ANASTASIA
PRATT
( – brano
del romanzo Un uomo da marciapiede – )
James Leo Herlihy
Il
nome di Anastasia Pratt, benché lei di anni ne avesse
soltanto quindici, era leggendario tra i ragazzi di Albuquerque.
Leggende del genere di rado traggono origine dai puri fatti:
l’invenzione di regola ha parte notevole nella loro elaborazione.
Ma il contegno di Anastasia Pratt dai dodici anni in su era
stato tale da superare ogni immaginazione; nessuno, per quanto
bugiardo, sarebbe riuscito a farlo apparire più bizzarro
e incredibile di quanto già fosse.
L’avevano soprannominata Annie-tutti-in-riga, a suggerire
l’ordine che bisognava mantenere perché Anastasia
Pratt riuscisse a servire con efficienza il gran numero di ragazzi
a disposizione dei quali nel giro di una singola mezz’ora
metteva il proprio corpo.
Dietro l’argenteo schermo del cinema-teatro Mondo, c’era
uno stanzone in cui si conservavano le lettere per le scritte
al neon, le uniformi delle maschere, asciugamani e saponi e altri
oggetti. In un angolo, stava un mucchio di ritagli di tappeto,
residuo dei recenti lavori di ammodernamento del cinema-teatro.
E appunto in quell’angolo la leggenda di Anastasia Pratt
era nata nella carne. Lei si dava da fare, allo stesso modo,
anche in vari soggiorni, camere da letto, automobili ferme e
garage, nei parchi delle scuole di notte, e anche in pieno giorno,
col bel tempo, lungo certe strade deserte. Ma era su quel mucchio
di ritagli di tappeto, nel ripostiglio del cinema-teatro Mondo,
che Anastasia era usata per lo più e dal maggior numero
di ragazzi.
Né bella né brutta, sembrava in tutto e per tutto
una qualsiasi scolara, al punto che, alla luce del suo effettivo
contegno, l’effetto lo si sarebbe detto voluto. Era vestita
come tutte le altre – gonne, camicette, pullover, calzini
e scarpe bicolori. Aveva i capelli castagni, tirati indietro
e fermati da una forcina. Non portava trucco degno di tal nome,
semplicemente si sfoltiva le sopracciglia e si impiastricciava
le labbra con un po’ di rossetto. Di giorno, la si poteva
vedere andarsene, sempre sola, da casa a scuola e viceversa,
i libri sottobraccio, e in apparenza con gli occhi altrettanto
aperti e indifferente e imperturbata come qualsiasi altra adolescente
pura e solitaria. E, a meno di non essere al corrente, il contrasto
tra ciò che si immaginava e ciò che si vedeva era
sbalorditivo. Un ragazzo di spirito l’aveva battezzata “Virginia
Jekyll e Miss Hide”.
Nonostante tale fama, almeno tre erano le persone del tutto all’oscuro
della condotta di Anastasia. Due di esse, come logico, erano
suo padre, un impiegato di banca scrupoloso, lavoratore indefesso
e irritabile, e sua madre, una donna dalle labbra sottili, dallo
sguardo sfuggente, che suonava il piano alla Chiesa della verità.
Il terzo a non saperne nulla, fino alla sera di un certo venerdì d’ottobre,
fu Joe Buck.
Si
incontrarono alla fontanella del Mondo. Joe se ne scostò e
lasciò aperto il rubinetto per lei. Anastasia bevve
e poi lo guardò e sorrise riconoscente. Lui sorrise
di rimando. Chiese lei: “Perché non ti siedi accanto
a me?”.
Presero posto di lato, circa a un terzo della fila di poltroncine.
