IL
CIMENTO MUSICALE
( – brano
del romanzo Le voci del mondo – )
Robert
Schneider
Il
cimento della musica per organo era a Feldberg l’avvenimento
musicale dell’anno. Per poter ascoltare le improvvisazioni
degli allievi dell’Istituto Musicale, i signori e la
nobiltà assetata di musica venivano in pellegrinaggio
perfino dal Liechtenstein. E d’altra parte, il grande
organo a diciassette voci con il suo coro poderoso di trombe
e il timbro argentino del positivo era uno degli strumenti
più preziosi dell’intero Vorarlberg, e offriva
una sintesi mirabile dello stile organario francese e di quello
tedesco meridionale. Fatto accordare per l’occasione,
lo strumento si presentava ora illuminato da ogni parte, nella
sua maestosa bellezza.
Goller
disse a Peter di prendere posto nella navata perché già un’ora
prima del concerto il duomo era pieno all’inverosimile.
La calda luce della sera pioveva all’interno formando
strisce rosazzurre sui banchi affollati di pubblico, mentre
la rosetta,
alta sopra la balconata occidentale, splendeva nella sua
policromia favolosa. Quanto a Elias, Goller lo condusse invece
in sacrestia,
dove i cinque studenti scelti per l’improvvisazione
aspettavano il loro turno. Lo presentò ai compagni
con un breve discorso non privo di sufficienza, dicendo che
il signor Alder veniva
da una zona del Vorarlberg abbandonata da Dio, e che malgrado
la scarsa cultura era un assai curioso esempio di genio istintivo.
E allora eccolo lì, il nostro eroe, con il suo vestito
da passeggio nero e sudato, i piedi nudi e le unghie sporche,
le lunghe ciocche di capelli unti e un odore nauseabondo.
I cinque allievi dal volto roseo e rubizzo, i capelli lisci
dalla perfetta
scriminatura e i colletti alti di un bianco smagliante, non
potevano trattenere una leggera smorfia di fronte a questa
figura stravagante.
E c’è anche quello che si rifiuta, con rara
impertinenza, di sedere nel banco accanto a un simile primitivo.
Ben presto,
però, ai volti rosei e rubizzi sarebbe passata la
voglia di arricciare il naso e dire impertinenze.
Tutti si alzarono in piedi nella navata quando il vicario
generale, seguito dall’organista del duomo Bruno Goller, dai quattro
professori dell’Istituto Musicale e dai sei allievi prescelti,
uscì dalla sacrestia. Il vicario salì sull’ambone,
a cui era appesa una lira dorata, e dopo aver tenuto una prolusione
in latino, lesse con voce solenne le parole del Salmo 150, là dove
si dice di lodare Dio con trombe, arpe e salteri. Salutò quindi
con un lungo discorso i professori, dottori, consiglieri e signori
vari, chiamando ciascuno per nome e a ciascuno tributando una
parola di omaggio adulatorio. Infine, il vicario generale chiese
il famigerato scrigno che avrebbe dovuto decidere l’ordine
della competizione. Un chierichetto mingherlino gli sporse la
cassetta e il vicario vi infilò la mano, estraendo il
nome del primo candidato. Si trattava di Peter Paul Battlog,
figlio quindicenne dell’ufficiale dell’erario Christian
Battlog. Fu poi la volta del secondo e del terzo e così via.
Il nome di Elias Alder fu il penultimo a essere sorteggiato.
Stabilito l’ordine in base al quale gli organisti avrebbero
dovuto esibirsi, il vicario generale si fece portare un libro
di corali dal chierichetto mingherlino. Il chierichetto gli sporse
il pesante volume, poggiandolo chiuso sull’ambone. La tensione
crebbe, perché il libro aveva una sua particolarità.
