lui. Così esile, bagnato, mezzo curvo per la magrezza e il freddo. Con quell'estraneamento tipico dei ragazzi che non hanno ancora appreso i pericoli né i piaceri del gioco. Se è vero che si tratta di un gioco. Se potessi essere il grande Giove Olimpo distruggerei la città con fiammeggianti strati solo per vivere il momento del bagliore elettrico del raggio lui dirà, quel ragazzo, in accordo alla prevedibile arroganza della sua età. Non ora. Per il momento non dice niente. Né lui né l'uomo di quasi quarant'anni, seduti faccia a faccia al tavolino alla sinistra da dove strategicamente spio, di fianco al jukebox, alla destra di chi entra come sorgendo dal fondo dell'acquario dalle acque torbide della notte e dalla nebbia notturna là fuori nella quale navigano ciechi e storditi, prima di approdare in questo bar. Prima che li succhiassi con i miei occhi avidi di incontri altrui per conferirgli una vita, anche questa precaria, di carta, in cui anche Giove Olimpo, Oxalá, Tupi esercitano il loro potere su simulacri predestinati.
No, non dicono nulla. Intorno vi è rumore sufficiente per risparmiare loro ogni parola, forse amara. O chissà, al contrario, anche latte intollerabile per la gola riarsa di chi vaga nella notte come loro, come me, come noi. Si possono differire le loro parole. Le mie no.
Per il momento, si guardano intorno. Deliberatamente non incrociano gli sguardi. Sebbene siano tutti e due esili, un po' curvi per tanta magrezza, umidi per la nebbia che c'è là fuori, sebbene uno sia vestito di grigio e l'altro di nero, come esigono i tempi, per non essere rifiutati, sebbene tutti e due bevano birra un po' tiepida, ma poco importa quello che si beve in questo bar, purché si beva, e stiano fumando sigarette ugualmente stropicciate, quelle viziose sigarette tristi che solo uomini notturni e solitari ricercano sul finire della notte in fondo alle tasche dei soprabiti, che abbiano venti o quarant'anni. Anno più, anno meno - gli uomini solitari non hanno età. Sebbene gelidi, intontiti dall'alcool, tesi dal freddo, lucidi di questa solitudine che perseguita come un destino gli uomini senza passato né futuro, senza moglie né amici, famiglia o averi - loro non si guardano.
Si ignorano. Consci del presentimento che - sto inventando, sono Signore della mia invenzione assurda e stupidamente reale, che sto vivendo ora nelle mie stesse vene, mentre invento - se cedessero reciprocamente alle loro solitudini, non rimarrà più alcuno spazio per altre fughe come scopare e ubriacarsi con qualcuno di cui due giorni dopo non si ricorderà la faccia, la polvere sniffata all'angolo della strada, la pisciata sconcia accanto al cameriere senza pudori, ma comprensivo con qualsiasi tipo di sbronza altrui, un frenetico joint nel fango del parco. Cose del genere, lo sapevate? Io sì, lo so: amare il proprio io nell'altro a volte incatena, ma quando i corpi si toccano le menti riescono a volare ben più in là dell'orizzonte, che non si percepisce da qui, ma sarà chiaramente visibile: quando i corpi si toccano dopo aver amato il proprio io nell'altro.
Per questo, non si guardano. E non sono io a decidere, ma loro. Non si deve guardare quando guardare significa sporgersi su uno specchio, forse infranto. Che può ferire, con i frammenti deformanti. Proprio per questo esito, dunque, nel far cadere la scelta su Bessie Smith o Louis Armstrong (tutto è immaginario in questa notte, in questo bar, in questo juke-box ricolmo di altre opzioni più in voga), per facilitare il flusso, rendere di nuovo scorrevole il transito, per addolcire o inasprire il tutto, pur nel timore che i ragazzi di meno di vent'anni non siano ancora in grado di comprendere tali abissi colonizzati, negre sottigliezze notturne di voci roche contro il velluto blu che riveste le pareti di un altro luogo che non sia questo corridoio polacco in una città di provincia di cui ho dimenticato, abbiamo dimenticato, il nome. Sophistication, posa: fatica e guanti lunghi fino al gomito.
La mia, la loro. Perché siamo tre e uno. Colui che vede da fuori, colui che vede da lontano, colui che vede in anticipo. Questo, la sua visione a priori. Noi tre, lo stesso orrore. Perché vediamo da dentro, ingarbugliati gli uni agli altri. Adesso in quattro?
