ALLUNAGGIO
DI UN IMMIGRATO INNAMORATO
Butcovan
Mihai Mircea
I
Bucarest, quasi Giubileo
Cara Daisy,
ho ricevuto soltanto ieri la tua lettera ed eccomi qua, affrettato
come non mai, a tentare una, spero breve, risposta.
Piacere, masochistico piacere!
Ho cercato per una colazione intera stamattina una definizione
di ciò che provai leggendo le tue mnemoniche accuse.
Come sei bella incazzata e come ti amerei ancora se tu non
fossi proprio così!
A dire il vero ho impiegato non poco tempo per convincermi
che il destinatario di tanto veleno – iniettato con altrettanta
veemenza nel gambo di una innocente sequenza di carta da lettere,
busta da lettere, soprascritta, francobollo padano, odiato
destino, buca delle lettere, ufficio postale lumaca, frustrato
postino, ignaromenottambulo recapito sottoscritto – che
il destinatario di tutto questo fossi io. Tiriamo il fiato
insieme.
Ma davvero è così facile buttare via diciotto
mesi e venticinque anni (è questo l’esatto computo
del nostro stare insieme!) d’amore vero e sincero?
Perché io ho cominciato ad amarti un quarto di secolo
prima di incontrarti ed ho smesso poco prima che ci lasciassimo
come tu ben sai o meglio fraintendi.
Facciamo pace? Sì, ma almeno litighiamo come si deve.
Ormai una cena insieme a te cambierebbe il menù delle
nostre vite?
Anch’io vorrei un tetto, un divano, una colonna sonora
ma non troppo e birra per macchiarsi la camicia, togliersela
ed aspettare che s’asciughi nel tuo letto.
Per mesi e mesi ho sognato «insieme al cinema, sfiorarsi
al buio e pensare che pensi lo stesso».
Vuoi sposarti? Fai molto bene, pensaci su, io stasera sono
impegnato.
Prometti di non farlo più. Va bene, ma per esserne sicuri
non ti darò più l’occasione.
Hai compilato un catalogo di offese ed improperi degno della
più grande casa editrice nel centesimo anniversario
della fondazione.
Invidio la tua capacità di trovare metafore originali
ma sono stato io il tuo ispiratore, il tuo souffleur.
Dici che non hai faticato neanche tanto per trovare espressioni
come, in ordine alfabetico: ‘amante sillogistico’, ‘barbone
da promemoria tributaria’, ‘bodyguard con un solo
pallino… quello degli studi filosofici’, ‘corvo
dell’interculturalità’, ‘dandy senza
patente’, ‘fidanzato da Oktober Fest’, ‘iena
bibliotecaria’, ‘marxista sessuomane’, ‘palestrato
d’osteria’, ‘parassita fotocopiatore’, ‘poeta
da corte marziale’, ‘pseudocomunista che sputa
nel proprio encefalogramma’, ‘robocop del terzo
mondo’, ‘romeno da carodiario’, ‘rubacuori
con la chiave inglese’, ‘seminarista viziato e
vescovo mancato’, ‘terrone romeno di radici neolatine’ (questo
però te l’avevo spiegato io!), ‘transilvano
da crociera’, ‘vampiro birraiolo’. Tira il
fiato!
Interessanti come abbinamenti concettuali e come ritratto di
uno che dicevi d’amare!
Tu, esperta di informatica, non hai salvato niente, proprio
niente, di quello che è stato fra noi. Grave errore!
I dati si perdono ma il mio disco fisso, pieno di chiodi, fungerà da
memoria eterna per ambedue. E allora non posso fare a meno
di ricordare e, perché no?, ricordarti.
Il dado è stato tratto… dal minestrone del più povero.
E parlo io. E rispondo.
II
Sono atterrato stanotte con un volo da Milano. La tua missiva
l’ho letta sull' aereo e sono stato male. Sono abituato
col treno.
No, non vado subito a casa, in Transilvania, perché devo
sbrigare alcune pratiche all’Istituto di Cultura Italo-Romeno.