Il vicario, uomo non privo di istinto teatrale, si godette quel
silenzio fino alla soglia dell’intollerabile, poi prese
in mano il libro, lo mise sul dorso, appoggiò i due pollici
sul taglio dorato, lasciò andare i pesanti fermagli di
pelle, e il libro si aprì di scatto. A ogni apertura
di libro la pagina destra sarebbe stata quella decisiva.
–
Il candidato Battlog – disse il vicario generale con voce
tonante – dovrà improvvisare sul Lied Oh, Dio,
come tanto cordoglio. E con ciò si intende: un
corale elaborato manualiter e pedaliter, un preludio e una fuga a tre
voci alla maniera antica.
Elias, seduto in disparte in fondo al banco, non capì una
sola parola. Vide però il candidato Battlog scattare in
piedi, uscire dal banco del coro, abbozzare una genuflessione
e affrettarsi in direzione della cantoria. Elias provò una
certa paura. E incominciò a squadrare la porta della sacrestia
pensando che, in caso di necessità, poteva sempre
fuggire da quella parte.
Dopo alcuni minuti di raccoglimento Battlog iniziò la
sua improvvisazione. I due robusti giovanotti del mantice diedero
fiato alle canne con una mossa energica e Battlog intonò,
come d’obbligo, la melodia del corale, per poi passare
all’elaborazione vera e propria. Elias si accorse subito
che il ragazzo, dal volto roseo e rubizzo, non era un genio.
Ma il timbro favoloso dello strumento lo conquistò fin
quasi a togliergli il respiro. Quando con un accordo fragoroso,
Battlog terminò la sua fuga a tre voci, Elias sapeva ormai
esattamente che cosa si intendesse per corale elaborato, preludio
e fuga. Anche a Eschberg aveva già suonato qualcosa di
simile ma, gli sembrava, in modo completamente diverso, più elegante
e soprattutto più solenne. I candidati successivi non
gli insegnarono nulla di nuovo, anche se la loro abilità nel
maneggiare i registri gli fece ogni volta un’impressione
poderosa. Il suo orecchio analitico gli permetteva di riconoscere
ogni nota, anzi meglio: ogni singolo tasto, bianco o nero
che fosse, alto, basso o mediano. E intanto si divertiva
a migliorare
mentalmente questo o quel passaggio, come era solito fare
ai tempi dello zio Oskar.
E infine toccò a lui. Il vicario generale mise il libro
sul leggio, posò il pollice sul taglio dorato, lo
aprì di
colpo e dopo un breve silenzio annunciò con voce teatrale:
–
Il candidato Adler dovrà improvvisare sul Lied Vieni,
sorella morte, sorella del sonno. E con ciò s’intende:
un corale elaborato pedaliteret manualiter, un preludio
e una fuga a tre voci alla maniera antica.
Elias scattò in piedi come aveva visto fare ai suoi predecessori,
supponendo che la cosa facesse parte del rito. Abbozzò anche
una genuflessione, ma invece di andare verso l’organo
si diresse verso il maestro Goller, che, seduto nel banco
in prima
fila, si tormentava nervoso i baffi arricciati.
–
Non conosco la melodia di questo Lied, – gli sussurrò Elias
nell’orecchio in tono concitato – Devono prima
suonarmelo, se vogliono sentirmi imprivvo... introvvi...
improvvi... sare.
Goller, mortificato, uscì dal banco, fece una genuflessione
e filò dal vicario generale che proprio allora aveva preso
posto nel suo scranno di legno intagliato. Il pubblico incominciò a
rumoreggiare, si videro alcune donne mormorarsi qualcosa all’orecchio
e poi tendere il collo per sbirciare curiose verso l’uomo
a piedi nudi. Goller confabulò con il vicario, il quale
salì sull’ambone e annunciò con voce solenne
che il concerto era sospeso per qualche minuto. Ripetendo le
parole di Goller, spiegò che il candidato Alder veniva
da una zona abbandonata da Dio, che era di poca cultura, che
non aveva mai visto né provato prima di allora l’organo
di Feldberg e doveva pertanto farsi dare qualche istruzione.
