FASCISMO
CONSUMISTICO
Questa
espressione, potente e precisa, è stata coniata da Pier
Paolo Pasolini, ed è presente nei suoi Scritti Corsari,
quando fa una diagnosi di grande chiaroveggenza sul futuro
della Rivoluzione dei Garofani, nel Portogallo degli anni ’70: “Il
popolo portoghese ha festeggiato il mondo del Lavoro [1° Maggio]
con una franchezza, un entusiasmo, una sincerità assolutamente
intatte, come se l’ultima volta fosse ieri. È da
prevedere invece che cinque anni di ‘fascismo consumistico’ cambieranno
radicalmente le cose”.
LA
CONCLUSIONE DI ADORNO
A
proposito di fascismo, il filosofo tedesco Theodor Adorno
riteneva, a ragione, che “il perdurare del fascismo nella democrazia è potenzialmente
più pericoloso del perdurare di tendenze fasciste contro la
democrazia”.
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IN MOLTI MODI
Una
lezione di Primo Levi, tratta da un suo testo del 1974: “Ogni
tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi,
non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca,
ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando
la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti
modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano
l’ordine.”
IL CAMPO DELLA DISPERANZA
Una
riflessione di Alvaro Mutis sulla "disperanza", tratta
da Da Barnabooth a Maqroll, libro pubblicato recentemente dalla
casa editrice Le Lettere:
"La
prima condizione della disperanza è la lucidità.
L'una e l'altra si completano, tra di loro si creano e si affermano.
A maggiore lucidità maggiore disperanza, e a maggiore
disperanza maggiore possibilità di essere lucidi. A
meno che, è ovvio, questa lucidità non venga
ingenuamente applicata a proprio e immediato beneficio, perché in
tal caso la simbiosi si spezza, l'uomo s'inganna e s'illude,
attende qualcosa, ed è allora che comincia a percorrere
un oscuro cammino di sogni e miserie.
La
seconda condizione della disperanza è l'incomunicabilità.
(...) La disperanza s'intuisce, si vive interiormente finché diventa
materia stessa dell'essere, sostanza che definisce le manifestazioni,
gli impulsi e le azioni della persona, ma che gli altri interpreteranno
sempre come indifferenza, alienazione o semplice follia.
La
terza caratteristica di chi vive nella disperanza è la
solitudine. Solitudine nata da una parte dall'incomunicabilità e,
dall'altra, dalla difficoltà di stare accanto a chi
vive, ama, crea e gode senza speranza (...). Questa solitudine
serve ad ampliare ulteriormente il campo della disperanza,
a permettere che nella lenta riflessione del solitario la lucidità faccia
il suo mestiere, penetri zone sempre più profonde, s'installi
e presieda i più riposti luoghi della psiche.
La
quarta condizione della disperanza è il suo rapporto
ravvicinato con la morte. (...). Il figlio della disperanza
non rifiuta la morte; anzi, ne rileva i primi segni e li ordina
all'interno di una particolare sequenza che conviene a quell'armonia
che egli conosce da sempre e che soltanto a lui è dato
di percepire e ricreare continuamente.
Infine
(...) il nostro eroe non è privo di speranza, o almeno
di ciò che in essa si confonde con l'entusiasmo per
il godimento di effimere, probabili gioie; anzi, in questo
modo egli ritrova quelle sottili ragioni per continuare a vivere.
Ma ciò che definisce la sua condizione sulla terra è il
diniego di qualsiasi speranza che vada al di là dei
limiti dei sensi, o delle lievi conquiste dello spirito. Il
figlio della disperanza non spera niente, non acconsente di
partecipare a niente che non riguardi i suoi intimi affari".