Subito Anastasia spinse il ginocchio contro quello di Joe e cominciò a
sfregarlo in modo inequivocabilmente provocante. D’un tratto
si trovarono la mano nella mano. Proprio mentre Joe cominciava
a preoccuparsi del sudore che gli inumidiva il palmo, lei gli
prese la mano e se ne servì per accarezzare la propria
coscia, e poi si servì della propria mano per misurare
spudoratamente il grado dell’eccitamento di lui. Avendo
costatato che era considerevole, gli prese la faccia tra le mani
e lo pregò di baciarla. Non che Joe fosse alieno del farlo;
semplicemente, nel suo eccitamento, non ci aveva pensato; ma
nella richiesta della ragazza c’era una tale istanza, una
tale disperazione, che quando effettivamente la baciò,
le labbra di lei gli si avventosarono alla bocca quasi a suggere
da lui una sostanza capace di dar vita. E Joe si sentì come
chi stia impartendo l’estrema unzione a una persona rimasta
mortalmente ferita in un incidente, ma che non abbia ancora esalato
l’ultimo respiro.
Una masnada di ragazzi calò lungo la corsia e venne a
sedersi dietro Joe e Anastasia Pratt.
Uno di loro disse: “Gesù, è Anastasia Pratt”.
“
Ma va’” disse un altro.
E un terzo: “Lui chi è?”.
“
La sta baciando!”
“
Ehi, c’è uno che sta baciando Anastasia Pratt.”
“
E chi è? Chi è che bacia Annie?”
“
Ehi, Annie, chi c’è con te?”
Anastasia si volse e, con voce piagnucolosa, disse: “Piantatela.
Piantatela, vi prego. Perché non mi date una possibilità?”
“
Darti una possibilità? Te la do io, una possibilità”.
Joe non riusciva a raccapezzarsi. Aveva visto dozzine di coppie
intente a sbaciucchiarsi in quello stesso locale, e nessuno aveva
mai rotto loro le scatole. Era spaventato e confuso. A quanto
pareva, mosso dalla sua inesperienza stava facendo qualcosa di
proibito, ma non aveva la minima nozione di che cosa si trattasse,
e ancora meno sapeva come comportarsi in una situazione del genere.
Uno della banda si alzò, si protese oltre la fila dei
sedili e riconobbe Joe Buck con cui era stato alle elementari. “Ehi, è Buck, è Joe
Buck” annunciò, tornando al suo posto.
Joe non riconosceva le voci che udiva alle proprie spalle né aveva
il coraggio di voltarsi a guardare.
“
Ehi, Joe” gli sussurrò uno dei ragazzi. “Stai
baciando Anastasia, ma faresti meglio a correre in farmacia.
Ha assaggiato tutti quelli di Albuquerque, la bimba.” La
voce non era affatto ostile, anzi gli parlava in tono amichevole
e premuroso. Joe allora si volse e vide un ragazzo italiano,
scuro di capelli, che ricordava dai tempi della scuola: si chiamava
Bobby Desmond.
Anastasia Pratt si levò dal suo posto, si lanciò lungo
la corsia, e i ragazzi dietro di corsa. Prima di seguire gli
altri, Bobby Desmond si fermò il tempo per battere sulla
spalla di Joe e dirgli: “Vieni”.
Joe obbedì. In fondo alla sala, sei ragazzi che all’età parevano
liceali, bloccavano l’uscita; Anastasia implorava debolmente
che la lasciassero passare. Un ragazzo biondo, alto, scarno,
pustoloso, stizzoso, disse: “Ehi, Annie. Gary Amberger è di
sopra e muore dalla voglia di vederti”.
“
Non è vero” replicò Anastasia, ma i suoi
occhi dicevano: c’è davvero?
“
Okay, vuol dire che non c’è. Andrò a dirgli
che non c’è.”
“
No, voglio dire che non c’è.”
E un istante dopo se ne andavano attruppati lungo una delle corsie
laterali del cinema teatro Mondo, la fila dei ragazzi e Anastasia
Pratt, diretti a una scritta luminosa indicante l’uscita
a sinistra dello schermo. Joe, che seguiva Bobby Desmond, costituiva
la retroguardia. Nel momento in cui varcava la tenda sotto l’insegna,
udì la voce di una stella di Hollywood che, sullo schermo,
diceva: “Ti dico che la situazione ci è sfuggita
completamente di mano. La nostra unica speranza è di far
finta che nulla sia accaduto”.
Imboccarono tutti assieme una breve rampa di scale ed entrarono
nel magazzino. Qualcuno accese la luce. Anastasia chiese: “Dov’è?
