PROBLEMATICA
APPARTENENZA
( – un
capitolo del saggio Diritto di fuga – )
Sandro
Mezzadra
Vi è in effetti il rischio consistente che le retoriche
e le teorie del multiculturalismo finiscano per alimentare
un’immagine stereotipata dell’ “altro”,
in una messa in scena di una sorta di fiera delle differenze
in cui i rappresentanti delle diverse “etnie” espongono
le proprie peculiarità “culturali” di fronte
a un cittadino bianco e occidentale che, secondo un modello
di chiara derivazione coloniale, viene pensato come etnicamente “neutro” (cfr.
Zizek, 1977, p. 37). Nuovi confini, di cui si intravedono robuste
tracce non solo nelle metropoli statunitensi ma anche in Europa,
sorgerebbero così a frantumare ulteriormente il profilo
della cittadinanza. È una buona ragione per far valere
con forza, contro “l’esistenzialismo” che
circola abbondantemente nel dibattito sul multiculturalismo,
lo spiazzamento a cui allude una categoria come quella, proposta
da Homi Bhabha (1994), di in-between: il fatto cioè che, “allorché si
interviene in un mondo interconnesso, si è sempre, in
varia misura, ‘inautentici’: presi tra certe culture,
implicati in altre” (Clifford 1988, p.24).
D’altro canto, non si può tacere che molto spesso
le posizioni che valorizzano questa circostanza si riducono
a un’apologia meramente estetica delle identità nomadi
e “ibridi” (Zizek 1998, pp. 80 s,), totalmente
(e cinicamente) inconsapevole del carico di “pena e dolore” – per
riprendere le parole rivolte a Eumeo da Odisseo, figura archetipica
della produttività del “peregrinare” – che
accompagna quotidianamente “la vita raminga” (Od.,
XV, 345), l’esperienza del nomadismo e dell’ “ibridismo” da
parte dei migranti. Lungi dall’indugiare nella contemplazione
della presunta libertà resa possibile dallo sradicamento,
si tratterebbe piuttosto di individuare nei processi di ibridazione
culturale – oltre che il potente laboratorio collettivo
a cui attinge una delle industrie dominanti nel tempo della “globalizzazione”,
quella “culturale” – il contraddittorio formarsi
di una nuova figura dell’universale, che ancora attende
di essere interpretata e valorizzata politicamente.
Una riflessione su cittadinanza e immigrazione che, come quella
qui proposta, assuma come uno dei suoi elementi qualificanti
la critica della funzione politica del confine non può infatti
che collocarsi in una prospettiva che riconosca come inderogabile
un impianto universalistico. Ciò non equivale a obliterare
la consapevolezza degli elementi particolari che, tanto sotto
il profilo storico quanto sotto il profilo teorico, segnano
indelebilmente la formulazione del paradigma universalistico
occidentale né ad accantonare la sfida che è stata
positivamente portata a tale paradigma del concreto insorgere
di un discorso e di una politica delle “differenze”.
Il linguaggio dei diritti e della cittadinanza, tuttavia, non
può essere amputato della sua tendenza all’universalizzazione
senza rovesciarsi in un mero strumento di difesa dello status
quo e di legittimazione del dominio. Quand’anche si attraversi
fino in fondo la critica ad ogni “fondazione” filosofica
universalistica dei diritti si dovrà comunque riconoscere
la presenza di “un elemento espansivo, tendenzialmente
universale”: il “gesto, tipicamente umano, di sollevarsi
e di reagire, di affermare la propria dignità” (Baccelli
1999, p. 193).
È
chiaro che una simile prospettiva, per quanto sia ben lungi
dal sottovalutare l’individuazione di specifiche tecniche
giuridiche in grado di proteggere e di garantire i diritti,
tende a porre l’accento sugli elementi “attivistici” dell’affermazione,
della rivendicazione e della mobilitazione per ottenere il
riconoscimento dei diritti stessi. L’universalismo di
cui qui si parla. conseguentemente, viene a perdere ogni tratto
di naturale e pacifica assolutezza per caratterizzarsi come
problematico, come posta in palio all’interno di un conflitto
in cui si esprimono molteplici istanze “particolari”.
Questa prospettiva, applicata ai temi che qui interessano,
costringe a pensare in modo nuovo il nesso tra diritti e appartenenza,
che costituisce – storicamente e teoricamente – il
vero punto di equilibrio tra universalismo e particolarismo
nel discorso sulla cittadinanza. Molti studiosi, in questo
senso, sottolineano come le “differenze” di cui
sarebbero portatori i migranti non costituiscano elementi inconciliabili
con qualsivoglia concezione democratica dell’appartenenza,
e si dispongano piuttosto in una linea di continuità con
il “pluralismo” di immagini del mondo, interessi
e “lealtà” che costituisce un elemento strutturale
delle società moderne. In questa prospettiva, il riconoscimento
ai migranti di “quei diritti politici, civili e sociali
che permettono a noi di partecipare come membri a pieno titolo
della società in tutti gli aspetti della vita comune “promuoverebbe
il loro senso di appartenenza e contribuirebbe a stemperare
possibili conflitti (Spencer 1995, p. 13).