Perché è a questo punto che comincia. Ma comincia in un modo così banale - come ti chiami, di che segno sei, vuoi un'altra birra, hai una sigaretta, sono al verde, pago io, lascia stare, cosa vieni a fare qui, così, per vedere come gira, ci vieni sempre, fa un freddo cane che sono quasi tentato di schiacciare il pulsante di ben altre melodie, altre da quelle che immagino, così roche, perché al grido teso di un basso elettrico possano impantanarsi nello stridore della notte. Ma subito i due si ricompongono - questo uomo dall’impermeabile grigio, quel ragazzo dal soprabito nero, seduti insieme allo stesso tavolo - e senza che io ne fossi prevenuto, benché lo fossi, perché fui io ad architettare questo agguato, d’improvviso si guardano ben dentro e in fondo agli occhi. Accanto alla massa in nero, mostro marino, in mezzo al fetore di piscio e di birra, tra le piastrelle bianche del bar, quasi un'enorme latrina conficcata al centro della notte dove si sono persi - loro si incontrano e si guardano.
Si riconoscono, finalmente accettano di riconoscersi. Si accendono le sigarette stropicciate, sicuri e con una certa tenerezza, ancora timida. Si dividono delicatamente una birra. Si contemplano con distanza, precisione, metodo, ordine, disciplina. Senza sorpresa né desiderio, perché questo ragazzo dal soprabito nero, barba irregolare e qualche brufolo non potrebbe essere quello che quell'uomo con lo spazio privo di peli in cima alla testa vorrebbe per sé, se volesse un altro uomo, come forse vuole. Né il contrario: quel ragazzo, pur essendo forse capace di tali audacie, non desidererebbe quest'uomo per inventare follie col palmo delle mani nel silenzio della sua stanza, certamente piena di gagliardetti, supereroi, adesivi e tutte quelle vestigia di un tempo non ancora trascorso, quando è ancora troppo presto per sapere se si desidera, fatalmente, un proprio simile. Forse sì, chissà. Ma quest'uomo, quel ragazzo - no. È in altri termini che tutto succede.
Loro si contemplano senza desiderio. Si contemplano dolci, disarmati, complici, abbandonati, pungenti, severi, come compagni. Compassionevoli. Armano parole che giungono fino a me in frammenti scagliati attraverso lo spazio che ci separa, in forma di interrogativi placidi, esitanti, domande che girano con cautela e incanto intorno a un riconoscimento che ha smesso d'essere notturno per trasformarsi in una cosa qualsiasi alla quale ancora non ho dato un nome, né so se mai ne avrà uno, così luminosa che rischia di accecare anche me. Sono io a contenere il verbo, mentre loro adesso vedono ciò che a malapena sta per disegnarsi, e che trovo bello.
Il ragazzo si guarda le braccia e dice: sono tanto magro, io, vedi? Quando abbraccio una figliola - dice proprio così, una figliola, e l'uomo strizza l'occhio leggermente, discreto, per non accentuare l'abisso di quasi vent'anni - continuo a guardarmi queste braccia fragili incapaci di abbracciare con forza una donna, e allora comincio a immaginare muscoli che non ho, a inventare una forza che non ho, perché sono tanto debole, tanto magro, tanto giovane. Il ragazzo si guarda intorno brusco, sul suo viso bianchissimo nessuna traccia di passione, e aggiunge: voglio morire, non voglio continuare a vivere, non ho un padre, mia madre mi picchia ogni giorno e dice svegliati, alzati, fannullone, va' a lavorare. Voglio leggere poesie, non ho mai avuto un amico, nessuno mi ha mai scritto una lettera. Di notte continuo a vagare da un bar all'altro, ho paura di dormire, ho paura di svegliarmi, finisco per giocare a biliardo tutta la notte e per andare a dormire quando il sole si sveglia, completamente ubriaco. Sono nato in un'epoca in cui tutto è finito, non ho futuro, non credo in niente - no, questo non lo dice, ma io ascolto, e così l'uomo che gli sta di fronte, e con lui tutto il bar. Allora l'uomo risponde, con quella saggezza in parte composta che inevitabilmente raggiungono gli uomini di quasi quarant'anni.
Lui, l'uomo, si passa il palmo della mano nei rari capelli, come accarezzando il tempo trascorso, e dice, l'uomo dice: non aver paura, passerà. Non aver paura, ragazzo. Troverai la strada giusta, anche se la strada giusta non esiste. Ma troverai la tua strada, ed è quello che conta. Se saprai tener duro, potrà essere persino piacevole. L’uomo estrae dalla tasca il portafogli, ordina un'altra birra e un pacchetto di sigarette tutto nuovo, quindi guarda il ragazzo con occhi lucidi e dice così. No, non dice niente. Fissa il ragazzo con occhi lucidi. Indugiando a lungo, un uomo di quasi quarant'anni guarda con occhi lucidi un ragazzo di quasi vent'anni, che non aveva mai visto prima, nel mezzo di un bar sperduto in questa città che non è più la loro. Mentre lo sta guardando, così, con insistenza, l'uomo scopre quello che io stesso scopro, nel medesimo istante.