Soliti attestati per l’università: diploma di
maturità, curriculum scolastico, stato di famiglia e
reddito percepito all’estero ‘anche se non imponibile
ai fini Irpef’.
Irpef, credevo fosse una divinità pagana o padana, invece
mi dicono che è romana…
Il tutto rigorosamente in traduzione giurata. E non ho conoscenze
ai vari ministeri. E neanche alla dogana.
Così ho dovuto lasciare in aeroporto le cassette che
avevo registrato per il papà. Piccoli racconti del grande
mondo, per lui che non può più leggere e che
ascolta volentieri con un walkman che «non è facile
maneggiare per quelli del ventotto». Che!
Mi restituiranno i nastri domani, dopo il controllo dei servizi
di sicurezza.
Intanto per far passare i regali (cappellino della Ferrari
su richiesta di Marius, mio fratello trentacinquenne, mixer
da cucina per la sorella, uno scaffale di dolci per le cinque
nipotine, tre lumini del giubileo per mia madre, Stefan e Iulian,
da accendere per loro al cimitero in collina) ho dovuto ‘muovere
le orecchie’, come si dice da noi.
Dopo otto anni di soggiorno nel Belpaese ed appena tre rientri
in patria avevo preparato tutto; sigarette, tavolette di cioccolato,
lines for lady e caffè sono molto graditi dai doganieri
e rispettive signore. Loro chiudono un occhio (mai due!) e
tu devi essere riconoscente.
E poi ti sorridono, forzatamente complici e comprensivi, perché un
romeno non sta quasi il decennio in Occidente «se non
c’ha motivo».
Non hanno visto la tua foto nel portafoglio. Soltanto i dollari,
maledetti dollari!
Il tassista, appreso che studio a Milano, m’ha chiesto
se fossi parente di un certo ministro. Ho risposto affermativo,
quindi ho mentito per farmi fare lo sconto, anche se non capiva
perché andassi in albergo. Improvvisai un gesto più italiano
che romeno ma con significato da villaggio globale.
«
Fai bene, sei giovane!» rispose con aria da Guido ramazzottiano,
insistendo perché prendessi il resto.
III
In un albergo come questo non devi dare nessuna mancia. Semmai
te la danno loro col premio per l’ospite dell’anno.
L’unico.
Per quello che pago va benissimo, e poi sono più allenato
per questo ‘lusso’ che per altri. Col buio stanotte
era meno squallido e l’unico incubo me lo ha provocato
la tua lettera.
Non ho letto i giornali romeni stamattina. Penso a te.
«
Per me la storia è chiusa!» dicesti, e dopo due
anni ti fai viva con prepotenza epistolare.
E tutte le volte che ti telefonavo per il compleanno e mi liquidavi
con «sto benissimo, andiamo a festeggiare in un locale
sui Navigli, non ti piacerebbe di sicuro»?
Nemmeno le vacanze in patria le posso fare da solo. Che poi
chiamale vacanze!
Devo sbrigare le faccende burocratiche di cui sopra. Devo raccogliere
materiale per la tesi di diploma.
Vorrei passare un po’ di tempo col papà. Abbiamo
tante cose da raccontarci e le cassette che gli mando mensilmente
non contengono neanche la metà di ciò che vorrei
condividere con lui.
Vorrei affogare per almeno tre giorni nella cucina di mia sorella
Felicia che, ogni volta che torno a casa, si prodiga nella
preparazione di tutte le delizie che adoravo da bambino. Quindi
sarmalute, pancove cu vin, sunca de porc, spuma de capsuni
e tanto altro per mettere in crisi il mio fegato ormai abituato
a ritmi anticolesterolo.
Vorrei rivedere gli amici d’infanzia, i compagni di scuola
descritti da Venditti, quelli che si sono ‘salvati dal
fumo delle barricate’, i vicini di casa che m’insegnarono
l’ungherese, la mia Magura, collina del nostro scoutismo
adolescenziale e puberale.