Ma che a ogni modo era un assai curioso talento naturale, appunto
per questo lo avevano invitato, e lui si assumeva la responsabilità eccetera
eccetera.
Subito dopo, alcuni signori sgattaiolarono fuori dal duomo
per ingannare il tempo con una tirata di tabacco. Altri – soprattutto
i pellegrini che venivano dal Liechtenstein – estrassero
dalle loro borse pane, salame e sedano e si abbuffarono senza
ritegno con le provviste per il viaggio di ritorno. Mentre
le dame di rango piluccavano annoiate qualche succosa dolce
fragola.
Intanto Goller era salito con Elias sulla cantoria. Qui gli
mostrò di
gran carriera le funzioni dei vari registri, aprì il libro
alla pagina del corale stabilito e gli accennò appena
la melodia. Quando nel duomo fu tornato il silenzio, Elias
continuava a ripetersi, ormai conquistato dal testo e dalla
melodia, le
parole del Lied:
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VIENI,
MORTE, SORELLA DEL SONNO,
VIENI E PORTAMI VIA.
SCIOGLI I REMI DELLA MIA NAVICELLA,
GUIDAMI AL PORTO SICURO!
TI TEMA PUR CHI LO VUOLE,
BEN SO CHE PUOI DARMI LA GIOIA
TU SOLA PUOI PORTARMI
AL DOLCE CUORE DI GESÙ |
|
Prima
di seguire Elias nel suo concerto sovrumano non vorremmo dimenticarci
di Peter, seduto sotto la sporgenza della cantoria, nella parte
più soffocante della chiesa. Tiene le mani intrecciate
sul grembo e sembra quasi trattenere il fiato, guardando fisso
davanti a sé. È diventato, di colpo, una figura
di radiosa bellezza. O ci ingannano le ombre guizzanti delle
candele?
I due tipi addetti al mantice si scambiavano smorfie di compassione
all’indirizzo di Elias quando una raffica di note si levò fragorosa
dalla parte bassa della tastiera, e con un rombo così perentorio
che l’organo sembrò sul punto di spaccarsi in due.
la raffica si interruppe. Elias prese fiato e attaccò poi
un fortissimo ancora più fragoroso, accompagnato questa
volta da una linea tempestosa del pedale di basso. Dopo aver
preso fiato una terza volta, ripropose ancora la figura ornamentale
del basso ma su un ritmo raddoppiato, e imperversando dunque
sul pedale con una rapidità disumana. La corsa sfociò su
una armonizzazione straziante delle due prime battute del corale,
poi la musica si interruppe di colpo e senza motivo, come se
le mani gli fossero cadute dalla tastiera. Elias assaporò la
tensione estrema della cesura, poi riprese la tastiera a sette
voci, suonò il corale fino alla terza battuta, si interruppe,
prese fiato, armonizzò in dissonanze irrisolte fino alla
quarta battuta, si interruppe, prese fiato, collegò la
figura di base con l’armonizzazione del corale, si interruppe,
prese fiato, si interruppe di nuovo, e tutto questo per la durata
di oltre cinque minuti.
Il suo intento era di mostrare che cosa significhi ribellarsi
alla morte, al destino, o meglio ancora a Dio. La morte come
improvviso tacere, come insopportabile pausa. Era mostrare come
l’uomo umiliato ritorni a gridare le sue preghiere senza
senso. Per poi lacerarsi la camicia, strapparsi i capelli e bestemmiare
impazzito, ma venir pur sempre gettato a terra. perché ogni
rivolta è vana. Dio è un fanciullo malvagio senza
ombelico.
I due tipi di mantice si davano un gran da fare per garantire
un’alimentazione uniforme. E il sudore che gli imperlava
le gote rosse come gamberi era, crediamo, un sudore di paura.
Nella navata, immersa in un silenzio di tomba, accade l’incredibile.