Dov’è Gary Amberger?”.
Rispose il ragazzo biondo e alto, che si chiamava Adrian Schmidt: “Sopra
i tappeti, Annie, sopra i tappeti”. Si diresse all’angolo
in cui questi erano ammucchiati, chiamando: “Ehi, Gary,
c’è Anastasia”.
E lei: “Stai dicendo bugie, è tutto un trucco. Solo
per farmi venire qua. Vi conosco, voi ragazzi”. E poi: “Gary?
Gary!” chiamò. “Se ci sei, dì qualcosa.”
Una voce di donna, incisa sulla colonna sonora, disse: “E
adesso, gioia, soffia sulle candeline ed esprimi un desiderio!”. “No!” replicò la
voce di una bambina. “Ancora non abbiamo cantato la canzoncina
del buon compleanno!” Poi dallo schermo provenne un gran
frastuono, un coro di voci che cantava il Happy Birthday.
“
Voglio uscire di qua” disse Anastasia, e fu l’invito
a chiudere la porta. Perché tutti nello stanzone, eccezion
fatta per Joe, sapevano che in realtà non voleva andarsene.
“
Continuo a credere che Gary non sia affatto lì,” disse
Anastasia “ma comunque voglio dare un’occhiata.”
Nell’angolo, Adrian Schmidt stava disteso sui tappeti mezzo
nudo, poi tutti i ragazzi presero a denudarsi, quindi Anastasia
Pratt si distese sui tappeti, chiedendo con voce petulante,
mentre si preparava, che “il primo deve essere uno bello,
altrimenti niente da fare”. Adrian Schmidt si sentì dire
che lui sarebbe stato l’ultimo, come punizione per aver
raccontato la balla di Gary Amberger. Ma Anastasia Pratt sapeva
fin dall’inizio
che Gary Amberger non poteva esserci: si era trasferito a Battle
Creek, nel Michigan, tre anni prima, e la cosa era nota a tutti.
Mentre i ragazzi si davano da fare, Anastasia se ne stava perfettamente
tranquilla, la testa di lato, mordicchiandosi oziosamente le
unghie, senza fare troppa attenzione a quel che accadeva. Era
come un ammalato di cancro ormai condannato a morte, che si sottoponga
alla radioterapia, convinto che non può trarne alcun beneficio,
ma provando lo stesso, non si sa mai.
Quando toccò a Joe, l’interesse di Anastasia si
accese per un istante, forse per via della novità costituita
da uno con cui non l’aveva fatto mai.
Poi la ragazza tornò a volgere la testa di lato, e Joe
le sussurrò: “Che c’è?”.
E lei: “Oh, stavo giusto chiedendomi quante parole si possono
formare con quelle lettere”. Aveva gli occhi rivolti ai
mucchi di caratteri al neon: ordinati in un certo modo, avrebbero
sillabato ciò che il destino aveva in serbo per lei.
Qualcuno disse: “Scommetto che la sta baciando, là dietro” e
poi si udì la voce di Bobby Desmond: “Lascialo in
pace”. Una terza voce disse: “Chi mi dà una
sigaretta?” e Adrian Schmidt: “Aspettate che mi capiti
a tiro, altro che farmi restare per ultimo”. E Bobby Desmond: “Sta’ zitto,
altrimenti quella se ne va a casa”. Poi si udì,
dallo schermo, la voce di una donna vecchissima che diceva: “No,
no! Non devi dirlo! Se lo dici non si avvera!”.
Sussurrò Joe ad Anastasia Pratt: “Va bene?”.
“
Va bene cosa?”
“
Così.”
“
Be’, e lo chiedi a me?”
Ancora la voce di Adrian Schmidt: “Che cosa sta facendo,
là dietro? Voglio semplicemente che si regoli. È questo,
che dobbiamo fare. Dobbiamo tutti rispettare i tempi. Dico bene,
ragazzi? D’ora in poi...”.