Invece sono qui, in un albergo bucarestino, a scrivere risposte
da cittadino che si avvale dei suoi diritti, tra i quali il
celebre (e popolare perché a portata di tutti) di restare
in silenzio.
Tanta è la voglia di rimanere in silenzio di fronte
alle tue accuse, tanta la fatica di non riuscirci.
Gli uffici che avrei dovuto visitare sono chiusi per una neo-festa
nazionale coincidente col week-end, che ha sapore d’importazione
genere Halloween a Sesto San Giovanni.
Aspetterò il lunedì nel Bucuresti del mio servizio
militare, prima esperienza di emigrazione di una lunga serie
di cui non si intravede ancora il finale.
E questa volta non penso ad una fidanzata ungherese lasciata
nella mia verde Transilvania, bensì alla dolce e beneamata
ex-fidanzata italiana che mi lasciò e si fece lasciare
nella sua, ed ormai mia, altrettanto verde ma un po’ più ricca,
Brianza.
Ne ho fatta di strada negli ultimi nove anni. Ma Daisy no,
non ti lascerò senza una risposta.
Mi hai baciato sulla punta, vipera, e sto sanguinando.
IV
Avevo tutt’altro per la testa quel giorno che t’incontrai
al Moon. Eccoti qua le pagine di diario che riguardano quei
giorni, quelle avventure di cui fosti musa, istigatrice, protagonista
ed oggi meritevole colpevole.
V
Monza, 1994, quel giorno che tu sai
Non si può più fare la barba durante
il radiogiornale; sussulti e ti tagli ad ogni notizia. Come
non ricordare i notiziari degli anni Ottanta?
Ero ancora alle prese coi primi peli della tanto desiderata
maturazione comunista, con l’acqua fredda per economia,
con l’ultima strofa di ‘Cresciamo insieme alla
Patria’.
Mio padre girava la manopola di una radio che oggi molti pagherebbero
a peso d’oro perché «d’epoca»,
alla ricerca di un posto clandestino che dicesse qualcosa in
più del solito ‘caro presidente’, ‘visite
di lavoro’, ‘piano quinquennale’, ‘imperialismo
nemico’ e ‘minaccia capitalista’.
Dall’Occidente qualcuno cercava, via etere, di convincerci
che non è vero che nel capitalismo sono tutti, quasi
tutti disoccupati, che fanno tutti la fame. Tutti tranne pochi
ricchi sfondati che sfruttano milioni e milioni di barboni
disoccupati.
Di tutto questo è vero soltanto il Che su ogni genere
di basco, casco, maglietta, astuccio, diario, stadio o centro
sociale.
A dire il vero qualche sospetto mi era già venuto ma
la propaganda a scuola e le immagini del telegiornale parlavano
chiaro: in Occidente ci sono solo barboni che dormono in scatole
di cartone, disoccupati che scioperano ogni giorno e terroristi,
tanti terroristi, certe brigate rosse che in Italia, per esempio,
eliminano le forze di sinistra. Questa poi…
Nel frattempo ci esercitavamo in un progetto di ‘alimentazione
razionale’, con dieta scientifica e miracolosa che avrebbe
triplicato la produzione nazionale ed i risultati scolastici
di noi futuri costruttori del socialismo universale.
E dopo una dozzina d’anni mi faccio la barba con Radio
Italia ed Augusto Abbondanza alle sette del mattino, col pensiero
immigrato di chi si è rifugiato per necessità e
non per turismo.
Studi! Sì, studi che mi pago da solo lavorando sodo
in un magazzino ove carico e scarico i camion. Nessuno mi chieda
poi quanto mi pagano e quanto scarico nelle tasse. Ho il diritto
di restare in silenzio. Ed ascoltare l’abbondanza di
notizie sui regimi dittatoriali.
Ce l’avevano insegnato: il primo passo verso la democrazia è capire
chi comanda.
E penso albanese o curdo: su questo atlante scaduto troverò mai
le mie origini?
Di tutti i regimi che ho conosciuto, quello indicatomi dal
medico per la convalescenza è stato il migliore.