LA
FURBIZIA
Nel
1973 l’antropologo John Davis ha fatto uno studio sulle
caratteristiche centrali dei valori della società italiana,
prendendo come oggetto un piccolo paese della Basilicata. Il
suo libro Land and Family in Pisticci è stato
oggetto di incandescenti polemiche nell’ambiente accademico
di allora. Uno dei brani del suo saggio, quello sulla “furbizia”,
dice: “La qualità della furbizia – prevedere
tutte le possibilità, avere la forza di volontà necessaria
a ignorare le richieste morali e affettive del prossimo e trarre
vantaggio dalla sua ingenuità, dal suo carattere fiducioso
o dalla sua stupidità – è molto ammirata
a Pisticci, e viene inculcata fin dalla più tenera età”.
I TURISTI
Nel
suo racconto “Niente collo e cattivo come il demonio”,
Charles Bukowski – chi altro? – fa questi apprezzamenti
sui turisti sulla spiaggia di Catalina: “Erano tutti seduti
immobili in attesa. No, non tutti. C’era qualche turista,
vecchio, deciso a spassarsela. Sbirciava irosamente nelle vetrine
e camminava. Faceva risuonare i passi emanando un messaggio: ho
soldi, abbiamo soldi, abbiamo più soldi di voi, siamo migliori
di voi, niente ci preoccupa; tutto è merda ma noi non siamo
merda e sappiamo tutto, basta guardarci. Camminavano, con le loro
camicie rosa e verdi e azzurre, e i loro corpacci bianchi e marcescenti,
e i calzoni corti a righe, gli occhi senza occhi e la bocca senza
bocca, camminavano tutti colorati, come se i colori avessero potuto
risvegliare la morte e tramutarla in vita. Erano un carnevale di
decadenza americana in parata e non avevano idea delle atrocità che
si erano inflitte.”
LE MACERIE DELLA LIBERTÀ
Anche
gli Stati Uniti ora hanno il loro Libro nero. Nerissimo in verità.
Sono i cinquantasei capitoli in cui lo scrittore statunitense William
Blum racconta le malefatte del suo paese nel mondo dagli anni Cinquanta
fino ai giorni nostri. Blum è lo stesso autore che in passato
ha pubblicato da Marco Tropea Con la scusa della libertà,
una sorta di “assaggio” di questo nuovo compendio di
colpi di stato (Cile compreso, da Allende a Pinochet) e nefandezze
di ogni genere, omicidi mirati e omicidi di massa, rovesciamento
di governi democraticamente eletti, storie da brividi. Il libro,
edito da Fazi, ha un aggiornamento che riguarda l’Afghanistan
e l’Iraq, scritto da Nafeez Ahmed, lo stesso autore di Guerra
alla libertà. Cresce l’egemonia militare, ma cresce
forse più veloce e fortemente la critica a questa egemonia
e la denuncia degli orrori del “mondo nuovo” che nasce
dalle macerie, sempre più macerie anch’esse.
MACERIE E ROVINE NEL NOSTRO TEMPO
E
a proposito di macerie, Marc Augé ha appena pubblicato
presso Bollati Boringhieri il suo bel libro Rovine e macerie,
il senso del tempo, in cui propone una differenza importante
tra due concetti, spesso indistinti. Pensando al muro di Berlino
e all’Acropoli di Atene, l’antropologo francese
afferma che un mondo come il nostro può produrre solo
macerie, e non più rovine. Il suo segno è una
violenza indiscriminata che vuole distruggere ogni cosa. Le
rovine del passato storico sono retaggi di un tempo puro, sospeso
sulla Storia, non databili, simulacri del mondo che un tempo
siamo stati in grado di creare. Noi, che oggi sappiamo solo
produrre macerie, abbiamo perso le fondamenta della nostra
civiltà, della quale le rovine ancora rimaste sono delle
icone.
IL DOVERE DI UN UOMO CIVILE
Il
monito di George Orwell sulla corruzione dell’informazione,
fatto più di mezzo secolo fa, è oggi più attuale
che mai: “Siamo sprofondati in un tale abisso che la
riaffermazione dell’ovvio è diventato il primo
dovere di un uomo civile”.