Anastasia Pratt afferrò con le mani la testa di Joe, lo
attirò a sé, gli sussurrò all’orecchio: “Tu
sei l’unico, sei l’unico, sei l’unico, sei
l’unico dopo, sei l’unico dopo Gary Amberger, sei
l’unico, ti giuro, davvero ti giuro, sei l’unico.
Di solito non sento niente, ti giuro, voglio dire, tu sei il
meglio, baciami, ti prego”.
Il corpo di lei aveva preso vita sotto quello di lui, e il respiro
le si era fatto ansimante, pareva che stesse arrampicandosi lungo
il pendio più ripido del mondo. E questa ascesa sembrava
rendere più urgente il bisogno che aveva della bocca di
Joe, come se a così rarefatte altezze la sua propria funzione
respiratoria fosse inadeguata.
Joe, però, l’unica cosa cui riuscisse a pensare,
erano le parole di Bobby Desmond.
“
Devi farlo” pregava lei. “Devi farlo!”
Il volto di Anastasia era madido, e poi ciò che anche
a Joe accade in quel momento tolse importanza a qualsiasi altra
cosa, e in un moto di gratitudine egli le baciò la bocca,
permettendole di trarre da quel contatto qualcosa che la fece
rabbrividire e aggrapparsi a lui in una stretta violenta e prolungata.
E neppure dopo che il momento fu passato, Anastasia Pratt diede
a vedere di volerlo lasciar andare. Piangeva in silenzio e gli
si aggrappava alla schiena con quanta forza aveva.
“
Okay,” disse Adrian Schmidt “ne ho abbastanza. Ne
ho abbastanza, vi dico. Conto fino a dieci, e poi – è giusto
o no? Dico che conto fino a dieci e poi... Uno, due, tre...”
Disse la voce di un’altra vecchia di Hollywood: “E
non dimenticate, bambini, che noi siamo tutta la famiglia della
povera Sarah, e che è nostro dovere di cristiani...”.
A queste parole fece seguito il rumore di una porta che sbatteva,
venti volte più fragoroso che in realtà.
Anastasia si rivestì e non volle che Adrian Schmidt la
toccasse. Lui le si precipitò addosso, con l’aria
di volerla fare a pezzi, ma gli altri ragazzi lo trattennero.
E Anastasia uscì dal magazzino e discese la breve rampa
di scale e imboccò il corridoio, tenendo la testa assurdamente
eretta e barcollando come se fosse leggermente ubriaca.
Passò sotto l’insegna rossa nel momento in cui lo
schermo emetteva un vero inno di gloria, ad accompagnarne il
rientro nelle tenebre del cinema-teatro Mondo.
Durante
l’adolescenza, un individuo è capace di passare
e ripassare centinaia di volte davanti alla stessa casa. Può darsi
che si pigli una cotta per qualcuno e, non avendo il coraggio
di dichiararsi apertamente, eccolo passare e ripassare davanti
alla abitazione di quel qualcuno, ricorrendo ai più futili
pretesti, sperando in un miracolo. O almeno in un’occhiata.
Per Joe, l’idea di entrare a far parte della banda di ragazzi
con cui aveva condiviso Anastasia Pratt nel magazzino del cinema-teatro
Mondo divenne un’ossessione. Ma Adrian Schmidt, il ragazzo
alto, biondo, pustoloso, il rumoroso, l’impaziente della
banda, gli fece una colpa per l’affronto che aveva subito
quel venerdì sera. E così, quando Joe passava davanti
alla rivendita dei giornali che era il quartier generale della
banda, Adrian lo guardava con aria così minacciosa da
scoraggiare pressoché chiunque. E poi montò gli
altri (solo con Bobby Desmond non ci riuscì) contro Joe,
al punto che un giorno, mentre questi passava, uscirono tutti
sul marciapiede, ad accoglierlo con un coro di baci schioccanti.
Intanto Anastasia Pratt, che aveva perso la testa per Joe Buck,
continuava a transitare davanti a casa sua. Ogni pomeriggio,
finita la scuola, la si poteva vedere intenta a percorrere lentamente
la strada in cui lui abitava. Joe stava a guardare da dietro
le persiane del soggiorno di Sally, notando che Anastasia reggeva
i libri di scuola tra le braccia come avrebbe fatto con un bambino,
ed era colpito dalla freddezza con cui manteneva il volto fisso
di fronte a sé mentre, con l’angolo dell’occhio,
esaminava la casa come un ladro che studi una gioielleria.