Io compro il dopobarba al Discount e me ne accorgo ogni mattina
di questo.
Sono già in ritardo, ma non rinuncio alle ultime sul
calciomercato. Seguo il Brescia, diventato colonia romena per
calciatori in disuso. Ma Hagi era il mio idolo quando giocava
nella Steaua Bucuresti e lo vedo sprecato in serie B.
Nel silenzio sogno anch’io. Spero che stasera l’elenco
delle persone che voglio incontrare non sia più corto
di quello delle persone che mi hanno fermato per strada. Salvo
il margine aperto ai carabinieri.
Ecco, ho appreso anche il montepremi dell’ultima estrazione
del superenalotto. Preludio di una speranza nelle vincite miliardarie:
non gioco ai quiz televisivi perché non ho il telefono.
E non finisce qui… la sfiga. Piove, sciopero dei capistazione,
ho le scarpe bucate ed un esame che non ho preparato.
Fingo di aver dimenticato l’ombrello e mi rifugio sotto
il tetto di un’edicola: così leggo i giornali
gratis.
VI
Sono anni che studio a Milano eppure oggi devo sostenere
l’ennesima prova di italiano.
Arrivo all’ultimo momento in aula ed il commissario mi
chiede se ho portato le schede. Ci metto un po’ a spiegargli
che io devo sostenere l’esame, non sono il bidello.
Guardo gli altri cinque esaminandi: ragazza svizzera non truccata,
attaccata al cellulare, in conversazione con la mamma; un’americana ‘bona’ senza
chewing-gum, che mi squadra incuriosita dai miei vestiti; due
arabi con braccialetti multicolori e pesanti catenine d’oro;
una ragazza russa che mastica gomma di noia e, sentito il paese
di provenienza, gira la testa dall’altra parte.
Sono l’unico che non ha pagato con carta di credito,
l’unico che non ha l’autista fuori ad aspettare,
l’unico che non ha un cellulare vicino all’astuccio,
l’unico che non ha l’astuccio di certi agrumi Duck.
«
Lei non ha portato il dizionario?» mi tormenta ancora
il commissario.
No, non ce l’ho, da noi non si può andare all’esame
di lingua con il vocabolario.
«
Su, non faccia lo spiritoso» insiste lui, «prenda
questo dizionario italiano-francese-italiano, potrebbe servire».
Prova di lettura per stranieri e mentre ipotizzo tutti i modi
infernali in cui potrei essere bocciato, con relative conseguenze
per la mia precaria situazione burocratica, assisto alla pronuncia
del tipo ‘come si legge’ ed alla lettura del tipo ‘buttati,
qualcosa c’azzecchi lo stesso!’.
Il questionario per la seconda prova è formulato in
quattro lingue: francese, inglese, tedesco ed italiano. Cercare
sul vocabolario famiglie di parole e fare piccole riflessioni
sui significati.
Mi butto anch’io. Scelgo il vocabolo ‘fiche’.
Scrivo: fiche = gettoni francesi; che bello averli sempre in
tasca!
Riflessione da single.
La fica è come l’allergia: se non ce l’hai
non sai né che esiste né com’è fatta.
La fica è come un albero: con l’innesto diventa
ibrido. Dalla sua radice nascono parole come ‘grafica’ (gracchiante), ‘benefica’ (ma
anche buona), ‘serafica’ (fiche al tramonto), ‘raffiche’ (quelle
della Royal Air Force) o ‘ficcanaso’ (sognare di
essere Cyrano De Bergerac o Gérard Depardieu).
A proposito di bambole gonfiabili; in Romania non ci sono ancora
ma abbiamo il proverbio ‘le fiche sono come le borse:
in vera pelle per chi può permettersele, imitazione
per chi i soldi non ce li ha’.
Sinonimo romeno: pruna ovvero prugna.
Contrario, ma molto raramente, c’è il pene.
Il pene è come la tapparella: tirata giù – buio
totale, tirata su – puoi leggere. Lo si può paragonare
anche alla matita. Sì, come la matita: se non gli fai
la punta manco i denti li stuzzica, figuriamoci scrivere.