Goller muso-di-carpa era lì con la bocca spalancata, i
quattro professori, pallidi come lenzuoli, non credevano alle
loro orecchie, e molti presenti, con la bocca ancora piena di
pane, fissavano impietriti il prospetto delle canne in piena
luce, dimenticandosi di inghiottire.
Dopo questo folle inizio, queste cascate lancinanti, la musica
sembrò spegnersi, tra soprassalti di furia isolata e il
fiammeggiare qua e là di armonie bizzarre, inaudite. Elias
staccò una dopo l’altra le varie combinazioni di
registri, i suoni si affievolirono, finché la musica parve
sprofondare in una sinistra tonalità minore, a lungo ricercata
e quasi irriconoscibile. Era il momento della rassegnazione senza
ritorno: l’eroe giace abbattuto, la speranza è morta,
la terra si fa fredda vicino a lui.
A poco a poco il pubblico stordito incominciava a capire il messaggio
dell’organista. No, quello lassù non stava suonando,
stava predicando. E il contenuto della predica era di una chiarezza
fredda, adamantina. Per qualche istante il contadino di Eschberg
era riuscito a fondere il suo pubblico in una sola anima. Regnava
infatti, nel Duomo, un’atmosfera speciale e inquietante,
come se tutti, giovani e vecchi, intuissero all’unisono:
la morte è fra queste mura, e il sonno, il suo compagno,
ti ricoprirà. Sui loro volti si leggeva a un tratto l’impronta
della verità: cadute le maschere, gli sguardi irradiavano
una pace numinosa, e dai loro tratti si poteva comprendere in
che modo ciascuno avrebbe reagito alla voce della morte. Spettacolo
disarmante!
Suonava già da più di mezz’ora e non se ne
vedeva la fine. Ma da quel caos oscuro e senza fondo emersero
a poco a poco voci più concilianti. Le melodie si susseguivano
l’una all’altra, ora infine morbide e profumate come
l’erba mossa dal vento di aprile. E a queste melodie ne
seguirono altre, quelle di Elsbeth. E alle melodie di Elsbeth
seguì la melodia del corale. Ma il corale era la morte:
Ne nacque allora una danza, un effimero andirivieni di sempre
nuove idee musicali. La musica cambiò in un ritmo dispari,
ritornò al punto di partenza e cambiò ancora. E
la leggerezza di queste voci incalzanti lasciava intendere che
Elias non parlava più di questo mondo. L’uomo era
risorto dal caos, il peso della terra non lo trascinava più verso
il basso.
Sebbene Goller gli avesse appena accennato le funzionalità dei
vari registri, Elias era già in grado di mescolarli da
vero virtuoso. E come un pittore si meraviglia della ricchezza
delle sfumature cromatiche offerte dalla sua tavolozza, così Elias
si meravigliava della possibilità di quell’organo.
Se fino ad allora era rimasto come rattrappito sullo strumento,
gli occhi incollati alla tastiera e al pedale, ora il suo sguardo
si spianò, le membra si distesero, la schiena ritrovò la
posizione naturale. L’organo sembrava suonare da solo.
Aveva imparato a conoscerne i trucchi e ora poteva liberamente
dispiegare le sue forze. Chiuse le palpebre, sollevò la
testa e tornò in sogno a Eschberg, mentre l’organo
continuava a diffondere nella navata immagini zampillanti di
visionaria bellezza sonora. (...)
(Brano
tratto dal romanzo Le voci del mondo, Einaudi, Torino, 1996,
traduzione di Flavio Cuniberto)
Robert
Schneider è nato a Bregenz in Austria nel
1961. Dopo anni di studi musicali, ha poi scelto la via della
scrittura. Con Le voci del mondo, tradotto in undici lingue,
ha vinto il Premio Itas, il Premio Grinzane Cavour, il Literaturpreis
di Salisburgo e il Premio Médicis. Di Schneider anche
Maudi che camminava sull'aria e Cara signora America.
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