Un giorno fece tappa a tutte le case della strada, suonando all’uscio
e offrendo in vendita biglietti per una lotteria organizzata
dalla Chiesa della Verità.
“
Oh!” disse, fingendo sorpresa, quando Joe aprì la
porta, “non sapevo che abitassi qui! Io, be’, ecco,
la nostra chiesa mette in palio un girarrosto e io, ecco, è elettrico
e tutto il resto, è da molto che abiti qua? Voglio dire,
vuoi comprarne uno, un biglietto?”
mentre parlava, Joe le teneva gli occhi fissi sulle labbra, poi
distolse lo sguardo, gli pareva di udire il suono dei baci schioccanti
di Adrian Schmidt e degli altri, e scosse il capo: no, non voleva
comprare un biglietto della lotteria.
Anastasia Pratt sapeva a che cosa stesse dicendo di no e, senza
muoversi in realtà, protese il volto verso quello di Joe,
gli occhi umidi e profondamente turbati, e disse: “Sei
proprio sicuro?”. Lui annuì. In fretta, Anastasia
si volse, discese i gradini, imboccò il sentiero che conduceva
al marciapiede. Il sedere le ondeggiava, sinistra-destra, in
modo tale che Joe si sentì contrarre lo stomaco, e poi
si rese conto di quanto triste fosse Anastasia vista di schiena,
quanto triste e solitario l’incavo delle sue ginocchia,
e quindi udì se stesso fare: “Hm” a voce abbastanza
alta. Lei si volse, e Joe disse: “Non so se ho moneta” e
il movimento che fecero le sopracciglia di Anastasia gli toccò il
cuore.
E così, la prima donna di Joe fu questa quindicenne, Annie tutti-in-riga
Pratt. Si nascondevano come ladri, Joe si vergognava di lei e di se stesso.
Odiava pagare il prezzo che lei esigeva, quei baci disperati, eppure, proprio
perché il bisogno che lei aveva di quei baci era così intenso,
darglieli lo elettrizzava.
Nella sua inazione, tempo di rimuginare ne aveva fin troppo. Di continuo faceva
a se stesso promesse che, in presenza di Anastasia Pratt, gli era impossibile
mantenere. Pensava alla prominenza del ventre di lei e all’umida, più piccola
prominenza sotto il ventre, e quei pensieri, uniti all’impressione della
terribile solitudine di Anastasia, gli facevano sembrar sciocchi tutti i propositi.
Poi, un bel giorno, i genitori di Anastasia Pratt ricevettero una lettera anonima
che rendeva loro note non soltanto le elaborate munificenze carnali della figlia
nel magazzino del cinema-teatro Mondo, ma anche le visite di Anastasia e Joe.
Il signor Pratt rincasò una sera deciso a “far fuori quel ragazzo”,
ma siccome era un omarino, finì per fare qualcosa d’altro: andare
alla polizia. Joe non seppe mai che cosa fosse venuto a galla al commissariato,
ma il pomeriggio dopo Sally gli telefonò dal centro dicendogli: “È tutto
a posto, tesoro mio, quella povera ragazza la metteranno in una bella casetta”.
E “bella casetta” era l’eufemismo di Sally Buck per indicare
un manicomio. (...)
(Tratto
dal romanzo Un uomo da marciapiede [originalmente “Midnight
Cowboy”], Einaudi, Torino, 2000, traduzione di Jack
Delaney)
James
Leo Herlihy, è nato
a Detroit. Nel 1960 ha pubblicato il suo primo romanzo, “E
il vento disperse la nebbia”, da cui è stato tratto
un film di successo. Anche dal romanzo Un uomo da marciapiede è stato
tratto un film del 1969 con regia del direttore inglese John Schlesinger,
con Sylvia Miles, Jon Voigt e Dustin Hoffman, che segnò un’epoca.)
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