Quel ragazzo dalla giacca scura, alcuni brufoli, barba irregolare e pelle bianchissima - è il ragazzo più triste del mondo.
E per rendere tutto ciò ancora più ridicolo, o almeno improbabile, domani, che è già oggi, sarà la Festa del Papà. Stordito da ricorrenze che niente significano per chi non possiede nulla, neanche un figlio, ma per rinforzare il lato solidale, l'uomo di quasi quarant'anni si mette a raccontare che è venuto in questa città a trovare suo padre. E glielo rivela così, con lo stesso tono desolato del ragazzo che ora e per sempre sarà il ragazzo più triste del mondo, come un tempo fu anche lui, e mai più sarà, pur non cessando mai di esserlo, glielo dice così. Ma non mi guardano, se ne stanno laggiù in quella sicurezza carica di toni familiari che non ammette niente e nessuno capace di turbare il suo falso sussiego, e non mi guardano, non mi vedono, non sanno di me. Mi diluiscono, mi rendono invisibile, mi arginano in quel limite insopportabile di ciò che hanno scelto di sopportare, ed io non lo sopporto - riuscite a capirmi?
Il ragazzo di circa vent'anni non riesce quasi a capire. Ma tende la mano attraverso il tavolino per toccare la mano dell'uomo di quasi quarant'anni. Le dita di quest'uomo si stringono intorno alle dita della mano di quel ragazzo. C'è tanta sete dentro di loro, dentro di noi.
Trascorse molto tempo. Di lì a poco sarà giorno. Fa più freddo. Il bar è mezzo vuoto, sta quasi per chiudere. Sbracato sulla cassa, il proprietario dorme. Ho già usato quasi tutte le monete: tutto è blues, azzurro e dolore mansueto. Me ne resta solo una, che di certo farò cadere su Tom Waits. Mi preparo. Intanto - mentre i camerieri accatastano sedie sui tavoli vuoti, un poco irritati con me, che tutto invento e alimento, e con questi due tipi strani, perdutamente appassionati per qualcuno che non è l'altro, ma potrebbe esserlo, se osassero tanto e non dovessero andarsene - l'uomo rinsalda la presa intorno alle mani del ragazzo più triste del mondo. Le quattro mani si stringono, si riscaldano, si confondono, si confortano. Non un nero viscido mostro dei mari, vomito del mattino. Ma bianca stella marina. Pentacolo, madreperla. Ostrica semiaperta che esibisce la nera perla strappata alla notte e al male, puro blues. E dice, l'uomo dice:
" Tu non esisti. Io non esisto. Ma sono tanto poderoso nella mia arsura che ti ho inventato per spegnere la mia sete sconfinata. Tu sei così potente nella tua fragilità che hai inventato me per uccidere la tua sete. Ci siamo inventati l'un l'altro perché eravamo tutto ciò di cui avevamo bisogno per continuare a vivere. E poiché ci siamo inventati, io ti conferisco ogni potere sopra il mio destino e tu mi conferisci ogni potere sopra il tuo destino. Tu mi dai il tuo futuro, e io ti offro il mio passato. Allora e in questo modo, siamo presente, passato e futuro. Tempo infinito e unico, l'eternità".
Nel bar dalle sedie accatastate, resta solo quel tavolino dove i due rimangono seduti, estranei alle rovine della scena. Dal mio angolo, continuo a spiare. Ci dev'essere qualche puttana distesa in un angolo, qualche frocetto che masturba un negro nel bagno. Non li vedo. In questo momento, no. Dal mio angolino, vedo soltanto questi uomini diversi e uguali, le quattro mani strette sopra il tavolino ordinario, fòrmica che imita il marmo.
È allora che il ragazzo racconta che ha consegnato fiori tutto il giorno, che ha tirato su un po' di grana, che quasi gli fottevano un deca, e simili bazzecole, quelle cose da ragazzi di meno di vent'anni - e insiste, magnifico, per offrire l'ultima birra. Tutto è ultimo adesso. Non ci sono più bar aperti in città. Una luce vitrea a poco a poco penetra la foschia della notte nella quale sono ancora immersi insieme a me, insieme a voi, pesci miopi con gli occhi sgranati per guardarsi da vicino, in primo piano, e ci riescono. Belli, inquietanti: le branchie fremono. L’uomo estrae di nuovo il portafogli pieno di biglietti, assegni e tessere, di quei portafogli che solo gli uomini di quasi quarant'anni sono riusciti a conquistare, ma non significano niente in momenti come questi. Il ragazzo insiste, l'uomo cede, lascio cadere l'ultima moneta nel juke-box, scelgo l'ultimo blues. Nessuno vede, nessuno sente più niente nel mattino che sorge per addormentare le follie. Domani, ricorderete qualcosa voi?