Ho consegnato in fretta il mio compito ed ho tagliato la corda
prima che mi dessero una brutta notizia. Oggi piove abbastanza.
VII
Ho fame e sete, soprattutto sete. Devo cercare un bar alla
bassezza del mio portafoglio.
Una comitiva di muratori molto chiassosi entra con fare familiare
in un locale dall’insegna gialla: Moon, panini e birra.
Non chiedo altro purché sia accessibile per me.
Lo è! Vi entri e nessuno gira la testa per farti la
radiografia, si fuma abbastanza, quasi troppo, juke-box a manetta
con successi sanremesi e popolo con lo stecchino in vista.
Quest’ultimo serve per porre le virgole ai discorsi che
il capo mastro ogni tanto proclama per tutti i presenti: «Mi
laùri e paghi i tass, i terùn ciapa i danèe!».
L’atmosfera è comunque rilassata e la gente ai
tavoli non sembra avere la solita preoccupazione del ‘quicipelano’.
Mi siedo ad un tavolo, accendo una sigaretta e comincio a prendere
appunti sul mio quaderno rosso. Nessuno si stupisce, nessuno
mi chiede se sono un giornalista. Ma ti pare!
«
Ciao! Cosa ti porto?»
L’ho audiovista!… Coi luoghi comuni la si chiamerebbe
un angelo. Ma io non li ho mai visti, gli angeli, e potrei
fare un torto a questa ragazza.
‘
Ah, perché non ho dieci vite per cantarti, Madre Natura!’ recita
una ballata romena.
Mi prende il mutismo di quando, dodicenne, rimanevo incantato
dinanzi alle bandiere e poco mi importava del coraggio di chi
le sventolava.
Lei, imbarazzata per il tono familiare che ha usato, si corregge: «Scusi,
hm, le porto qualcosa?»
Io la disinvoltura l’ho imparata quella volta in cui,
appena arrivato in Italia, in un bagno pubblico, non sapendo
come spegnere un asciugamani automatico, dopo aver schiacciato
più volte l’unico bottone che mi sembrava un interruttore,
tirai fuori la spina e mi defilai lasciando in offerta diecimila
lire.
Ma ora non mi viene affatto. Balbetto: «Una birra media
scura… »
E scrivo: non può essere vera.
Devo mangiare un panino, consigliatomi da lei, e bere un’altra
birra per convincermi che non sto sognando.
Tentare di descriverla? Dovrei spacciarmi per dadaista per
non offendere la sua bellezza.
Per un attimo mi distraggo con una canzone al juke-box. Dedicata
agli agenti di scorta di due magistrati. Faletti mi provoca
ricordi e non trattengo una lacrima. Fingo insofferenza al
fumo per non farmi vedere dalla cameriera.
Dopo aver annotato che la conosco appena ed occupa già quasi
tutto il mio pensiero, bevo altre quattro medie e me ne vado.
Ma questa volta non è per la birra che sono rimasto
di più in osteria.
L’inquietudine che ho nel cuore è per averti incontrata
o perché ho aspettato troppo?
(I setti primi capitoli del romanzo inedito Allunaggio di
un immigrato innamorato, opera che ha vinto la sezione Narrativa della I Edizione del Premio Voci e Idee Migranti, www.kabiliana.com
)
Butcovan
Mihai Mircea, nato il 14.09.1969
a Oradea (Transilvania, Romania).
In Italia dal 1991, ha fatto studi (incompiuti) di teologia
e poi si è diplomato come Educatore Professionale
alla Scuola per Operatori Sociali di Milano (tesi con
prof. Claudio Mustacchi, “La narrazione migrante” sull’autobiografia
come cura di sé in autori romeni emigrati in occidente:
Mircea Eliade, Emil Cioran, Panait Istrati). Nel frattempo
ha continuato a scrivere: come Osservatore Romeno e come
migrante. Ci si cura come si può.
Oggi vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come
educatore in una comunità per minori.
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