LE VIE DEL VOCABOLARIO
In
un articolo pubblicato su L’Unità del
13 Gennaio 1950, intitolato “È questo il mio paese?”,
Carlo Bernari descrive così l’arrivo di una “parola” nuova
a casa sua: “Coi giornali che mio figlio è andato
a prendere all’angolo mi è entrata in casa una
parola che fa freddo a pronunciarla. Che vuol dire? Papà è scrittore
e deve conoscere il significato delle parole. Ma, vedi figlio
mio, dallo scrittore si ricorre come dal medico, già divorati
dal male, spesso già cadaveri. E gli si chiede una parola
consolatrice o una parola di condanna, come una ricetta per
i morti. Ma lo scrittore che visita ogni giorno i malati, i
suoi malati, deve sapere, di questa o quella cura, che il morto è già spuntato
nel giardino privato o nei giardini pubblici, nel cortile della
fabbrica o nella casa popolare. È inutile chiedergli
ricette postume: il morto campa allegramente, dice una vecchia
canzonetta, quando sa che si è lasciato il fango alle
spalle; la sua uscita repentina dal mondo può essere
tutt’al più un monito per coloro che devono pulire
il selciato su cui il suo corpo giacque. Ma noi continuiamo
a impastare il fango col sangue, sangue e fango, e dentro ci
mettiamo ogni tanto nuove menzogne. Mio figlio è rimasto
col pane mezzo grigio nel caffelatte, incantato ma stolido. È inutile
tentare le vie del vocabolario, spiegare massacro con eccidio,
eccidio con strage.”
RAQUEL
È morta
a Rio de Janeiro nell’ottobre scorso la scrittrice brasiliana
Raquel de Queiroz, che ha avuto un ruolo importante nella prima
fase del Modernismo brasiliano. All'inizio degli anni 30, giovanissima
allora, ha pubblicato un romanzo molto bello, O Quinze (Il
Quindici, soprannome di un "cangaceiro", uno
di quei briganti del Nord Est del Brasile, del Sertão,
che usavano quel cappello a forma di mezzaluna, presenti spesso
nel cinema
brasiliano del “Cinema Novo”, di Glauber Rocha
per esempio). Il libro di Raquel è stato una rivelazione,
una grande sorpresa, soprattutto per il fatto che una ragazzina
di 20 anni potesse scrivere un romanzo di un tale spessore
e drammaticità, e così inserirsi tra i fondatori
del Realismo brasiliano, il nostro "Verismo". O
Quinze è un
romanzo pieno di episodi epici, scene di grande coraggio e
umanità, ma anche di grande violenza, con descrizioni
fedelissime delle abitudini e degli strani valori di quei banditi,
della loro etica tutta particolare. Erano briganti che camminavano
sempre a piedi, in gruppo, uomini e donne insieme, tra l'una
e l'altra città che assediavano e saccheggiavano. Poi è successa
una cosa incredibile, uno di quei “miracoli” della
letteratura: 60 anni dopo O Quinze, già all'inizio
degli anni '90, Rachel ha scritto un altro romanzo straordinario,
il Memorial de Maria Moura, che trascorre nello stesso
ambiente del primo, nello stesso scenario umano e naturale
e nello stesso
periodo storico. Sessant'anni dopo! E questa è stata
la seconda grande sorpresa che Raquel di Queiroz ci ha preparato.
Un altro nome da aggiungere ai “grandi inediti” in
Italia, ai grandi autori mai tradotti in questo paese, una lista
che ormai è diventata il “piatto forte” di
queste Dicas trimestrali.
TRA I MORTI
Ha
scritto Edvard Munch, il famoso pittore, in Un uomo vestito
di nero – libretto pubblicato in Italia dai Quaderni
di via del vento, la piccola e coraggiosa casa editrice pistoiese –,
su una esperienza da lui vissuta tra i morti, nel 1890: “Era
nell’obitorio dell’ospedale. Al centro della stanza
si stagliava una figura giallastra di Cristo con le mani piegate
in atto di benedizione.