C’è molta ragionevolezza in queste posizioni.
E tuttavia ciò non deve far dimenticare che i migranti,
considerati dal punti di vista dell’’ “appartenenza”,
presentano caratteristiche peculiari: alla richiesta di “cambiamento
di giurisdizione” di cui è espressione il fatto
stesso della migrazione (crf. Gambino 1996), alla fuga da uno
spazio politico, sociale e culturale non fa infatti quasi mai
riscontro, come si è detto, una richiesta di piena adesione
a un nuovo spazio politico, sociale e culturale. Sono proprio
questi tratti equivoci e ambivalenti dell’identità dei
migranti che si tratta oggi di valorizzare, a partire dalla
consapevolezza che sotto questo profilo essi non rappresentano
in alcun modo un’eccezione assoluta nelle società occidentali
contemporanee. Comportamenti soggettivi di secessione (di exit.
per dirla con Albert O. Hirschman) si sono diffusi in modo
crescente negli ultimi anni all’interno della stessa
filigrana della cittadinanza. Non si tratta di fenomeni circoscrivibili
alle rivendicazioni di separazione territoriale che hanno caratterizzato
la storia recente del nostro paese (e non solo), all’ “esodo
fiscale” o alla tendenza all’autosegregazione in “comunità recintate” di
vecchi e nuovi ricchi in Europa così come negli Stati
Uniti. Comportamenti di “secessione” ed exit hanno
posto in crisi anche “dal basso”, a partire dai
movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, le tradizionali
concezioni dell’appartenenza: basti pensare alla critica
femminista al modello di famiglia che ha rappresentato uno
dei puntelli fondamentali della stessa cittadinanza democratica
nell’età del pieno sviluppo del Welfare State,
alla crisi dell’ “etica del lavoro” come
collante sociale, ai comportamenti di rifiuto e di diffidenza
nei confronti di ogni immagine prestabilita del “Noi” che
oggi improntano molte costruzioni identitarie delle giovani
generazioni (Dal Lago, Molinari, a. c. di, 2001).
La questione del rapporto tra cittadinanza e immigrazione,
in questo senso, si pone oggi all’interno di società che
registrano una crescente incertezza circa la “precisa,
articolata antropologia”, circa l’immagine del
soggetto dei diritti che, costruita entro una complessa trama
di inclusioni e di esclusioni, ha sostenuto per oltre due secoli
lo sviluppo del discorso della cittadinanza (cfr. Costa 1999,
p. 569 e Santoro 1999). Mentre la naturalizzazione dei migranti
continua a presupporre l’espressione di un consenso volontario
a una concezione determinata – in ultima istanza nazionale – dell’appartenenza, “un
volontarismo di cui la maggior parte dei cittadini [...] non
fa mai esperienza” (Honig 1998, p. 14), la trama di rapporti
e di “lealtà” espressa da quella concezione
dell’appartenenza si presenta vieppiù fragile
e lacerata. È possibile una “politica della cittadinanza” che
valorizzi, per riprendere la traccia di una riflessione filosofica
che ha in Jean-François Lyotard e in Jean-Luc Nancy
i propri ineludibili punti di riferimento, l’elemento
del “dissidio”, l’esperienza comune della
non appartenenza, la rivendicazione collettiva di un’irripetibile
differenza? In ogni caso, se si vuole contrastare la tendenza
della cittadinanza a porsi come una condizione duramente esclusiva,
occorre lavorare a riaprirne teoricamente e praticamente il
movimento costitutivo, guardando alla stessa appartenenza non
come a uno “status legale”, ma come “una
forma di identificazione , un tipo di identità politica:
qualcosa che deve essere costruito e non di empiricamente dato” (Mouffe
1992, p. 231). I migranti, con il semplice fatto della loro
presenza nelle nostre società, costituiscono un potente
impulso a lavorare in questo senso.
Sandro Mezzadra, è ricercatore
di Storia delle dottrine politiche (con incarico di Storia del
pensiero politico
contemporaneo) presso
la Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Tra
le sue pubblicazioni: La costituzione del sociale. Il pensiero
giuridico e politico di Hugo Preuss, Il Mulino, 1999, e con A.
Petrillo a curato I confini della globalizzazione. Cultura,
lavoro, cittadinanza, Manifestolibri, 2000.
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