Teneri, pallidi, reali: i due si guardano. Si accarezzano le mani, poi le braccia, le spalle, il collo, il viso, i tratti del viso, i capelli. Con quella dolcezza che nasce tra due uomini soli nel mezzo di una notte gelida, mezzi ubriachi e senza nessun'altra risorsa se non quella di amarsi così, con più passione di quella con cui si amerebbero se fossero a caccia di un altro corpo, uguale o diverso dal loro - poco importa, tutto è sete. Da dove mi trovo, vedo la loro anima brillare. Giallognolo, violetto chiaro: una danza sui rifiuti. Accarezzandosi piangono. Un uomo di quasi quarant'anni e un ragazzo di meno di venti, senza età tutti e due.
Io sono quei due, io sono i tre, io sono noi quattro. Questi due che si sono incontrati, quel terzo che spia e racconta, il quarto che ascolta. Noi siamo uno - colui che cerca senza trovare e, quando trova, non può sopportare un incontro che smentisca il suo supposto destino. È necessario che non esista quello che cerca, altrimenti si dovrebbe ripercorrere tutto l'itinerario per introdurre Tui, l'Allegria. E l'allegria è il lago, non l'acquario torbido, nebbia, parole sporche: Nettuno, quadratura. E forse esiste, sì, per rimpiazzare la sete del tempo che se n'è andato, del tempo che non è mai stato, del tempo che si immagina, si inventa o si calcola. Del tempo, insomma.
Questo strano potere demiurgico mi stordisce ancora più di loro, quando si alzano e si abbracciano a lungo sulla porta del bar, dopo aver pagato il conto. Amanti, parenti, simili: estranei.
Allora il ragazzo se ne va, perché la sua strada è un'altra. L’uomo rimane, perché la sua strada è un'altra. Con lo sguardo accompagna la sagoma del ragazzo che se ne va, esattamente con lo stesso sguardo con cui sto accompagnando la sagoma di quest'uomo fermo per un istante sulla porta del bar. E non resterà più li, perché questa città non è più la sua. Il ragazzo sì, ci resterà, perché è in questa stessa città che dovrà scegliere questa cosa vaga - una strada, un destino, una Storia con l'esse maiuscola - se è vero che si sceglie qualche cosa, per poi ucciderla, questa cosa vaga e futura, quando sarà passata, se è vero che si uccide qualche cosa. La voce roca di Tom Waits ripete e ripete e ripete ancora che questo è il tempo, e che verrà un tempo, come in un poema di T. S. Eliot, e sì, verrà certamente, mentre l'ultimo cameriere tocca lievemente la spalla di quell'uomo dall’impermeabile grigio, i capelli sempre più rari in cima alla testa, di quasi quarant'anni, fermo sulla porta del bar. Delicato, cordiale, col dito puntato verso la sagoma del ragazzo più triste del mondo che si allontana per prendere il primo autobus, il cameriere chiede:
"È suo figlio?"
Da dove mi trovo, accanto al juke-box ammutolito, mi giunge un inspiegabile profumo di rose fresche. Come se stesse nascendo il giorno e un'improvvisa primavera si insediasse nel parco di fronte - niente contro la facilità dei finali. Prima che l'uomo se ne vada, gli vedo nascere un sorriso arrendevole e mentire quindi al cameriere dicendo sì, no, chissà. E ciò che dirà, sarà vero. Come le mie parole. Da qui dove rimango, so che continuiamo a essere tre e quattro. Io loro padre, io loro figlio, io loro stessi, più ciascuno di voi: noi quattro, un unico uomo sperduto nella notte, affondato in questo acquario dalle acque torbide con i riflessi della luce al neon. Pesce cieco, ignaro del mio inevitabile procedere in direzione all'altro che contemplo da lontano, con gli occhi lucidi, senza il coraggio di toccarlo. Inebriato dalla notte, da una certa follia, un po' d'alcool e molta solitudine.
Voglio un altro whisky, un'altra pista. A poco a poco tutto si fa giorno, e la vita - ah, la vita - può essere paura e miele quando ti ci butti, e stai a guardare, anche da lontano.
No, non voglio e non ho bisogno di niente, se mi tocchi. Ti tendo la mano.
Poi sospiro, gelido. E ti abbandono.

(Traduzione di Bruno Persico)


Caio Fernando Abreu

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