Il volto del morto era stato coperto. La testa candida del vecchio
riposava nella stanza illuminata di bianco. Una forza straordinaria
emanava da quella testa: le palpebre abbassate, la fronte grave
sulla quale i capelli lindi si scompigliavano, la bocca serrata
che sembrava bloccare una strada. Un mazzo di fiori rossi e bianchi
era appoggiato accanto alle mani che si lasciavano scivolare
ai lati.
Era morto senza alcun Dio".
GLI UNDICI COMANDAMENTI
Questi
sono gli undici “comandamenti” scritti dal romanziere
statunitense Henry Miller per mettere sotto controllo la propria
creatività, che possono servire benissimo come consigli
utili agli scrittori in erba (a dire il vero, non so quanto
siano veramente utili... ma almeno mi sembrano divertenti):
1. Lavora su una cosa alla volta finché non è finita.
2. Non cominciare nuovi libri, non aggiungere altro materiale
a “Primavera nera”.
3. Non essere nervoso. Impegnati con calma, con gioia e senza
tregua in quello che stai facendo.
4. Lavora secondo il programma e non in base all’umore.
Smetti all’ora stabilita!
5. Quando non puoi creare puoi lavorare.
6. Consolida un po’ ogni giorno piuttosto che aggiungere
nuovo fertilizzante.
7. Resta umano! Vedi gente, va’ in giro, bevi se ne hai
voglia.
8. Non fare il cavallo da soma! Lavora solo con piacere.
9. Ignora il programma quando ne hai voglia, ma tornarci il giorno
dopo. Concentrati. Restringi. Escludi.
10. Dimentica i libri che vuoi scrivere. Pensa solo al libro
che stai scrivendo.
11. Scrivi prima di tutto. La pittura, la musica, gli amici,
il cinema, tutte queste cose vengono dopo.
DA DIETRO LO SPORTELLO
L’antropologa
Amalia Signorelli, che all’epoca della sua pubblicazione
era consigliere comunale a Napoli, nel suo libro L’incertezza
del diritto, descrive questa scena emblematica, tanto familiare
a chiunque abbia vissuto per qualche tempo in Italia: “ Sono
in un ufficio postale del centro di Napoli; devo pagare luce
e telefono ormai prossimi alla scadenza. La fila dei conti
correnti è lunga, mentre lì accanto, davanti
allo sportello denominato dei conti correnti con distinta,
non c’è nessuno. Arrivano due vigili urbani in
divisa, si dirigono allo sportello dei conti correnti con distinta
e, senza nessuna distinta, tirano fuori i familiari e riconoscibilissimi
bollettini Sip e Enel. In pochi minuti hanno pagato entrambi
e stanno per andarsene. Non resisto. Mi avvicino, esibisco
la tessera di consigliere comunale e contesto ai due il loro
comportamento. Sono interdetti, stupefatti direi. Ma da dietro
lo sportello, l’impiegata, volenterosa, cinguetta: “Consigliera,
perché non vi siete fatta riconoscere, ché vi
sbrigavo subito pure a voi?”.
PERICLE
Novembre
scorso, Curzio Maltese ha scritto su Repubblica questo breve
editoriale:
"
Un episodio di satira censurata in Rai che illustra bene il clima
italiano di questi tempi. Stavolta i protagonisti sono il comico
Paolo Rossi, il programma Domenica in e Pericle, statista.
Qualche settimana fa il comico riceve l'invito a partecipare
a Domenica in da Paolo Bonolis, suo amico ed estimatore. Rossi
non va in televisione da una vita, eppure è uno degli
attori più amati dal pubblico.
Da un anno riempie i teatri di tutta Italia con uno splendido
spettacolo sulla Costituzione. Bonolis è uno dei pochi
personaggi intelligenti, ironici e non volgari sopravvissuti
in video. L'incontro è fatale. Rossi è
in tournée, quindi rinvia la partecipazione per quando
sarà a Roma. Gli autori di Domenica in sembrano entusiasti.
Il comico, che ha una certa esperienza di Rai, chiede: "Siete
proprio sicuri?". "Sì! Vieni e fai quello che
ti pare!".
La settimana scorsa lo spettacolo di Paolo Rossi arriva a Roma,
all'Ambra Jovinelli. Nel frattempo è scoppiato il caso
Raiot. Rossi richiama gli autori di Domenica in. "Siete
sempre sicuri?". La risposta è ancora sì,
senza più l'esclamativo. I funzionari vorrebbero però conoscere
in anticipo il testo. Rossi non ha difficoltà a rivelarlo,
si tratta di un brano del suo spettacolo. Tre giorni fa, in vista
della puntata di domenica prossima cui avrebbe dovuto partecipare,
ecco l'ultima telefonata fra il comico e
la Rai.
"
Allora, siete sicuri?". "No". Il testo non è piaciuto
ai funzionari, l'hanno trovato troppo forte. Paolo Rossi sarà il
benvenuto a Domenica in a patto che si limiti a "una presenza
professionale", come per esempio la partecipazione al quiz,
due battute, un po' di pubblicità alla tournée,
eccetera. L'attore declina.
Il bello della storia è che il testo che Paolo Rossi doveva
leggere alle platee della domenica era nientemeno che un discorso
di Pericle, il padre della democrazia. Questi i passaggi incriminati. "Qui
ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce
i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende
alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle
pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui
ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato
a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare
le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede
soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto
e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per
questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi
facciamo così" .
I censori, come si noterà, hanno avuto ancora ragione.
Il testo è molto forte e poi non fa ridere. Si tratta,
alla lettera, di un comizio politico. Pervaso da una profonda,
velenosa e ossessiva intenzione polemica contro Silvio Berlusconi.
La circostanza che sia stato scritto 2450 anni fa non può costituire
un alibi. Una simile intemerata propagandistica poteva essere
recitata sulla tivù pubblica soltanto in presenza di un
contraddittorio, meglio più d'uno, per esempio davanti
a Gasparri, Schifani e Calderoli.
Pericle era del resto una specie di comunista, uno che odiava
i politici ricchi, per invidia naturalmente, tanto da chiamarli
con disprezzo plutocrati. Responsabile anche d'aver promosso
la politicizzazione del teatro, per favorire i suoi amici Eschilo
e Sofocle: un vergognoso costume che gli intellettuali della
Cdl stanno ora cercando di smantellare.
L'attacco diretto di Pericle al premier avrebbe oltretutto messo
in imbarazzo gli autori di Domenica in, trasmissione già all'indice
per il sondaggio noto come "basta con Berlusconi" ,
trasformato subito in "basta dire basta" .
In Italia i comici devono essere prudenti perché gli intellettuali
sono assai severi con la satira, attenti alla virgola e alla
minima caduta di gusto. D'altra parte il comico è un mestiere
di grande responsabilità. A differenza del politico e
del giornalista, si pretende che sia impeccabile.
C'è uno solo che può dire montagne di sciocchezze,
rifiutare il contraddittorio anche in periodo elettorale, fare
i complimenti ai corruttori e le corna ai ministri, raccontare
barzellette sui malati di Aids e sull'olocausto, esaltare Mussolini
e i massacri russi in Cecenia: nel totale silenzio dei nostri
bravi bacchettoni. Questa però è concorrenza sleale.
Altrove ognuno ha il suo mestiere. In America la satira va in
onda in prima serata e Michael Moore, nel ricevere l'Oscar, tiene
un comizio satirico in mondovisione contro Bush.
Quanto a Pericle, il problema non è del tutto risolto.
Il testo censurato dalla Rai rimane colpevolmente inserito in
molte antologie scolastiche. Un altro effetto dell'egemonia culturale
della sinistra. Storace sia coerente e ne chieda la sostituzione".
Copertina.
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